Hannah Arendt: la condizione umana come aspirazione alla libertà

di Marilisa D’Amico, Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Milano

Se c’è una figura che è stata in grado di occupare moltissime riflessioni dei pensatori del suo tempo e anche di generazioni successive, fino ad arrivare ai nostri giorni, quella è proprio Hannah Arendt. Ed è sempre lei che, più di tanti altri, ha contaminato discipline diverse da quella sua propria, la filosofia. 

In particolare, il mondo giuridico, e anche l’ambito del costituzionalismo contemporaneo, devono tanto al suo pensiero e alle sue importanti considerazioni. 

Un primo dato da cui vorrei partire è che Hannah Arendt si è imposta, come donna, in un mondo di uomini, un mondo dove da Aristotele in poi, la filosofia era considerata dominio maschile per la qualità intrinseca stessa delle mente “filosofica”, quel “logos” che apparteneva soltanto agli uomini. 

E si è imposta per la forza e la chiarezza del suo pensiero, che in modo molto articolato, ma molto coerente, si sviluppa avendo la forza, anche morale, di mettere in discussione teorie filosofiche del Novecento che non avevano saputo contrastare l’ascesa del nazismo e del fascismo. 

Come sottolinea Francesca Romana Recchia Luciani[1], sottolineandone l’apporto originale, che rompe la tradizione filosofica, si tratta di “una donna capace di un pensiero raffinatissimo e profondissimo al contempo, che si è imposta in un mondo di pensatori uomini, in un’epoca tanto tragica, quanto enormemente fertile di personalità filosofiche incredibilmente dotate e in cui non è difficile immaginare quanto possa essere stato faticoso farsi stimare e giocare alla pari con quella generazione di talenti assoluti, lei, genio femminile, praticamente sola nel mondo tutto maschile della filosofia”.

C’è un principio, del suo pensiero, che mi ispira da anni e riguarda l’Università: di fronte alle ribellioni studentesche, la Arendt riflette sul fatto che molti professori e soprattutto scienziati ritenessero ormai irrilevante l’apporto dato dalle discipline umanistiche e si esprime così: “l’Università, ultimo scampolo del Medioevo, cresce a passi da gigante. Nessuno ha meditato seriamente sulla sua funzione: pensare-sapere-fare (nel senso di certe abilità). Hanno senso solo se messe in relazione”[2]

Va anche sottolineato con forza che la Arendt non sceglie di essere una accademica pura, non riflette e non elabora le sue teorie in modo “astratto”, ma si immerge nella realtà, anche tragica, fino in fondo e non ha paura di prendere posizioni anche scomode: in particolare, la sua presenza e le sue riflessioni pubbliche sul processo di Eichmann che confluiranno nel famosissimo La banalità del male[3] , che all’epoca le procurarono non pochi oppositori, la sua fermezza nell’affermare che “il male totalitario, in quanto evento epocale del novecento, deve essere compreso senza essere giustificato”[4], hanno proiettato la figura e il pensiero della Arendt in una dimensione universale, fonte di ispirazione pubblica per tutto il novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri. 

Ecco, per cogliere alcuni tratti del pensiero “giuridico” della Arendt, dobbiamo innanzitutto ricordare che si tratta di riflessioni di una filosofa “politica”, che tanto hanno dato e continuano a offrire ai giuristi, e in particolare, ai costituzionalisti, come io sono. 

Proprio la sua impostazione culturale mi consente di partire da un punto importante: Hannah Arendt in tutte le sue riflessioni fonda il suo concetto di “umano”, di “sovranità”, di “legge” e di “diritto”, avendo come punto di riferimento la civiltà romana, che conosce profondamente. 

E dalla civiltà romana, in contrapposizione con quella greca, la Arendt trae il principio di fondo sulla funzione della legge e la dimensione pubblica e non interiore del concetto di libertà. 

La Lex romana non è soltanto comando ma è anche “relazione”, essendo espressione della reciprocità e della responsabilità gli uni verso gli altri. Al tempo stesso, occorre sempre tenere distinto l’ambito della prescrizione giuridica da quello morale: le leggi devono intervenire nella sfera strettamente politica e non in quella morale, se non vogliono costituire un attentato alla libertà.  

Sempre dalla conoscenza e dalle riflessioni sulla civiltà romana, la Arendt si inserisce a pieno titolo nella tradizione del costituzionalismo, e in particolare in quel concetto di “persona costituzionale”, che non significa individuo isolato, ma individuo -cittadino, titolare di diritti civili, sociali e politici. E’ così che l’ “humanitas” esprime “quella qualità umana che nasce soltanto nella societas, ossia se si è parte di una comunità politica”[5] , e allude a un concetto ampio, come è quello di persona nella nostra Costituzione, titolare di diritti che lo Stato deve riconoscere, ma anche propulsore di mutamenti sociali e di nuove garanzie sul piano individuale. Per la Arendt, l’”humanitas” è “un concetto dotato di una intensa forza costruttiva sul piano giuridico, che si dispiega fin dal primo apparire della parola cui è sotteso (…) affiorando nelle argomentazioni poste dai giuristi a sostegno delle loro decisioni”, ma è anche forza che induce a cambiamenti: “così, per proporre qualche esempio, nel settore della famiglia l’humanitas induceva un miglioramento della condizione della donna (…); nel processo penale comportava un incremento delle garanzie dell’imputato”[6]

Come nella tradizione del costituzionalismo, ragionare sull’individuo e sui propri diritti si coniuga sempre a una visione dello stato e del governo: come sappiamo, l’apporto unico della Arendt, che tra l’altro costituisce la prima opera che diventerà nota al grande pubblico, è costituito dal poderoso volume su Le origini del totalitarismo (1948)[7]. Senza poter minimamente occuparci delle tesi in esso contenuto, occorre sottolineare come sia chiaro, nell’analisi, che il totalitarismo può insinuarsi nei momenti di crisi dello Stato nazionale, che comporta al tempo stesso l’affievolimento fino alla scomparsa della tutela dei diritti umani. Secondo la Arendt, nel XX secolo, si consuma una “insanabile frattura nella nostra storia”, che coincide con una rottura con la tradizione, di ascendenza romanistica, caratterizzata dalla triade “tradizione-religione-autorità” e dalla consapevolezza che “la tradizione è ben radicata nella legge, l’inizio, la fondazione, si riflette immediatamente nella legge”[8]

Formidabili, e fonte di ispirazione ancora oggi, sono le riflessioni sui caratteri dello Stato che consentono l’instaurarsi di regimi totalitari, e questi sono gli Stati dominati dalla burocrazia, Stati nei quali il Potere sembra non appartenere a nessuno, Stati nei quali, per dirla con le sue parole, abbiamo “una tirannide senza tiranno”[9]. Da qui le considerazioni sulla circostanza che nel nazismo, come nelle dittature, il pensiero giuridico smarrisce la propria centralità, necessitando di essere rimpiazzato da una serie di regole adatte ad ottenere lo scopo e fuori dall’impianto tradizionale. 

E così, la Arendt insiste sulla centralità della generalità della legge, mentre nel totalitarismo è stato consentita la rottura del principio di uguaglianza e la creazione di diritti “speciali”, rispetto a persone che poi ne sono state private del tutto. 

In Le Origini del totalitarismo[10], Arendt descrive le condizioni di quegli individui che erano stati privati improvvisamente e arbitrariamente della cittadinanza: “(…) privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, la schiuma della terra…(..). Gli apolidi e le minoranze non avevano un governo che li rappresentasse e li proteggesse, e perciò erano costretti a vivere o sotto la legge eccezionale dei trattati sulle minoranze, che tutti i governi avevano sottoscritto con riserva negandogli forza giuridica, o fuori di qualsiasi legge, alla mercé della tolleranza altrui”[11].  

La condizione e il principio dell’umanità come “diritto ad avere diritti”[12], un principio universale, che trascende quella specifica esperienza storica e giunge fino ai nostri giorni è forse l’eredità più importante che ci trasmette Hannah Arendt e che in momenti bui come quelli che stiamo vivendo dobbiamo tenere saldo. 

Sono tanti anni che assistiamo in Europa, alle vicende dei migranti “senza diritti”, a cui non viene neppure riconosciuta la dignità come morti, privati della possibilità di essere riconosciuti e anche di essere sepolti. Pur nell’ambito di un contesto fatto di principi fondamentali basati sulla dignità e l’uguaglianza, le persone migranti sembrano uscire dalle regole, un gruppo senza diritti fondamentali, che, come per gli ebrei a cui veniva negata cittadinanza, è soggetto all’esercizio di un potere senza regole, arbitrario, che proviene da uno Stato burocratico, che diviene “tirannide senza tiranno”. 

Ma più di recente, in una nazione che è sempre stata paladina dei diritti, gli Stati Uniti, si sta facendo strada una forma diversa di governo, una specie di autocrazia, dominata dalla rottura dello Stato di diritto e dall’esercizio arbitrario del potere da parte del Presidente degli Stati uniti. Con i suoi decreti esecutivi, finora validi nel territorio nazionale, Donald Trump sta espellendo persone, senza alcuna possibilità di un giudizio legale, limitando l’uso di parole e di concetti, come “Human Rights”, “Women’s Rights”, “Climate Change”, “Diversity”, “Sustainability”, persino nelle Università, decidendo come e su cosa debbano fare ricerca gli scienziati, per non parlare di licenziamenti di massa a livello federale, nel campo dell’istruzione, dela pubblica amministrazione, della diplomazia. 

Riprendendo le parole e il metodo di Hannah Arendt, occorrerebbe anche oggi, come ieri, “fermarsi a capire, senza giustificare”. 

Ma questo comporterebbe, come spiega lucidamente Laura Boella[13], riprendersi quella condizione oggi smarrita, quella condizione umana “essenzialmente politica in quanto fondata sulle categorie di pluralità, azione, spazio pubblico”, una condizione oggi distante a tanti, una concezione dove “la politica rimane dunque agire nel senso eroico del dire di no, del contrastare, dell’assumersi singolarmente la responsabilità di un fatto (…)”e dove “la politica non ha altro fine che la vita per la libertà, non la vita per la sopravvivenza e nemmeno per il benessere”[14].

Con un metodo originale, che conosce la tradizione filosofica e giuridica, ma intende superarla, Hannah Arendt proietta il suo contributo, fermamente calato nel suo tempo e nelle sue esperienze personali, che non intende ignorare, ma da cui parte per la sua ricerca di “senso”, in una dimensione universale, che le consente di parlarci e di toccarci profondamente oggi. 

Oggi, in uno scenario dove si stanno riproponendo dinamiche storico-politiche simili al passato, dove sembra smarrirsi quella “condizione umana” come tensione alla libertà, prima di tutto interiore, dove le torsioni del potere fanno tremare i pilastri del mondo democratico occidentale, dove la “banalità del male” assume altre sembianze, e ci fa sembrare “normale” negare sepoltura a chi disperatamente cerca di approdare sulle nostre coste e chiede aiuto ai nostri confini; oggi il pensiero della Arendt, tutto incentrato sulla condizione umana come condizione pubblica, votata alla realizzazione della libertà, ci pone di fronte ai nostri limiti e ci richiama a nuove responsabilità.  


[1] F. R. RECCHIA LUCIANI, Filosofe. Dieci donne che hanno ripensato il mondo, Salani, Milano, 2025, p. 83. 

[2] Cfr. H. ARENDT, Denktagesbuch, 1950-1973, a cura di U. Ludz e I. Nordmann, Munchen, 2002, trad. it. Quaderni e Diari, a cura di C. Marazia, Vicenza, 2007, p.  586. 

[3] Cfr. H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, prima edizione italiana, Giacomo Feltrinelli Editore, ottobre 1964, pp. 1- 316.

[4] Cfr. F.R RECCHIA LUCIANI, Filosofe, cit., p. 71. 

[5] Cfr. H. ARENDT, La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, in H. ARENDT, Verità e politica, trad. it., Torino, 2004, p. 79.

[6] Interessanti considerazioni in G. GAROFALO, Suggestioni per il giurista dai Quaderni e Diari di Hannah Arendt, in AFDUDC, 12, 2008, pp. 447-472. 

[7] Ora in H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004.

[8] Cfr. H. ARENDT, Quaderni, cit. p. 261. 

[9] Cfr. H. ARENDT, Quaderni, cit., p. 385. 

[10]  H. ARENDT, Le origini, cit., p. 372. Sul tema cfr. le considerazioni di A. LOTTO, Diritti umani e cittadinanza in Hannah Arendt, in DEP (Deportate, esuli, profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile), p. 87 ss. 

[11] H. ARENDT, Le origini, cit., p. 372.

[12] Ibidem, p. 410.

[13] L. BOELLA, Ripensare la condizione umana in M. Negro (a cura di), Attualità di Hannah Arendt, p. 18. 

[14] Cfr. L. BOELLA, Ripensare, cit., p. 25. 

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