di Stefania Tarantino
Se sin dall’antichità al centro della speculazione filosofica troviamo la metafora della visione che rimanda al contrasto tra l’oscurità del mondo delle apparenze e la luce del mondo delle idee, in quella politica, secondo Hannah Arendt riferendosi soprattutto in relazione alla modernità, è possibile rintracciare la metafora del deserto e delle oasi. Questa metafora ricorre frequentemente nei suoi scritti, non solo nei suoi saggi, ma anche in alcune lettere e in alcune sue annotazioni personali, e si riferisce a quella tensione che nella sua perenne ambivalenza richiama sia la fecondità del pensiero come spazio di “resistenza”, di speranza e di possibilità di vita autentica, sia lo spazio sterile, isolato e disperato del deserto che genera perdita di mondo, alienazione, recisione dei legami. Tra consapevolezza lucida della devastante ferocia umana e fiducia nella sua capacità di porsi nelle profondità dello spirito autentico, Hannah Arendt si sofferma con particolare attenzione su ciò che può davvero guidarci verso la radice di una nuova comprensione di noi stessi e del mondo. Lo fa appoggiandosi ad alcune figure chiave che ispirano le sue riflessioni. Innanzitutto Kant. Un Kant melanconico e creativo che sperimenta su di sé tale oscillazione che si riflette, per quanto in controluce, nelle sue opere. Hannah Arendt riconosce quale fondamento della grandezza del suo pensiero proprio la malinconia che ha generato quel disincanto che ha agito nelle profondità del suo animo e che ha fatto emergere, attraverso quel contatto bruciante con la realtà, il valore stesso della vita nel suo essere sempre in bilico tra amore e disperazione: amore per ciò che potrebbe essere e disperazione per ciò che invece non è. Hannah Arendt accosta il pessimismo greco – così come espresso nei versi di Sofocle “Non nascere, ecco la cosa migliore e, se si nasce, tornare presto là da dove si è venuti”[1]– a quello di Kant quando afferma che continuare a vivere non sarebbe altro che prolungare “un gioco in cui non si fa che lottare senza tregua contro le avversità”[2]. Nei suoi scritti, Kant oscilla tra la speranza di un progresso della specie e la consapevolezza che con il moltiplicarsi dei vizi umani si estinguerebbe la vita umana, se questa fosse eterna. Per Arendt questo non è un aspetto marginale e, a sostegno della sua interpretazione, cita due frasi di Kant, la prima tratta dalle Riflessioni sulla metafisica: “piacere e pena fanno da soli l’assoluto, perché sono la vita stessa”[3], e l’altra tratta dalla Critica della ragion pura: “la ragione si vede costretta a ipotizzare una vita futura nella quale ‘eticità’ e ‘felicità’ siano opportunamente coniugate; altrimenti si dovrebbero considerare le leggi morali vuoti fantasmi della mente”[4]. Arendt precisa che il punto cruciale non riguarda l’immortalità, quanto la speranza di una vita migliore. E associa questa speranza a tre idee specificamente kantiane: il progresso del genere umano che subordina il particolare all’universale, la dignità morale che pone l’essere umano come fine in sé e il contesto plurale e politico in cui gli esseri umani agiscono e il cui fine è la socievolezza. Questi tre ambiti sono per Arendt gli unici che “salvano” Kant dalla disperazione della vita umana poiché sono connessi alla bellezza delle cose del mondo. A differenza di molti altri filosofi che hanno svalutato la vita terrena e disprezzato il corpo come fonte di illusioni ed errori che impediscono all’anima di elevarsi nel mondo delle idee, in Kant troviamo al contrario “un’apologia della sensibilità umana” e il riconoscimento che “il mondo è bello e perciò un luogo adatto alla vita degli uomini, anche se i singoli non sceglierebbero mai di vivere una seconda volta”[5].

Collegando questa interpretazione arendtiana all’esperienza del deserto e all’ambivalenza costitutiva dell’esistenza come esposizione all’ignoto, comprendiamo il passaggio successivo della pensatrice, quando evidenzia che Kant sia stato uno dei pochi ad aver concepito e intitolato la sua opera come Critica. Il lavoro del negativo è un processo di denudamento che rivela ciò che è veramente essenziale e irrinunciabile attraverso la liberazione da tutte le menzogne, dai falsi attaccamenti, dalle autorità arbitrarie e da tutti quei pregiudizi che comportano un assetto totalitario e rigido del pensiero. Si tratta, in sostanza, del lavoro del pensiero illuminato che restituisce a tutti gli esseri umani – quindi nel segno di un’uguaglianza fondamentale – il potere del pensare autonomamente, del “valersi della propria ragione” (Selbstdenken) in modo da essere sempre coerenti con sé stessi ma anche del pensare mettendosi al posto degli altri. Così definisce il ruolo del Selbstdenken kantiano:
Secondo la concezione kantiana dell’Illuminismo, pensare vuol dire Selbstdenken, pensare da sé, che “è la massima di una ragione mai passiva”. La tendenza alla ragione passiva, quindi all’eteronomia della ragione, si chiama pregiudizio, mentre illuminismo significa prima di tutto “liberazione dal pregiudizio”[6].
La liberazione dal pregiudizio costituisce dunque la rivoluzione più importante del pensiero critico. Ciò implica il rifiuto di qualsiasi potere esterno che, astraendo dall’essere umano reale e concreto, parla a nome e per conto di un’astratta umanità dispensata dal compito del pensare autonomamente, annullando tutto il potenziale di imprevisto che può manifestarsi nella vita umana quando tutto è già predeterminato secondo parametri e criteri stabiliti da altri. In questa complessa sovrapposizione di livelli, il pensiero critico non è semplicemente un tipo di pensiero tra gli altri, ma rappresenta “un nuovo modo di pensare” che, partendo dalla critica della facoltà della ragione in generale, esplora le fonti e i limiti di ciò che è possibile o non è possibile conoscere. Da questa prospettiva, comprendiamo perché, nel progettare la sua Introduzione alla politica, Hannah Arendt rivestisse “spesso di metafore il suo pathos per la politica, o in altre parole la sua preoccupazione per il mondo e la sopravvivenza in esso dell’uomo. Parlava e scriveva del ‘deserto’ e delle ‘oasi’”. Tale metafora, utilizzata in una lezione tenuta nella primavera del 1955 alla University of California at Berkeley, di cui restano tre pagine, avrebbe dovuto essere, molto probabilmente, la conclusione di questo saggio[7]. In queste tre pagine diventa ancora più evidente l’ambivalenza del deserto: la perdita del mondo dell’età moderna con tutte le sue conseguenze in termini di alienazione e riduzione dell’umano (la minaccia dal non-essere-cosa ma anche dal non-essere-qualcuno) e il luogo-non luogo da cui è possibile inaugurare qualcosa di inedito attraverso due facoltà specificamente umane: la passione e l’agire e così scrive che “solo da coloro che riescono a sopportare la passione per la vita nelle condizioni del deserto ci si può aspettare che raccolgano dentro di sé quel coraggio che è alla radice di ogni agire, di tutto ciò che fa sì che l’uomo diventi un essere agente”[8]. Passione e agire creano oasi nel deserto senza le quali, scrive Arendt, nessuno di noi potrebbe resistere. Sono loro a mantenere viva la speranza che la vita umana non si adatti definitivamente ad abitare nel deserto, sebbene non possa sfuggirvi. Solo così si possono creare oasi in cui sia possibile respirare e in cui il senso della libertà, come possibilità di dar vita a qualcosa di nuovo, rimanga intatto. Solo le oasi trasformano il deserto in un mondo umano. Il pensiero critico che attraversa il deserto rappresenta dunque un’oasi in cui è davvero possibile preservare la nostra umanità e la nostra capacità di agire politicamente e umanamente.
Hannah Arendt menziona spesso insieme Kant e Socrate. Seppur distanti nel tempo, li considera essenziali per lo sviluppo di una nuova filosofia politica incentrata non più sulla concezione metafisica dell’Uomo e sul processo esclusivo della verità, ma sulla pluralità e sull’importanza della molteplicità delle opinioni. Per questa trasformazione del pensiero, tuttavia, era consapevole che sarebbe stato necessario “interrogare da capo il fenomeno politico, dal momento che non è possibile restare nel solco di una tradizione filosofico-politica che ha inizio con Platone”[9]. Infatti, è attraverso Platone che la verità viene irrimediabilmente separata dal flusso delle opinioni considerate illusorie che circolano nella città, concepita come fonte accessibile solo a pochi eletti e a una “mente non obnubilata dai sensi”[10]. La definitiva separazione tra verità e apparenza, tra filosofia e politica, tra pensare e agire, caratterizzerà quella tradizione di pensiero che Hannah Arendt cerca di superare. Nel vasto percorso della filosofia politica occidentale, distingue ed esalta l’eccezione di questi due pensatori che condividono una concezione della filosofia strettamente legata alla città, senza distaccarsi dal mondo delle opinioni e delle apparenze e che sviluppano così un’idea della politica come spazio di mediazione (infra, tra) fondato sul senso comune e sulla pluralità.
A Socrate, considerato l’autentico pioniere del pensiero critico, Arendt dedicò un corso nel 1954 presso la Notre Dame University negli Stati Uniti. La questione cruciale su cui invitava i suoi studenti e le sue studentesse a riflettere era la profonda separazione tra verità e politica e la messa in discussione del vero tradimento di tutta la tradizione filosofico-politica occidentale nei suoi confronti, a partire dal suo allievo più vicino, Platone. Il processo a Socrate viene così interpretato come un evento politico di straordinaria rilevanza poiché segna la rottura definitiva tra il pensiero filosofico e la dimensione politica. Perché è proprio a partire da quella condanna che si è sancita la sfiducia totale nella doxa, nell’arte della persuasione, nella pluralità delle voci e delle opinioni a favore di criteri universali ed eterni dettati da una voce unica. La distinzione tra i pochi e i molti è stata una delle cause della svalutazione della politica da parte della filosofia. L’accesso alla verità riservato a pochi, il fatto che la filosofia tracci una chiara linea di confine tra la riflessione solitaria e distaccata del filosofo dagli affari umani e l’agorà in cui si riuniscono i molti, generò questo conflitto irrisolvibile tra polis e filosofia. Su questo nodo, vissuto ed ereditato in tutta la sua complessità da Platone, la pensatrice lavorerà instancabilmente nella sua opera. Di fronte a questo totalitarismo della ragione, Hannah Arendt esorta a realizzare una nuova tradizione politica capace di mantenere, senza assimilarle, le voci molteplici che si incontrano nell’agorà. È necessario dunque tornare idealmente a Socrate dal momento che non solo non ha mai abbandonato i confini della polis, ma ha sempre fatto affidamento sulla condizione plurale delle differenze dei punti di vista. Uomo tra gli uomini, cittadino tra cittadini, Socrate propone un metodo pratico valido per tutti e dimostra che la prima forma di pluralità risiede nel pensiero stesso. Per quanto, infatti, si pensi in solitudine, il pensiero necessita degli altri per esistere. Il criterio del giusto e dell’ingiusto, il criterio del bene e del male dipende solamente da ciò che io decido di fare guardando a me stesso in una solitudine che non è mai isolamento. La pensatrice belga Françoise Collin ha colto perfettamente questo aspetto e ha scritto che la solitudine, a differenza dell’isolamento, comporta per Arendt l’elemento del dialogo di sé con sé che prefigura in qualche modo la pluralità e che talvolta assume una forma fondamentale[11]. Le “scoperte” scaturite dalla ricerca sperimentale di Socrate comportano quindi importanti implicazioni politiche: quella del pluralismo della soggettività e quella che nessun essere umano può, in realtà, essere saggio. Socrate scopre che chi pensa, pur essendo uno, quando pensa, ha un rapporto con l’io, per cui accade sempre di essere due in uno; rivela così il processo del pensiero esplorandone il suo meccanismo interno. Il dialogare tra noi e noi è la condizione del dialogo con altri e, in ultima analisi, costituisce la nostra stessa umanità perché rappresenta la condizione in cui è possibile conoscere noi stessi. È anche la condizione della nostra coerenza interna che ci apre al confronto. Percorso questo che apre alla dimensione plurale e alla fedeltà a sé.

È significativo che Hannah Arendt colleghi l’affermazione socratica “sarebbe meglio per me essere in disaccordo con la moltitudine che, essendo uno, non trovarmi in armonia con me stesso”[12] con quanto scrive Kant in una lettera indirizzata a Mendelssohn l’8 aprile del 1766: “la perdita dell’autoapprovazione (Selbstbilligung) è il male più grande che mai mi potrebbe capitare. Il disprezzo di sé, l’accordo con sé stessi è più importante della perdita di stima goduta presso un’altra persona”[13]. Per Kant significa non tradire l’esigenza di avere rispetto di sé prima che degli altri. I doveri dell’essere umano verso sé stesso precedono i doveri verso gli altri, aspetto che – sottolinea Arendt – risulta sorprendente, poiché contraddice l’idea che normalmente ci facciamo del comportamento morale. Questa priorità assegnata al rispetto di sé piuttosto che all’amore di sé emerge pienamente nel terzo capitolo della Critica della ragion pratica in cui Kant afferma che “il rispetto per noi stessi facilita l’accesso alla coscienza della nostra libertà”[14]. A questo accordo con sé stessi si aggiunge la necessità di saper “ragionare al posto di chiunque altro”, unico fondamento per quella “mentalità allargata” (eine erweiterte Denkungsart) che realizza completamente la nostra capacità di giudicare[15]. L’intuizione tradita di Socrate consistette nel discreditare il fondamento solitario e plurale emergente dal dialogo; una dimensione di apertura che concerne quell’interrogazione infinita che accompagna sempre il sapere e che ci trasforma poiché produce effetti concreti sul senso del nostro vivere in comune. Solo partendo da questo presupposto è possibile inaugurare una nuova filosofia che non sia più in contrasto con la politica. Di questa apertura della mente, di questa consapevolezza dei limiti della ragione umana, di questo “luogo” solitario e comune che è il pensare, di questa condivisione umana del mondo, Socrate fu maestro indiscusso del pensatore di Königsberg così come Arendt può essere maestra indiscussa di tutti noi alla luce delle grandi sfide del nostro tempo che ancora una volta ci mettono di fronte alla più cupa disperazione ma anche alla più grande e forse ultima speranza.
[1] Sofocle, Edipo a Colono.
[2] H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Il nuovo melangolo, Genova, 2005, p. 40. Cfr. anche I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, in Scritti di storia, politica e diritto, trad. it. a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2011 p. 115.
[3] H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 42. Cfr. I. Kant, Refexionen zur Metaphysik, II, Nr. 4857, in Kants gesammelte Schriften, XVIII, p. 11.
[4] H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 42.
[5] Ivi, p. 46 e p. 49.
[6] Ivi, p. 66.
[7] U. Ludz, Commento del curatore, in H. Arendt, Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz, Einaudi, Torino 2006, p. 143.
[8] Ivi, p. 144.
[9] I. Possenti, Introduzione a H. Arendt, Socrate, trad. it. di I. Possenti, Cortina, Milano, 2015, p. 13.
[10] H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 45
[11] F. Collin, Agir et donné, in Hannah Arendt et la modernité, a cura di A. M. Roviello e M. Weyembergh, Vrin, Paris 1992, p. 32.
[12] La citazione di Socrate è tratta dal Gorgia di Platone. Socrate, rivolgendosi a Callicle, dice: «Personalmente, invece, ottimo amico, credo che meglio sarebbe suonare su di una lira scordata, che stonato fosse un coro da me diretto, che la maggioranza degli uomini non fosse d’accordo con me, e dicesse il contrario di quel che penso io, piuttosto ch’essere in disaccordo e in contraddizione con me stesso» (Gorgia 482c).
[13] I. Kant, Epistolario filosofico (1761-1800), a cura di O. Meo, Genova, Il melangolo 1990. Cfr. H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 35 e p. 59.
[14] I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 163.
[15] H. Arendt, Tra passato e futuro, trad. it. di T. Gargiulo, Garzanti, Milano 1999, pp. 282-283.