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La forza dei miti e il potere dei perdenti

La Teshuvà e il ritorno a Dio che genera solidarietà

A cura di Giovanna Martelli e David Dattilo

Padre Massimiliano Parrella, parroco a Primavalle e dal 2022 Casante dell’Opera Don Calabria, è un sacerdote che cammina con la gente, condividendo la vita di chi spesso resta ai margini. Con il cuore rivolto agli ultimi, alla pace e alla cura del creato, incarna lo stile di una “Chiesa in uscita” che sa farsi prossima e accogliente. Padre Massimiliano raccoglie l’eredità del fondatore dell’Opera, San Giovanni Calabria, fedele antenna della volontà di Dio,la porta in comunione con la Famiglia Calabriana nelle missioni disseminate nei cinque continenti e dedicate agli invisibili. “Una invisibilità che, analizzando situazioni diverse e ricorrenti, coinvolge gran parte degli esseri umani. Nelle “slum” delle metropoli, campi profughi di tutte le guerre, esodi e migrazioni, campagne dove milioni di donne e uomini vengono estromessi dalla terra e dal lavoro ad opera del turbocapitalismo, proprio nel tempo in cui tutto diventa progetto funzionale dal risultato ben verificabile, perché si tratta di persone fuori dai dati, dalle statistiche, dai target, di non consumatori. Accesso all’acqua, cibo, salute, abitazione, infrastrutture, educazione sono possibili solo se si contrasta tale invisibilità, se la si combatte, da parte di chi la subisce, riscattando quell’immaginario violato, frutto dell’invisibilità divenuta progetto e nascondimento, visione del mondo e delle relazioni che ignora e rigetta le risorse culturali, personali e comunitarie degli invisibili (Walter Rinaldi 2008 – la formazione tra “vite di scarto” e “vita buona”). Con la sua lettera “la forza dei miti e il potere dei perdenti”, Padre Max, ci conduce dentro una riflessione profonda sul senso della mitezza e sul suo valore evangelico in un tempo di conflitti e fratture. Lungo le pagine emerge con chiarezza come la logica del Vangelo rovesci i criteri del mondo: ciò che appare debole diventa forza, ciò che è scartato si rivela fecondo, ciò che sembra perdente custodisce la vera vittoria, ciò che è invisibile evolve in manifesto. In questa prospettiva, il ritorno a Dio, non è solo un gesto individuale, ma un movimento che riguarda l’intera comunità: spezza il tempo della violenza e apre alla ricomposizione della comunione. È un cammino che genera solidarietà, che trasforma le ferite in promessa, che rende il passato una sorgente di futuro. L’approfondimento del testo nelle quattro suggestioni qui proposte il tempo che si spezza e si ricompone, il ritorno che genera fraternità, la memoria che diventa profezia e la ferita che si trasforma in promessa – ci fa leggere la mitezza non come virtù passiva, ma come forza attiva e rivoluzionaria. Una forza che costruisce la pace, apre strade di riconciliazione e ridona speranza al nostro mondo. Se i miti erediteranno la terra, è perché hanno saputo accogliere questa logica disarmante del Vangelo, capace di rinnovare la storia senza violenza e senza dominio. Il cammino della mitezza non è evasione, ma rivoluzione interiore che genera comunità nuove. In un mondo segnato da guerre e divisioni, la teshuvà è il momento in cui dobbiamo prendere atto del miracolo della nostra esistenza, che si rinnova con continua e prodigiosa vitalità malgrado le debolezze umane, è esprimere gratitudine per questo e cercare di meritare con il nostro comportamento ‘grazia, amore e misericordia’ dall’Alto e dalle persone.

di Padre Massimiliano Parrella – Casante Opera Don Calabria

Teshuvà: il tempo che si spezza, la comunione che ricompone

Il documento “La forza dei miti” si apre con una diagnosi del nostro tempo: un’epoca segnata dalla guerra, dal dominio della potenza e dalla ricerca affannata di successo e visibilità. Questo “tempo che si spezza” non riguarda solo la società civile, ma anche la Chiesa, spesso tentata dall’ansia di risultati e dalla paura di perdere rilevanza. La teshuvà ci indica la strada del ritorno a Dio, un esame continuo della nostra anima. È l’atto del voltarsi indietro, della presa di coscienza dei nostri mancamenti, del coraggio del cambiamento.
La logica di Dio è paradossale: non sceglie i forti, ma i deboli; non si manifesta nella potenza, ma nella fragilità. Il filo rosso della Scrittura mostra che ciò che il mondo scarta, Dio lo rende sorgente di vita. La vera forza, allora, è la mitezza, quella che Gesù ha incarnato fino alla croce, e che San Paolo ha sintetizzato nella sua esperienza mistica: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Questo ribaltamento invita a un nuovo vocabolario del cuore: la forza che salva non è dominio, ma dono; non conquista, ma comunione. In un tempo di fratture, la teshuvà è il gesto che riconcilia con Dio e con la storia, riportando unità dove domina la divisione.

Il ritorno che genera solidarietà

Il ritorno a Dio produce un frutto concreto: la solidarietà. Gesù proclama: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Non è una promessa astratta, ma la logica del Regno, che capovolge i criteri umani di successo. I miti non sono deboli né passivi: sono coloro che hanno imparato a resistere al male senza riprodurlo, a non farsi dominare dall’ira, a rispondere al disprezzo con la benedizione. In “la forza dei miti” si narra come come il vivere in comunione sia stato incarnato da illustri «perdenti vittoriosi»: Rut, Davide, Mosè, Geremia, Maria di Nazaret, Gesù, Stefano, Francesco d’Assisi, Pier Giorgio Frassati e San Giovanni Calabria. In tutti loro si vede che la vera vittoria non consiste nel dominare, ma nell’amare; non nel conquistare territori, ma cuori.
La sorellanza e la fraternità non nascono quindi dalla forza che divide, ma dal ritorno che unisce. Esse sono rese visibili nella scelta della mitezza come arma rivoluzionaria, capace di costruire pace. Qui risuona forte il messaggio evangelico: «Possederanno la terra» non significa dominare, ma custodire; non sfruttare. È far fiorire.

Quando il passato diventa futuro: la forza della teshuvà

La teshuvà non è una semplice ritualità. Rav Jonathan Sacks in uno dei suoi ultimi messaggi per lo Yom Kippur, scrive: “Ognuno di noi può crescere e migliorarsi: basta che lo voglia intensamente”. Questa è la forza della Teshuvà, aggiunge Rav Sacks: “Più studiavo e facevo ricerca, più mi rendevo conto che l’ebraismo era il primo sistema di pensiero al mondo a sviluppare un chiaro senso del libero arbitrio umano. Come disse argutamente Isaac Bashevis Singer, “Dobbiamo essere liberi; non abbiamo scelta”.

Questa è l’idea alla base della teshuvà. Non solo ammettere il male fatto, non solo confessione, non solo dire Al chet shechatanu (per il peccato che abbiamo commesso). Non è solo rimorso o pentimento: Ashamnu (siamo stati colpevoli). È la determinazione a cambiare, la decisione che imparerò dai miei errori, che agirò diversamente in futuro, purché abbia deciso di diventare migliore, di modificarmi, di essere un diverso tipo di persona” Don Giovanni Calabria è presentato come «profeta della piccolezza»: la sua opera non nasce dal desiderio di grandezza umana, ma dalla fiducia radicale nella Provvidenza. Nelle sue lettere ricorda che l’Opera sarà grande solo se resterà piccola, povera e vicina ai più fragili.

Questo stesso filo lega i Papi del Novecento fino a Francesco. Paolo VI ha visto nella mitezza l’anima del dialogo, Giovanni Paolo I ne ha incarnato la bontà disarmante, Giovanni Paolo II ha mostrato che la forza del perdono è più potente della violenza, Benedetto XVI ha unito verità e carità come stile mite, Papa Francesco ha elevato la mitezza a chiave per la pace universale.

In tutti loro la logica evangelica appare chiara: la Chiesa non cresce per potere o proselitismo, piuttosto per testimonianza di vita. Vivere il Vangelo è accogliere dentro di sé il Magnificat: Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.

La ferita e la promessa: il ritorno che trasforma

La conclusione del documento apre lo sguardo sul presente: guerre, fame, migrazioni forzate. Sono le ferite del mondo che chiedono di essere toccate con le mani della mitezza. Il ritorno a Dio qui si mostra come la scelta di non rispondere con le armi della violenza, ma con la pazienza dell’amore, la cura delle relazioni, la vicinanza agli scartati. Le piste concrete per vivere da miti oggi sono un progetto di vita: custodire il cuore, cercare relazioni riconciliate, parlare con mitezza, servire senza visibilità, custodire la speranza e accogliere i perdenti.
Tutto questo diventa promessa: se la Chiesa e i credenti sapranno essere miti, il futuro sarà segnato non dall’odio, ma dalla sorellanza e dalla fraternità. Il testo si chiude con una domanda radicale: abbiamo il coraggio di «perdere» per amore? È qui che la ferita diventa promessa: accettare di non avere successo secondo il mondo, per rivelare la forza di Dio. È la logica della Croce che apre alla Resurrezione, della debolezza che diventa potenza.

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