di Enza Malatino
Perché raccontare le storie dei migranti se sembrano tutte uguali?
Se possono ripetersi con lo stesso schema cento, mille volte, all’infinito per ogni protagonista? Perché continuare a ripetere storie dove tutto appare scontato: la partenza, le traversate del deserto e del mare, la ricerca di un nuovo inizio, la lotta per la sopravvivenza? Ha ancora significato raccontarle, quando il senso di impotenza che questi racconti generano ci autorizzano a voltarci dall’altra parte e a costruire una corazza difensiva, quando l’assuefazione alla vista delle quotidiane immagini di orrore che i media riportano spingono al cinismo e alla considerazione che gli esseri umani che popolano queste storie sono “altro da noi”?
Una cosa che ho imparato negli anni nei quali ho dato vita a gruppi di ascolto di migranti appena sbarcati a Lampedusa, dove ho lavorato per vent’anni come psichiatra, è stata quella che il valore intrinseco del racconto e del suo ascolto sta nel restituire all’altro la sua umanità. Ho compreso, in quella circostanza, che alla fine è proprio l’umanità che cura. Di fatto, i partecipanti ai gruppi di ascolto avevano meno bisogno di somministrazione di psicofarmaci rispetto a coloro che non vi prendevano parte.
I protagonisti delle storie che qui narrerò sono, prima di tutto, al di là delle zone di provenienza, esseri umani che, nella quasi totalità dei casi, sono stati ridotti “a bestie” per essere poi visti come “bestie” e trattati da “bestie”. Questa è la logica delle guerre e di tutte le nefandezze che le guerre si portano dietro assieme a morte, degrado, miseria umana e morale. Queste scelte disumane hanno spesso come scusante motivazioni di apparente giustizia, che legittimano e giustificano la brama di potere, l’avidità e l’incapacità di immaginare un mondo di convivenza pacifica, anche a causa di proiezioni paranoiche che spesso ottenebrano la mente di improbabili capi di governo.
Credo che nessuno potrebbe uccidere, umiliare, stuprare, segregare un altro essere umano senza prima ridurlo al rango di bestia. Nessuno potrebbe fare tutto questo guardando negli occhi una persona dicendole “ti uccido come un essere umano, ti uccido come un uomo, come un bambino, come una donna”.
Una tale aberrazione violerebbe la legge esistente in natura che sancisce che non si uccide nella stessa specie. Questo può accadere soltanto quando l’altro smette di essere percepito come un essere umano. Questo accade ogni volta che esseri umani abusano di altri esseri umani. Chi sceglie di rischiare di sopravvivere si vede costretto a salire su un barcone fatiscente e ad attraversare il deserto che non nasconde meno pericoli del mare.

Le motivazioni che hanno addotto i protagonisti delle storie che ho ascoltato a centinaia e che ho raccolto nel vecchio centro di accoglienza di Lampedusa hanno a che fare proprio con le vicende di miseria e dolore di cui tutti ormai siamo a conoscenza. Continuare a narrarle dà valore e restituisce umanità e dignità a tutte le persone che ho incontrato alle quali ho promesso che ogni qual volta avessi potuto avrei raccontato le loro vicissitudini.
In molti non comprendono il senso della scelta di affrontare condizioni esistenziali così difficili. Tuttavia, esistono vite che non lasciano alternative se non quelle di intraprendere strade così scoscese e tortuose pur conoscendone i rischi. Alcuni dicono che se le “cercano” queste sofferenze e queste torture proprio per la scelta di migrare.
Per comprenderle bisogna provare ad indossare, per un attimo, i panni di un padre, di una madre o di un giovane che vedono la propria famiglia morire letteralmente di fame o essere vittime di guerre che non hanno scelto e dalle quali cercano di salvare i loro cari e sé stessi.
Provate ad immaginare di essere una madre a bordo di una carretta del mare che fugge con la propria figlia da una zona di guerra.
Ha pagato dei soldi che non aveva, circa 2000 dollari perché il business della tratta degli esseri umani è implacabile ed impermeabile ad ogni forma di umanità, procurandoseli in maniera non convenzionale cioè vendendo il proprio corpo, la figlia ha 13 anni, hanno iniziato il viaggio da circa un anno, lei ha cercato di tenerla nascosta per evitare che potesse subire la stessa sorte che le era toccata per poter fuggire.
Sono due i barconi in partenza quel giorno, con a bordo improbabili capitani, senza alcuna esperienza, ai quali hanno fatto uno sconto per guidare quelle carrette dopo l’indicazione di una rotta sommaria ed un telefono satellitare per chiedere soccorso in fase di arrivo. I barconi navigano per due giorni con i motori che dopo qualche ora vanno in avaria, perdono la rotta e vagano in mezzo al mare trasportati dalle correnti.
Ad un certo punto il mare comincia ad ingrossarsi, le onde si fanno sempre più alte e una delle due carrette si inabissa. Decine di persone urlano disperate scomparendo tra le onde in poco tempo senza che nessuno possa aiutare nessuno. La donna è sconvolta come tutti lo sono sull’imbarcazione superstite.
La figlia in stato di shock comincia a tremare, lei la tiene stretta, capisce che la ragazzina ha la febbre. Dopo qualche ora, il mare si calma, il sole ricomincia a bruciare, la figlia continua a tremare per la febbre che sale sempre di più fino a quando sembra calmarsi e rilassarsi. Lei respira di sollievo pensando che stia meglio, che stia dormendo… ad un certo punto si accorge con orrore che non dà più segni di vita.
Era morta come diversi altri passeggeri, che erano già stati buttati in mare, morti per mancanza di acqua e di cibo. Disperata la stringe a sé reprimendo l’urlo di dolore che le scoppia dentro e continua a cullarla per tutto il viaggio fingendo di accudirla e darle un po’ di cibo per evitare che anche lei venga buttata in mare. Lo strazio dura altri due giorni fino a quando l’imbarcazione viene avvistata da una vedetta che li raccoglie in mare.
Questa storia mi è stata narrata da una ragazza quindicenne il cui padre, imbarcato insieme alla donna, aveva visto morire i suoi amici che si trovavano sul barcone naufragato, durante la traversata maledetta. La giovane adolescente che ha raccontato questa sto- ria faceva parte di una classe di un liceo francese di Nizza dove nel 2014 sono andata per portare un messaggio di sensibilizzazione e condivisione dell’esperienza del naufragio del 3 ottobre2013 da parte dei ragazzi del liceo di Lampedusa.
L’esperienza di quel naufragio fu veramente scioccante per gli abitanti dell’isola e per chiunque fosse stato lì in quel frangente, compresa me che vedevo arrivare al Poliambulatorio decine di persone sconvolte e sofferenti. Non dimenticherò mai una giovane ragazza salvata dal naufragio che aveva bevuto acqua di mare mista al carburante della barca che si era riversato in mare. Non sapevamo il suo nome e semicosciente si lamentava nella sua lingua, che noi non comprendevamo, mentre gli interpreti erano tutti impegnati sul molo con i sopravvissuti.
Fu in quella circostanza che decisi che bisognava cercare di creare il massimo livello di sensibilizzazione possibile. Facevo la psichiatra sull’isola da più di quindici anni e di storie ne avevo viste e sentite tante. Sentii che quei racconti dovevano essere conosciuti dal maggior numero di persone possibili, così da poter divenire fonte di conoscenza e riflessione collettiva. Sentii un enorme senso di responsabilità civile, non potevo assolutamente accettare di restare in silenzio.
Telefonai a Silvana Polizzi, all’epoca redattore capo di Rai Tre Regione Sicilia, che ovviamente mi disse che era informata e i giornalisti stavano per arrivare. Quella tragedia era così sconvolgente che sentivo il bisogno di gridare “basta facciamo qualcosa” e lo feci, in quel frangente, condividendola con Silvana, con la quale siamo state compagne di classe al liceo, e che rappresentava la possibilità di uscire dal senso di inutilità che provavo. In quel momento, sostenere da soli lo sconvolgimento di quell’evento ed il senso di impotenza era impossibile, questo a riprova del fatto che l’unico conforto che un esse- re umano può avere è la solidarietà di un altro essere umano.
E così era per gli abitanti dell’isola, per i ragazzi, per i bambini e per i soccorritori, nonostante l’abitudine ai salvataggi. Di ritorno a Palermo, visto che il mio lavoro a Lampedusa durava due giorni a settimana, telefonai ad Adriana Palmeri, cara amica impegnata nelle politiche del sociale, lei diede vita ad un Tam-tam di telefonate che mi condussero ad incontrare Simona Mafai, splendida persona, intelligente, colta e sensibile, che rimarrà per sempre nel mio cuore, che organizzò, con l’aiuto delle donne dell’UDI e con il sostegno anche di Daniela Dioguardi, un incontro ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, avendo modo di raccontare l’orrore di cui ero stata testimone.
In quella circostanza maturarono una serie di incontri che mi hanno portata ad essere ancora qui a scrivere di queste storie. Incontrai Angela Lanza, che si offerse di scrivere il libro La storia di uno è la storia di tutti e incontrai Pina Mandolfo, regista che assieme a Maria Grazia Lo Cicero si offersero di raccontare le storie in un film dal titolo Orizzonti Mediterranei.
Con questo film abbiamo potuto creare momenti di sensibilizzazione e conoscenza dei fatti in molte città d’Italia, all’Università di Vienna e alla Columbia University di New York. Contemporaneamente la Preside del Liceo di Lampedusa accettò di fare un gemellaggio con La scuola Biancheri Cavour di Ventimiglia, altra città di frontiera e di passaggio di migranti.
I ragazzi liguri crearono un vero ponte di solidarietà scambiandosi visite con quelli di Lampedusa e pubblicarono un libro di storie che riguardavano i loro parenti immigrati e scritti di loro poesie. È stato possibile, inoltre, incontrare i ragazzi di un liceo di Nizza, lì ho portato le testimonianze dei ragazzi dell’Istituto Comprensivo G. Tomasi di Lampedusa che avevano preparato dei video e dei messaggi di condivisione dei propri vissuti.
Fu in quella circostanza che, la giovane studentessa quindicenne ebbe il coraggio di alzarsi e raccontare di fronte ai compagni di classe, che ignoravano la sua storia, la sua provenienza e la storia di suo padre, il quale aveva assistito alla morte dei suoi amici e allo strazio della madre che fingeva di nutrire la figlia morta per non farla gettare in mare: l’ultimo atto che poté fare per lei fu di darle almeno una degna sepoltura ed evitare che il corpo fosse divorato dai pesci.
Queste e tante altre storie sono state condivise e spero di poter continuare a condividerne ancora delle altre perché le storie dei migranti non sono solo storie di dolore, sofferenza e violenza. Sebbene siano difficili da raccontare e da ascoltare esse sono il simbolo della lotta per la sopravvivenza che ogni essere umano ingaggia con la vita, sono storie di coraggio e di resilienza e possono essere fonte di ispirazione e riflessione sulla condizione umana, sulla capacità di affrontare e superare le avversità, sulla spinta al cambiamento e alla ricerca di nuove soluzioni per migliorare la propria condizione.

Sono storie di disperazione, ma sono anche il simbolo della speranza di ogni essere vivente che non si rassegna e non si arrende ad un destino di morte e di miseria. Esse vanno raccontate proprio perché come mi disse un migrante in un gruppo di ascolto: “qui la storia di uno è la storia di tutti”.
E concludo raccontando di quel giorno in cui un una bambina nacque sull’isola di Lampedusa, ancora a bordo del barcone: la prima nascita sull’isola dopo tanti anni perché a Lampedusa c’è un Poliambulatorio ma non un reparto ospedaliero di ginecologia dove possano essere affrontati i parti.
Incontrai la famiglia composta dai giovanissimi genitori di questa piccola, alla quale erano state procurate dalle infermiere e da alcuni abitanti dell’isola dei vestitini. I lampedusani in queste circostanze si sono sempre dimostrati generosi. I due giovani genitori guardavano quella piccolina come rapiti.
In quel momento mi resi conto che non avevano nulla, a parte qualche tutina. Quella bimba non aveva ricevuto alcun regalo, stavano per essere trasferiti e non avevo niente con me. Mi ricordai di avere un penny inglese che mio figlio mi aveva regalato, lui immigrato di lusso a Londra, così istintivamente lo diedi ai giovani ragazzi dicendo loro “may it brings good luck for the baby”.
Sorrisero ed annuirono poi furono subito chiamati per partire. Non saprò mai come si chiama quella bimba ma per me il suo nome è Speranza.