Il tempo delle donne

di Alessandra Bocchetti

Il tempo è una dimensione che sembrerebbe uguale per tutti. Un anno è un anno per tutti, così un’ora, un minuto. Invece non è vero. Ricordo come ci spiegavano a scuola il concetto della relatività del tempo. La facevano facile, Einstein e Bergson. Se hai un appuntamento a cui tieni molto, per arrivare all’ora, il tempo non passa mai, si fa lento, se invece ti stai divertendo con gli amici il tempo passa in fretta, il tempo vola. Insomma non c’è il tempo senza una coscienza.

Shabbàt è un’esperienza del tempo che uomini e donne sono chiamati a fare. ”Fermati!”. Dice la tradizione: la conquista del mondo si arresti, è durata sei giorni, il settimo giorno è per la casa, per gli affetti, per Dio. La donna della casa accende due candele e, fino al tramonto del giorno dopo, niente può essere intrapreso. Il tempo della casa è un tempo quieto, direi fermo a significare quei valori che sono universali ed eterni. Uomini e donne insieme…ma uomini e donne sono un insieme?

Ogni volta che mi si propone una riflessione sul tempo non posso fare a meno di ricordare un seminario che abbiamo fatto al Centro Culturale Virginia Woolf a metà degli anni ‘80. “Esiste un’esperienza del tempo femminile?” questa era la domanda a cui dovevamo rispondere, era la nostra ipotesi di ricerca. Si iscrissero 40 donne e lavorammo insieme per 6 mesi raccontandoci e pensando la vita materiale di ciascuna nel rapporto con il tempo. Fu un’esperienza indimenticabile.

Il Virginia Woolf era lo spazio dove si esercitava per eccellenza il pensiero critico femminile, impegnato, in quegli anni, in una grandiosa destrutturazione del pensiero dominante, era frequentato solo da donne, da donne coltissime, studiose ma anche da donne che avevano magari solo la quinta elementare e questo insieme, che in nessuna altra parte del mondo si poteva incontrare, produceva un sapere fresco, nuovo. Le donne pensavano e amavano pensare insieme. Si usciva sempre con delle verità in tasca e la sensazione di essere cresciute.

Come era il nostro tempo? Era fermo o accelerato, volava o stagnava. Quando avremmo voluto che si fermasse? Quando avremmo voluto cancellarlo o accelerarlo. Come era il tempo nel dolore, nella gioia, nella fatica, nel riposo, nei sogni. Il tempo all’aperto? Il tempo ossigenato, Il tempo al chiuso? L’odore di stantio. Il tempo a casa, il tempo fuori, il tempo alla finestra a guardare la vita di fuori.

Si, una donna disse proprio così. Viveva due tempi. Si metteva alla finestra a guardare la vita che era fuori e lei invece si sentiva chiusa, aveva avuto da pochi giorni un bambino e nonostante le tante cose nuove che doveva fare, che sapeva e non sapeva fare, le sembrava di vivere il tempo fermo di una prigione. Il racconto ufficiale della cultura a cui apparteniamo vuole una donna felice accanto alla sua creatura, ma il pensiero delle donne poteva raccontare storie diverse. Ci voleva coraggio. Questo è certo, eravamo donne coraggiose che cercavamo la verità di noi stesse, fuori dai luoghi comuni, dai quadretti zuccherosi, dalle aspettative altrui.

Mi ricordo che io cominciai raccontando che passeggiando per il cimitero degli inglesi a Roma, che è un bellissimo giardino, la mia attenzione fu attratta da due tombe, che solo l’ironia della sorte aveva potuto mettere vicine. La tomba di un signore e quella di una signora, le date di nascita e di morte pressappoco coincidevano, avevano vissuto alla fine dell’Ottocento entrambi. L’epitaffio della signora diceva “fu figlia, moglie, madre esemplare” e quello di lui diceva semplicemente “Amò il bello”. Ora se lasciamo lavorare l’immaginazione la signora ha vissuto sempre in un interno. E’ sempre in una casa che questa donna ha trovato il suo senso. Era inglese, è morta a Roma, evidentemente viaggiava, ma la memoria concessale è chiusa tra quattro mura. Il suo tempo è quieto. Per il suo vicino invece, il signore che “amò il bello” , lo scenario che ci si presenta è tutt’altro. Era il tempo del gran tour, i giovani rampolli delle famiglie abbienti, eleganti e vestiti di bianco con un bel panama in testa, così ce li immaginiamo, giravano l’Italia in cerca della bellezza. Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo, questo era il giro. Ecco, vediamo il nostro nell’aria azzurra di Capri, agli scavi di Pompei, al teatro romano di Taormina, instancabile, il tempo per lui correva. Lo vediamo a Roma di fronte al Colosseo che al lume di una torcia recitava le “Metamorfosi” di Ovidio e forse proprio lì una malvagia zanzara lo punse e mise fine alla sua esistenza. Roma era malsana d’estate, pericolosa, si moriva di malaria. Magari fu la stessa zanzara, la nostra immaginazione corre, a far fuori la signora accanto, chissà, sua coetanea, sua connazionale, ma quanto differenti i destini, i piaceri, le luci, i profumi, quanto il tempo fu differente per loro.

Una donna, si chiamava Fernanda, un giorno prese la parola e raccontò: non ho mai fatto un viaggio, sì a vedere il mare a Ostia ci sono stata, ma partire proprio partire no. La mia vita è stata “regolare”, un marito, tre figli, non ci siamo potuti permettere altro. Ogni tanto una pizza la sera per celebrare qualcosa. Poi un giorno mi sono ammalata e sono andata all’ospedale dove mi hanno operato. Sono stata lì una settimana. Una settimana a letto, le infermiere non ci facevano mancare niente e con le altre ricoverate ci raccontavamo le nostre storie. Era bello, lo so che può risultare strano, ma io mi sentivo contenta. I figli li vedevo alle tre del pomeriggio, me li portavano all’orario delle visite, erano belli, puliti. Mi chiedevano “quando torni?” e io rispondevo “presto, presto”. Mi riempivano di baci e andavano via. E’ in ospedale che ho sentito il tempo mio, tutto mio, per la prima volta. Mi sono sentita un po’… regina. Esagero un po’. Poi venne il giorno che il dottore mi disse che l’indomani potevo tornare a casa allora io gli chiesi per favore se potevo restare un giorno in più, solo uno, se poteva farmi questo grande favore, glielo chiesi, come si dice, col cuore in mano. Lui mi disse “ma che fa, non si metterà a piangere…” Così mi fece restare. A ripensarci è stato come un viaggio per me. E’ stato bellissimo, il tempo è volato.

In questi seminari di ricerca raccontavamo le storie con grande libertà perché sapevamo che non ci attendeva giudizio. Cercavamo altro, cercavamo di capire chi eravamo, cosa volevamo, di cosa eravamo allegre quando lo eravamo, di cosa eravamo disperate quando lo eravamo. Rispondevamo alla domanda “cosa è una donna” con le nostre storie, raccontandoci cose belle e cose brutte, quelle che ci piacevano e quelle che ci mettevano paura. E cercavamo di capire come volevamo il nostro tempo e cosa era il tempo per noi.

Le donne hanno un rapporto speciale con il tempo, quasi un corpo a corpo. Il tempo è pesantemente presente nella nostra vita. C’è il tempo in cui si diventa donne, ce lo annuncia il sangue che viene ogni mese a scandire il tempo della fertilità. Poi i nove mesi della gravidanza, per chi ha figli, e anche allora contiamo il tempo e poi le doglie anche lì contiamo il tempo. Poi arriva il tempo della menopausa. La fertilità finisce, c’è chi se ne rallegra, c’è chi si dispera.

Una donna disse “Arrivano le rughe, benvenute! Che bellezza! Finalmente libera dal maledetto sguardo degli uomini”. Questa frase arrivò così quando nessuna se l’aspettava, all’improvviso, fulmine a ciel sereno. Arrivò da una signora elegante, anziana che solitamente non parlava molto. Era una frase malvagia o una frase piena di dolore? Guardavi quella donna e aspettavi la sua storia, che poteva arrivare oppure no. Nessuna di noi faceva domande. Tutto era materiale per pensare, per cercare nuovi sensi, anche i silenzi e le omissioni.

“Sapete quando sento il tempo tutto mio?” disse un giorno una donna che aveva una famiglia numerosa e che abitava lontano dalla nostra sede, per venire era un viaggio ogni volta, “Sento il tempo tutto mio la notte, quando tutti dormono e io sono ancora in giro per casa che sistemo un po’ qua un po’ là, ma è quasi una scusa. Delle volte mi siedo anche, perché mi piace sentire questa sensazione, in quel silenzio mi sembra che la casa… insomma la casa la vedi diversa e anche la luce sembra diversa. Tutto tranquillo. Non penso a niente di particolare, neanche dire che mi sento felice o che mi sento triste, sono, sto lì, e basta. E’ un piacere grandissimo. Non mi prendete per matta. Scusate” Finiva sempre così i suoi interventi “Scusate”. E dire che sono ancora qui a cercare come colmare l’enorme debito di riconoscenza a quelle donne che mi aprivano le porte del mondo segreto delle donne, il mondo loro quello vero, che avevano il coraggio di raccontare, il mondo del tempo lineare, dei gesti ripetuti giorno per giorno, delle guerre che non si raccontano contro lo sporco e il disordine.

E’ vero, noi donne abbiamo con il tempo un rapporto speciale, ci sta sotto pelle, lo sentiamo, lo vediamo, lo tocchiamo, come tutte le persone che sono state a lungo in cattività. Noi ci siamo state in cattività per secoli e secoli, tenute lontane dal potere, dal sapere, costrette all’ignoranza, considerate le più animali degli umani, costrette alla povertà, al silenzio, sottoposte alla violenza fisica, pensate come incapaci di coscienza morale e di verità. La nostra libertà di oggi non deve illuderci di poter dimenticare la nostra storia, che è ancora tutta dentro di noi, con la quale spesso, tra lacrime e risa, siamo impegnate in un corpo a corpo.

Chiudo con questo ricordo indelebile. Lo stesso anno del seminario di ricerca sul tempo, il Centro Virginia Woolf aveva organizzato un seminario nel carcere di Rebibbia per le “politiche”, così chiamavano in carcere le donne che avevano preso parte alla lotta armata, brigatiste rosse. Erano cinque. Quell’anno studiavamo Hannah Arendt e Simone Weil, fu una bellissima esperienza per tutte. Si studiava e si parlava. Loro preparavano sempre qualcosa per far merenda, buoni biscotti. Si scherzava anche, tentando di dimenticare il suono di quelle cinque porte di ferro che si erano chiuse al tuo passaggio e che si sarebbero riaperte per farti uscire. Il luogo dove ci incontravamo prendeva luce da una porta finestra con la grata che dava su un piccolo giardino, che loro stesse curavano, previo permesso. Era marzo, faceva ancora giorno, le giornate si erano allungate, avevamo finito, e mi trovavo in piedi, guardando fuori quando B.B., otto ergastoli sulle sue spalle, si avvicina e accompagnando il mio sguardo mi dice a bassa voce, quasi sussurrando:

La senti, Alessandra?” Cosa?” le chiesi

“La senti che sta arrivando?” “Ma cosa?

“Arriva lei, la maledetta primavera”

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