Il Giubileo non esclude nessuno: pellegrini, credenti e curiosi trovano a Roma un tempo di fraternità, giustizia e speranza universale. Probabilmente rimane l’ultimo grande evento di popolo, almeno nel nostro occidente. In questo contributo, p. Antonio Spadaro, sacerdote, giornalista e sotto-segretario del Dicastero per la cultura e l’educazione, esplora questo concetto.
di Antonio Spadaro
Il Giubileo è una sveglia nella storia, il suono del corno di ariete – lo jobel – che interrompe la routine e richiama a un tempo diverso, liberante. È l’occasione di fermarsi, di sospendere l’ossessione della produzione e della guerra per riconsegnare all’uomo e alla terra il senso della loro dignità. Oggi suona come una utopia, ma l’appello resta e risuona.
Alle soglie del 2025 il mondo appare sgretolato. Papa Francesco ha denunciato la «guerra mondiale a pezzi» che oggi sembra saldarsi, riportando il peggio del Novecento. Leone prosegue il suo grido. La voce del Giubileo non cancella il dolore, ma lo attraversa e lo trasforma in invito alla speranza. È un urlo che diventa annuncio di resurrezione: «basta, adesso basta». Nella tradizione biblica il Giubileo significava tre cose: riposo della terra, restituzione delle proprietà, liberazione degli schiavi. Una rivoluzione semplice, che oggi ci ricorda l’urgenza della custodia del creato, la destinazione universale dei beni, la fraternità come unico orizzonte alternativo all’individualismo e alla rapina delle risorse. È un principio concreto di giustizia e di pace sociale.
Il Giubileo cristiano, istituito da Bonifacio VIII nel 1300, nacque come evento di popolo, capace di radunare pellegrini e cittadini, credenti e curiosi. In un’epoca segnata da conflitti e odi, seppe offrire un tempo di riconciliazione e perdono. Oggi mantiene questa vocazione: non è un appuntamento di nicchia, ma uno dei pochi rimasti che hanno una portata popolare universale.
Il Giubileo implica il movimento delle folle: pellegrini che arrivano a piedi, file davanti alle basiliche, preghiere mormorate in decine di lingue. Roma diventa un crocevia di storie e di speranze. La città stessa si trasforma: non solo capitale politica o turistica, ma piazza globale, luogo di fraternità. Non si entra da spettatori, ma da protagonisti di un’esperienza comune. Ed è qui che risuona forte l’appello di papa Francesco: todos, todos, todos. Una parola che allarga lo sguardo e abbatte muri invisibili. Significa che nessuno resta fuori: non solo i fedeli più devoti, ma anche i dubbiosi, i curiosi, chi non si riconosce in nessuna appartenenza religiosa. Tutti trovano posto, perché l’esperienza giubilare non è esclusiva ma inclusiva. È un linguaggio che non divide, ma unisce e invita a camminare insieme.
Il suo immaginario è corale e inclusivo. Evoca silenzio e pace contro il frastuono delle armi, invita a valorizzare il sabato che ci ricorda che la vita non si esaurisce nella catena di montaggio del consumo. Rende visibile il legame tra pace e giustizia, tra fede e cittadinanza, tra memoria e futuro.
In un mondo segnato da nazionalismi, polarizzazioni e solitudini, il Giubileo è ancora capace di aprire spazi comuni. Non perché tutti debbano condividere la stessa fede, ma perché restituisce un linguaggio che ricorda che la felicità – parola fragile ma necessaria – è possibile solo se condivisa. È un evento di popolo perché richiama alla radice stessa della convivenza: riconoscersi parte di un “noi” più grande.
