Intervista a Mons. Vincenzo Paglia – Presidente, Pontificia Accademia per la Vita

di Raffaele Buscemi

Hannah Arendt ha riflettuto profondamente sul ruolo della memoria storica nella costruzione della coscienza collettiva. Qual è, secondo Lei, il compito della memoria oggi, in una società segnata dalla frammentazione e dalla velocità digitale?

Il compito più importante è non perdere la memoria. La memoria storica, anzitutto, per coglierne le tensioni profonde e positive che vanno raccolte e proseguite. Ma anche per apprenderne gli errori e cercare di non ripeterli. Troppo spesso vediamo che l’umanità è preda della stessa frenesia di sempre: il desiderio del dominio, la ricerca del successo e dell’affermazione personale a scapito della ricerca del bene comune. Quando Hannah Arendt parlava della banalità del male coglieva, appunto, l’effetto negativo della perdita della memoria storica. Spesso ci lasciamo sopraffare da affermazioni e dichiarazioni senza preoccuparci di capire se questo o quel personaggio stia parlando con la consapevolezza storica. Quante volte assistiamo ad una politica delle frasi fatte che fanno parte di una propaganda il cui scopo è costruire una narrazione ad uso e consumo dei potenti di turno. In questo modo si contribuisce a costruire una falsa coscienza collettiva. Ma è fragile e non serve a cementare i valori di una società degna di questo nome. I valori fondanti della nostra società sono scritti nella Costituzione e nelle Leggi. Per noi credenti, aggiungiamo le indicazioni della Parola di Dio. Ma non sono indicazioni in contraddizione. La libertà, il dialogo, la ricerca del bene personale e del bene comune, sono valori umani e cristiani fondamentali. Abbiamo due compiti da svolgere, ognuno di noi li ha. Il primo è incalzare chi ha responsabilità di governo affinché sia onesto e trasparente. Vale per la politica ed anche per la Chiesa. Il secondo compito è non stancarci di studiare, di approfondire, di andare oltre la superficie degli avvenimenti, per scrutare le ragioni profonde degli eventi. Così non si perde la memoria. 

Lei ha più volte sottolineato l’importanza della “narrazione” nella trasmissione della fede e dei valori umani. In che modo la narrazione può diventare strumento di pace e dialogo interreligioso, in un mondo attraversato da conflitti e polarizzazioni?

La pace non è una opzione fra le tante. È l’unica possibile in un mondo che sta andando ‘a pezzi’, come ci ricorda Papa Francesco. Ma la pace non è un appello generico e vago, sotto il segno di un’utopia bella ma miope. Pace vuol dire qualcosa di molto concreto, cioè una prospettiva che si costruisce a partire da due convinzioni profonde, richiamate dalle due Encicliche di Papa Francesco: Laudato Sì’ e Fratelli Tutti. La prima è la prospettiva di un rapporto armonico con l’ambiente, anzi direi con il Cosmo. Perché la vita si sviluppa e cresce nel nostro pianeta, l’unico che abbiamo, e la dimensione della salvaguardia dell’ambiente è di primaria importanza per consentire la prosecuzione della vita sulla Terra. Non dobbiamo dimenticare che l’ambiente nel quale viviamo lo abbiamo in prestito per consegnarlo alle prossime generazioni. Guai a distruggerlo o a inquinarlo come se non ci fosse un domani. L’altra prospettiva ragionevole è la responsabilità che abbiamo di custodire la generazione e le generazioni nell’orizzonte della fraternità universale. Siamo un unico genere umano, figli e figlie di Dio – tutti, assolutamente tutti – e perciò un unico genere umano sopra un unico pianeta. Se pensiamo a questa narrazione, profondamente biblica e profondamente umana, allora tutti i conflitti si risolveranno e avremo forse non un mondo di pace totale, ma certamente un mondo migliore.

Arendt parlava della necessità di “pensare senza ringhiere”, cioè di affrontare la realtà con libertà e responsabilità. Come possiamo educare le nuove generazioni a un pensiero critico e dialogico, capace di accogliere l’altro senza paura?

A mio avviso i giovani oggi hanno bisogno di vedere persone intorno a loro che testimonino con gesti, azioni e parole una società vivibile e armonica. Penso ad esempio alla responsabilità delle relazioni intergenerazionali. Penso a quella tra nonni e nipoti. Vi è tra loro una complicità affettiva fatta di gesti di vicinanza che fa bene ad ambedue. Ed ha un valore sociale indiscutibile oltre che di crescita individuale. Dobbiamo custodirlo e valorizzarlo. In particolare in Italia, in questo momento e per la prima volta nella storia, abbiamo quattro generazioni che vivono insieme: i giovanissimi, gli adulti, i nonni e oggi i bisnonni. L’allungamento della vita, il calo demografico, hanno prodotto un fenomeno nuovo. È come avere un palazzo di quattro piani, ma dobbiamo fare in modo che ci siano scale ed ascensori, perché va curato il dialogo tra le generazioni. Il dialogo è un valore molto forte, non solo tra popoli e Stati, ma anche tra le persone, a partire dalla famiglia. Dialogo fatto di gesti, di affetto, di vicinanza, di credibilità della testimonianza personale. Mi sembra l’unica strada possibile. 

Nel Suo impegno alla Pontificia Accademia per la Vita, ha spesso lavorato su temi di frontiera tra scienza, etica e società. In che modo il pensiero arendtiano può ancora aiutarci a orientare la coscienza morale in epoche di trasformazioni radicali?

È la coscienza morale il vero aspetto fondamentale. È importante mantenere la tensione etica verso il mondo che ci circonda, verso gli avvenimenti, per una lettura critica del presente. La Pontificia Accademia per la Vita, su mandato esplicito di Papa Francesco, ha allargato la dimensione della vita a tutte quelle tematiche scientifiche, ambientali, tecnologiche, che hanno delle ricadute importanti sulla qualità della vita dell’umanità. Un’umanità considerata nel suo complesso, con attenzione alle diverse aree continentali e alle diverse condizioni di vita. La tensione etica ci deve accompagnare perché oggi serve un nuovo umanesimo, una capacità rinnovata di superare le differenze tra discipline, superare le specializzazioni, per fare in modo che la riflessione etica le attraversi tutte. siamo in una fase nuova del pensiero umano. Oggi possiamo distruggere e autodistruggerci con le tecnologie. Possiamo intervenire sull’ambiente e sul patrimonio genetico degli esseri umani e dei viventi, con modalità impensabili fino a qualche decennio fa. Serve allora un’attrezzatura concettuale nuova. E la troviamo nel mettere al centro la domanda etica – è tutto lecito quello che si può fare o ci sono dei limiti? – e una rinnovata visione umanistica di dialogo tra tutte le discipline.

Il dialogo interreligioso, come anche Arendt intuiva, non è mai un esercizio di neutralità, ma un cammino di verità condivisa. Quali esperienze concrete, dal Suo osservatorio, mostrano che il dialogo tra fedi è oggi non solo possibile, ma urgente?

Le faccio due esempi. Uno tratto dalla bioetica e l’altro sul tema dell’Intelligenza Artificiale. Nel 2019 in Vaticano la Pontificia Accademia per la Vita ha promosso un incontro sul tema del fine-vita con le religioni Abramitiche. Insieme al Gran Rabbinato di Israele e al mondo islamico, rappresentato dallo Sceicco Abdallah Bin Bayyah, abbiamo firmato una Dichiarazione comune a difesa della vita e contro l’eutanasia. È stato un momento prezioso di intesa, dialogo e confronto. Il secondo momento di cui le voglio parlare è del luglio 2024, quando sul tema dell’Intelligenza Artificiale ci siamo riuniti con gli esponenti delle religioni mondiali. Ci siamo incontrati a Hiroshima, in Giappone, e i rappresentanti delle religioni asiatiche hanno firmato la “Rome Call for AI Ethics”, il documento di intenti per un uso etico dell’Intelligenza Artificiale, che la Pontificia Accademia per la Vita ha promosso nel 2020. È un grande segno di speranza – e di pace! – che le religioni si impegnino in questo settore, perché nulla di ciò che fa l’umanità, è estraneo alle persone di fede. E sui temi concreti, il dialogo non solo è possibile, ma è necessario. Anzi, indispensabile. 

Cosa direbbe Hannah Arendt oggi, secondo Lei, di fronte ai rischi di indifferenza, banalità del male e crisi delle istituzioni? E cosa può ancora ispirare alla Chiesa e al mondo religioso in generale?

A fronte della realtà in cui viviamo, l’insegnamento e le riflessioni di Hannah Arendt mi sembrano più attuali che mai. Direi che non dobbiamo rassegnarci. In questo senso Papa Francesco ci fornisce un insegnamento straordinario, un binomio prezioso di pensiero e azione. Vediamo il suo Magistero in azione in questo tempo di malattia. Il Papa continua a ispirarci, continua ad essere presente con i messaggi che invia, pur avendo ridotto la viva presenza fisica. È un Papa che non si rassegna, sa che la malattia, il dolore, fanno parte dell’esperienza della vita, però non rinuncia a trasmettere un messaggio. Lo stesso dobbiamo fare tutti noi: lottare sempre in modo paziente e pacifico perché vinca il dialogo, vinca la persuasione, vincano i motivi della ragione e del bene comune. 

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