di Elena Actis
In un’epoca attraversata da crisi globali e profonde trasformazioni sociali, i giovani sono chiamati a incarnare la speranza. Ma cosa significa sperare, oggi? E quale ruolo possono avere lo sport, la cultura, i musei e la memoria in questo percorso?
Ne abbiamo parlato con una protagonista del panorama culturale e sportivo italiano: Evelina Christillin, storica, manager culturale e dirigente sportiva. Laureata in Storia e con una lunga esperienza accademica, è attualmente presidente della Fondazione Museo Egizio di Torino. Ha ricoperto ruoli di primo piano nel mondo dello sport internazionale: tra gli altri, è stata membro del Comitato Esecutivo UEFA e fa parte del Consiglio FIFA. Inoltre, è stata Presidente dell’ENIT, del Teatro Stabile di Torino e dell’Orchestra Filarmonica del Teatro Regio Attiva nel promuovere cultura, inclusione e parità di genere, è considerata una delle voci più autorevoli nel dialogo tra sport, cultura e società.
Il Giubileo di quest’anno ha posto al centro dell’attenzione pubblica il tema della speranza. Dai suoi molteplici “osservatori”, che le permettono di vivere le giovani generazioni giorno per giorno, ci sono tratti e caratteristiche proprie dei giovani che fanno ben “sperare”, che le fanno nutrire speranza per il futuro?
Se c’è qualcuno che, in senso generazionale, deve avere speranza, sono i giovani. Perché, altrimenti, il mondo – letteralmente – finisce.
Viviamo un tempo segnato da guerre, dazi, instabilità geopolitica e leadership poco affidabili. Nella mia vita, non mi ero mai trovata a vivere un contesto internazionale così complesso. Però, è proprio nei momenti di difficoltà che bisogna rimboccarsi le maniche, e spetta ai giovani costruire relazioni, creare nuove visioni.
Rispetto alle generazioni precedenti, i ragazzi di oggi – mi riferisco in particolare ai e alle giovani dai trent’anni in giù – mostrano una disponibilità e una consapevolezza profonda, anche nel linguaggio, su temi cruciali come l’ambiente e l’inclusione. Senza arrivare agli eccessi del politicamente corretto, ciò che vent’anni fa non veniva nemmeno considerato oggi è al centro del dibattito. Esiste una sensibilità profonda. Per questo, già a partire dai comportamenti, secondo me, c’è speranza.
Allo stesso tempo, non si può tralasciare il fatto che il nostro Paese è gerontocratico, si nasce sempre meno, e chi ha il potere tende a non lasciarlo. Le difficoltà occupazionali e la mancanza di prospettive spingono molti ad andare all’estero; ma attenzione: dobbiamo smettere di pensare in termini puramente nazionali. L’Europa deve diventare il nostro orizzonte naturale: un giovane italiano che lavora in Olanda, in Francia o in Svezia non è un migrante, è parte di una grande comunità. Noi più grandi dobbiamo prendere consapevolezza di ciò.

La sua attività le permette di essere sempre in contatto con il mondo sportivo italiano e internazionale, a vari livelli. Per questo, vorremmo domandarle: qual è lo stato dello sport giovanile italiano? Come vede lei il rapporto tra sport e giovani?
Per quanto riguarda lo sport agonistico, i risultati degli atleti italiani sono eccezionali, molto performanti, soprattutto se si considerano le dimensioni ridotte del Paese e i pochi investimenti fatti. La possibilità di conciliare studio e sport agonistico in Italia è ancora limitata, ancor più nel momento in cui la si paragoni a grandi potenze sportive come l’Inghilterra o gli Stati Uniti. Ai miei tempi, fare sport era addirittura penalizzante a scuola.
Ma oltre ai risultati agonistici, esistono ovviamente altre dimensioni dello sport. Ad esempio: quella delle infrastrutture sportive che – come sappiamo – nel nostro Paese sono vecchie e obsolete; quella dei progetti educativi carenti; e – drammaticamente, a volte – le violenze taciute. Proprio a questo proposito, due anni fa ho coordinato – con il Ministero dello Sport e Fiona May – un gruppo di lavoro che ha coinvolto federazioni e associazioni, ad esempio Save the Children e ARCI. Ne è nato il documento Battiamo il silenzio, che affronta proprio il tema della tutela dei minori nello sport, con particolare attenzione agli abusi fisici e psicologici.
In questo momento di disordine globale, crede che lo sport possa tornare ad essere un motore di pace e dialogo?
Io ci credo profondamente; ma – proprio per i ruoli che ricopro e ho avuto nello sport a livello internazionale – mi sono confrontata con decisioni difficili, come la sospensione della Russia da tutte le competizioni UEFA (gli Europei di calcio come le sfide tra club). Personalmente, ritengo che sia giusto non addossare responsabilità per la situazione politica agli atleti individuali; però, quando si parla di squadre, con bandiere e inni, la rappresentanza è nazionale, non personale… e lì bisogna fare i conti con la realtà.
Vorrei anche aggiungere che esistono delle disparità di trattamento. Mi trovo a far parte del Consiglio della FIFA e lì c’è, ormai da anni, la questione delle sei squadre israeliane che giocano nei territori occupati della West Bank. È un tema che i rappresentanti palestinesi sollevano ogni anno. Non si tratta di squalificare Israele, ma di affrontare un nodo giuridico e politico serio.
Lo sport può essere una grande macchina propagandistica, è vero: al riguardo, gli episodi nel passato non si contano. Lo sport però è importante che preservi la sua funzione di ponte, non può essere una barriera. È responsabilità nostra fare in modo che unisca, non divida. Tra gli atleti peraltro è già così: l’ho potuto verificare da atleta pri- ma e da dirigente poi. Il rapporto umano ha sempre la meglio.
Come dicevamo, la parola di questo Giubileo è “Speranza”. Cosa significa per lei in un periodo così fragile e di grandi polarizzazioni?
È un sentimento, una pratica, una responsabilità? Penso che, per noi che siamo vecchi – o grandi? –, la “Speranza” sia più che altro una responsabilità. Ormai cinque anni fa, durante il Covid, insieme a Christian Greco, il Direttore del Museo Egizio, abbiamo scritto un libro intitolato Le memorie del futuro, intendendo che noi, che siamo ormai “memoria”, dobbiamo trasmettere qualcosa a chi verrà. È questo il nostro compito: essere i cultori della memoria proiettata verso il futuro. Se questa non è “speranza”, che cosa lo è? Ciò vuol dire anche dare una responsabilità a chi arriva, che dovrà farsi carico della memoria.
“Mi trovo a far parte del Consiglio della FIFA e lì c’è, ormai da anni, la questione delle sei squadre israeliane che giocano nei territori occupati della West Bank. È un tema che i rappresentanti palestinesi sollevano ogni anno. Non si tratta di squalificare Israele, ma di affrontare un nodo giuridico e politico serio.“
La sua attività le permette di avere una visione d’insieme anche di un altro ambito in cui è importante coltivare il rapporto con i giovani, quello dei musei. Le sembra che il mondo museale italiano stia facendo tutto il necessario per coinvolgere le giovani generazioni?
Il museo, oggi, non è più il “tempio polveroso” per pochi eletti. È comunità, accoglienza, apertura. E per parlare ai giovani bisogna cambiare linguaggi, contaminare saperi, usare la tecnologia. Finalmente, il sistema museale italiano si sta sgravando del cliché, secondo il quale il museo sarebbe una sorta di locus amoenus dei sapienti. Ad esempio, nel Museo Egizio, abbiamo mostre interattive, ricostruzioni virtuali, artisti residenti, summer school con le università. I ragazzi possono toccare gli oggetti, sperimentare, capire davvero cosa c’è dietro il “prodotto finale”.
Importante è anche la contestualizzazione storica, antropologica, geografica. Nei musei, del resto, lavorano non soltanto gli archeologi o gli esperti di arte, ma cultori di ogni disciplina, dagli psicologi ai medici, dai filosofi agli ingegneri: si tratta di un lavoro collettivo in cui sono coinvolti tutti. Inoltre, noi – pur essendo un museo archeologico – abbiamo cinque artisti di arte contemporanea residenti che collaborano con il museo: si tratta di una continua contaminazione di discipline diverse che convivono tranquillamente e in maniera fertile.
L’ultima domanda è più personale: ci farebbe piacere sapere qual è il suo rapporto con il “Giubileo”? Ha dei ricordi che la legano ad un Giubileo in particolare?
Se devo essere sincera, ho attraversato la Porta Santa per la prima volta quest’anno. Era il 3 febbraio, in occasione di un incontro in Vaticano voluto da Papa Francesco sulla tutela dell’infanzia. C’erano capi di Stato, artisti, dirigenti sportivi… Un’occasione profondamente simbolica e coinvolgente. È stata una delle ultime apparizioni pubbliche di Papa Francesco. Quell’occasione e il passaggio della Porta Santa devo dire che mi hanno lasciato davvero qualcosa dentro.