Irriferibile e sospeso: il tempo nella vita carceraria

Intervista a Edoardo Albinati di Annamaria De Paola

Edoardo Albinati è uno scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Ha iniziato la sua carriera pubblicando racconti sulla rivista “Nuovi Argomenti”, di cui è entrato a far parte nel 1994. Nel 2004 ha ricevuto il Premio Viareggio per il romanzo “Svenimenti” e, nel 2016, il prestigioso Premio Strega con “La scuola cattolica”, un’opera che racconta in modo complesso la società degli anni Settanta, attorno a uno dei fatti più efferati dell’epoca, il delitto del Circeo.
Albinati ha collaborato con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in Afghanistan e ha insegnato letteratura per quasi trent’anni nel carcere romano di Rebibbia, dimostrando un impegno costante verso le questioni umane e sociali. Questa lunga esperienza con i detenuti ha ispirato molte delle sue opere, tra cui 
“Maggio selvaggio”. Lo abbiamo incontrato nel suo studio romano, dove, durante la nostra conversazione, ci ha offerto una riflessione profonda sul significato del tempo per chi vive la realtà del carcere.

Il concetto di “tempo ristretto” è spesso associato al tempo vissuto in carcere, dove la libetà è sospesa e lo spazio compresso. Ma cosa significa, davvero, vivere in un tempo sospeso? Come descriverebbe l’esperienza di un presente che si fa prigione?

Nonostante abbia trascorso quasi trent’anni lavorando nelle carceri, trovo arduo definirlo. È un’esperienza che sfugge al linguaggio comune, neanche i detenuti riescono a descrivere questo stato, ci sono immersi dentro, il che quasi sempre li ammutolisce. Insomma è un tempo irriferibile. La parola “sospensione” è forse quella che gli si avvicina di più, anche se per difetto.  È un tempo che non scorre, che si attorciglia su sé stesso, un circuito chiuso, quasi come la punizione di Sisifo, condannato a spingere un masso su per una montagna sapendo che rotolerà giù ogni volta. I giorni e gli anni trascorrono comunque, ma tutto ciò avviene appiattito su una sola dimensione, come se il tempo perdesse la sua capacità di portare cambiamento o crescita. È una vita che esiste e resiste, però svuotata di tutti gli elementi che potrebbero renderla significativa: gli affetti, il lavoro, le novità, il movimento, il contatto con il mondo. Nel frattempo, il passato sbiadisce lentamente, il presente è una ripetizione monotona e il futuro un’idea talmente lontana… Nel carcere non si è chiamati a nessuna prova, a nessuna sfida con la realtà: gli occhi non hanno nulla di nuovo da vedere e da scoprire, le orecchie non sentono nulla di significativo, tranne rumori, grida, e il sottofondo della tv in cella. I sensi vengono avviliti, compressi. Si dice che il carcere sia stato concepito per superare le pene corporali, ma in realtà è proprio il corpo a soffrire per primo. I suoi organi deperiscono. Se hai davanti per anni solo muri grigi, se la distanza massima che possono coprire è di dieci metri, a cosa servono gli occhi? Insomma si è vivi, ma come paralizzati. O almeno, io, che ho passato tanti anni in galera ma senza però mai dormirci una notte, immagino debba essere così.

In questa condizione di sospensione, ci sono gesti, rituali che aiutano a dare un ritmo alla giornata? 

I rituali ci sono, ma sono poveri, monotoni. La giornata si scandisce in una ripetizione di gesti: la sveglia, la doccia, il pasto, l’ora d’aria, il rientro in cella. Ogni giorno è la copia perfetta del precedente. Per chi frequenta la scuola, come i miei studenti, paradossalmente le lezioni possono rappresentare un’oasi di temporanea evasione. Una bolla, da intendere in senso positivo. Però tutto si consuma all’interno di una rigidità che non lascia spazio alla sorpresa, all’imprevisto, che se però accade, è solo negativo. Tra questi gesti ripetitivi, uno emerge per la sua carica simbolica: la preparazione del pasto. Nei luoghi dove ho insegnato, i detenuti cucinano e mangiano in cella. Per alcuni, quel momento è il culmine della giornata, un rito sacro. La preparazione di un piatto di pasta al sugo diventa una cerimonia religiosa, cioè un modo per dare significato a un tempo altrimenti svuotato. Quasi ogni cella ha il suo cuoco ufficiale, che cucina per tutti, ed è il ministro di quella piccola religione. Il lavoro, che potrebbe essere un’occasione di riscatto, è raro e marginale. E comunque non ha quasi nulla di stimolante: si spazza il pavimento, si svolgono piccole mansioni, tutto viene minimizzato, persino nel linguaggio. In carcere si usano diminutivi come “spesino” o “domandina”, termini che incoraggiano una regressione quasi infantile. Ma è un’infanzia grottesca, questa vissuta da adulti in stato di cattività, senza gioco, senza scoperta, insomma un’infanzia rovesciata. Viene da chiedersi come sia possibile immaginare che questo tipo di trattamento possa riabilitare, risocializzare, riscattare i detenuti che lo subiscono.

Come percepisce se stesso chi vive così?

La percezione di sé viene erosa lentamente, ma inesorabilmente. In carcere non ci si vede mai per intero: normalmente, gli specchi sono vietati per ragioni di sicurezza, e i detenuti hanno solo piccoli specchi da barba, frammenti che non restituiscono un’immagine completa. Questo dettaglio, apparentemente insignificante, ha conseguenze profonde. Non potersi vedere significa non potersi riconoscere. Anche la mente soffre questa perdita. Come ho detto, il carcere annulla i sensi e, con essi, anche l’immaginazione. Per molte persone detenute, specie se hanno pene lunghe, il domani è un tempo e un luogo che non riescono nemmeno a concepire. Del resto, le pene più brevi vengono spesso vissute con maggiore ansia, con una specie di smania. Ho visto detenuti che, dopo anni di detenzione, uscivano magari per un breve permesso e si ritrovavano incapaci di camminare con sicurezza. La limitatezza degli spazi carcerari aveva tolto loro la capacità di percepire la distanza, la profondità. Alcuni non riuscivano nemmeno ad affacciarsi a una finestra, sopraffatti dalle vertigini.

“Il riposo, per me, è un concetto sfuggente. La mia mente non si ferma mai. Non so, letteralmente, cosa sia “la vacanza”: le domeniche per me non esistono. C’è solo un momento in cui questo ritmo cambia: quando nuoto nel mare.”

Esiste una paura della scarcerazione dopo una lunga pena? 

Sembrerà un paradosso, ma alcuni detenuti temono la libertà almeno quanto la desiderano. In carcere, per quanto dura, si crea una routine, un ritmo, una sorta di adattamento. Fuori, invece, c’è l’ignoto, e l’ignoto è spaventoso. Ricordo un mio studente che sarebbe a breve uscito dopo più di vent’anni, e si preoccupava solo di come avrebbe fatto a raggiungere la metropolitana. Ed eravamo molto preoccupati anche noi. Sembrava una questione banale, ma non lo era affatto. Era il simbolo di una perdita totale di orientamento, di familiarità con il mondo: quando ne sei stato bandito per tanti anni sarai capace di riadattarti a una realtà che, nel frattempo, è così cambiata? E poi c’è la solitudine. Se non c’è nessuno ad aspettarti fuori, la scarcerazione può essere un’esperienza devastante. La società non offre alcun sostegno: il detenuto viene lasciato solo, con la responsabilità di reinventarsi una vita. È comprensibile dunque che, per alcuni, il carcere possa sembrare meno spaventoso del mondo esterno.

Crede che la letteratura possa insegnarci qualcosa sul concetto di tempo sospeso? Può essere d’aiuto per chi vive questa condizione?

La letteratura è uno strumento potente. Ci permette di vivere vite che non sono le nostre, di entrare in mondi che non conosciamo e che non visiteremo forse mai. È un ponte tra il nostro tempo e quello vissuto da altri. Per chi è libero, ma a maggior ragione per chi è detenuto, leggere è una forma di evasione. Sì, evasione, un termine da prendere alla lettera. Non è un caso che la biblioteca centrale di Rebibbia si chiami “Papillon. Un libro per evadere”. Certo, si tratta di un gioco di parole, ma anche di una verità profonda: un libro è una fuga, un mezzo per uscire dalle mura del carcere e vivere, almeno con la mente, in un’altra parte del mondo o in un’altra epoca. Ricordo che, nei miei primi anni di insegnamento, evitavo di raccontare la mia vita fuori dal carcere, temendo di provocare invidia o frustrazione.

 

Poi ho capito che era proprio l’opposto: i detenuti erano affamati di storie della vita libera, volevano sentir raccontare quello che a loro non era possibile vivere in prima persona, che ne so, una giornata al mare, un piatto di spaghetti con le vongole. esperienze magari molto comuni ma che a loro erano interdette. Ciò che accadeva oltre le sbarre riuscivano a viverlo, come si usa dire, “per interposta persona”. Era un modo per mantenere viva una connessione con la libertà. Ricordo un detenuto a cui avevo crudelmente chiesto cosa gli mancasse di più, e lui mi rispose “Sedermi in macchina e chiudere lo sportello: la sensazione del sedile di pelle che scricchiola e il rumore dello sportello chiuso…”: cioè qualcosa che noialtri viviamo tutti giorni e non ci dice nulla, anzi, ci annoia. Ci penso spesso quando salgo in macchina…

Ha mai visto emergere talenti artistici in carcere?

Sì, ma raramente nella scrittura. Piuttosto, ho visto accadere miracoli nel teatro, certi detenuti rivelarsi attori straordinari, perché il teatro è un luogo dove appunto si può vivere una vita diversa, almeno per il tempo della rappresentazione. E qualche volta, durante la mia attività di insegnamento, qualche storia straordinaria e persino divertente è emersa nei temi scolastici. Ricordo, ad esempio, il racconto di una rapina fallita, descritto quasi con accenti comici, specie nel momento in cui il bottino dentro il sacco veniva macchiato dall’esplosione di capsule d’inchiostro indelebile, e i soldi diventavano inservibili. Oppure la storia di un gruppo di ragazzetti di borgata che fuggendo dalla polizia finisce con la macchina a impantanarsi in un campo di zucche. Erano racconti autentici, veri, che mi facevano pensare ai miti popolari, a quelle storie che nascono dal basso e poi diventano di tutti.

Come descriverebbe la possibilità di riscatto nel tempo carcerario?

Non è per tirare la coperta dal mio lato, ma l’unico riscatto possibile che ho riscontrato lì dentro è quello delle lezioni. Almeno per un’ora, nella scuola in carcere, il tempo non è più sospeso o vuoto, ma viene vissuto in modo significativo. Leggere e capire com’è fatta una poesia, scoprire la soluzione di un teorema, imparare che il mondo è regolato da leggi che non sono solo quelle del codice penale, ma anche quelle della fisica o della chimica, o della musica, forse può rendere quel tempo degno di essere vissuto: in qualche misura, insomma, lo riscatta. Nella vita fuori dal carcere però il vuoto non va temuto, anzi. Viviamo in un mondo dove ossessivamente si vorrebbe riempire ogni istante con qualche attività; io credo invece che creare un po’ di vuoto intorno a noi sia una nobile aspirazione. Quando ero ragazzo, i lunghi pomeriggi di noia mi hanno spinto verso la lettura e la fantasia. È in quel vuoto che ho trovato la mia passione per la letteratura. Una vita completamente satura sarebbe inabitabile, come un edificio interamente riempito di mattoni. Non è mica un caso che le stanze vengano chiamate “vani”…

Come vive il suo tempo di riposo?

Il riposo, per me, è un concetto sfuggente. La mia mente non si ferma mai. Non so, letteralmente, cosa sia “la vacanza”: le domeniche per me non esistono. C’è solo un momento in cui questo ritmo cambia: quando nuoto nel mare. Lì, il pensiero non si spegne, ma si distende, si apre. L’ossessione almeno per un po’ si placa. E il corpo si stanca. Consumare energie è l’esercizio più bello. Poi proveremo a recuperarle, ma prima dobbiamo averle bruciate.

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