
di Elena Loewenthal
Elena Loewenthal lavora sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d’Israele. Scrive di saggistica e narrativa. Collabora a “La Stampa” e a “Tuttolibri”. Insegna presso lo IUSS di Pavia. Tra le sue pubblicazioni: Attese (2004, finalista al premio Strega), Eva e le altre. Letture bibliche al femminile (2005), Conta le stelle, se puoi (2008, premio Campiello-Selezione Giuria dei Letterati, premio Roma), Lo specchio coperto. Diario di un lutto (2015), Nessuno ritorna a Baghdad (2019), La carezza. Una storia perfetta (La nave di Teseo, 2020). Dal 2015 al 2017 è stata addetto culturale presso l’Ambasciata d’Italia in Israele. Dal febbraio 2020 è direttrice della Fondazione Circolo dei Lettori di Torino.
Hanno sei anni di differenza: un abisso di età quando si è bambine, un niente quando, come per loro due, ci si lega nel tempo adulto. Vengono da mondi diversi, eppure abitano più o meno nello stesso. Sono anime inquiete, ma ognuna a suo modo. Coltivano l’amicizia con una tenacia paziente piena di tante altre cose: ironia, spensieratezza, allegria, impegno, preoccupazione, condivisione.
Hannah Arendt e Mary McCarthy si conoscono nel 1944 in un bar di Manhattan dove comincia una storia di amore che non finirà più, neanche dopo la morte di Hannah, nel 1975, per l’ultimo dei suoi attacchi di cuore, “(il cuore di Mary) non può soffrire il gelido tremore della più isolata solitudine. Mi costringe a parlare come se io fossi Due”e qui è Nietzsche che scrive ma è come se fosse Mary che dice “quanto a me l’amavo follemente”[1].
Sono duecentoventicinque, le lettere che Hannah e Mary si scambiano lungo ventisei anni e attraverso gran parte del globo, distanze imprevedibili e mutevoli. Duecentoventicinque lettere di formato, dimensioni e tenore molto diversi fra loro, eppure l’impressione lucida che è una specie di certezza è che questo corpus sia solo una minima parte delle parole scambiate, un vago accenno all’intesa che doveva esserci fra loro e che resterà per sempre fra loro due, ignota al resto del mondo. Sarà pure questo il destino di tutti i veri affetti, delle amicizie profonde che durano una vita o meno, certo qui la distanza fra le parole rimaste e tutte le altre non può non destare un poco di rimpianto per ciò che non abbiamo mai avuto né mai più avremo perché chissà quanto si sono dette loro due, a parole o senza le parole. Senza di noi che le ascoltiamo.
Difficile immaginare due donne più diverse fra loro. Hannah e la sua natura sempre un po’ contemplativa. Sempre calibrata, sempre attenta a mantenere la distanza giusta dal mondo e da se stesse – una distanza che è poi sempre una partecipe vicinanza. Propensa all’esperienza Mary, sempre pronta a tuffarsi nelle cose, nelle persone, nelle avventure sentimentali e/o intellettuali. Quando si scrivono c’è sempre l’impressione che una sia in movimento (Mary) e l’altra ferma (Hannah), e invece non è così perché anche Hannah si muove, viaggia, vede. Una (quasi) sempre spensierata, anche quando si tuffa nell’attualità politica più disarmante, l’altra sempre dotata di una serietà calviniana (non calvinista…), un po’ come la leggerezza: una serietà sorridente, pacata e interessata.
Comunque, sempre diverse. Magari non di rado d’accordo su piccole e grandi questioni, in sintonia nello scambiarsi pettegolezzi di qua e di là dell’Oceano Atlantico. Ma diverse e consapevoli di esserlo. Ed è una cosa che sembra persino un po’ strana, oggi come oggi, che due donne così diverse possano essere state così amiche. Perché in quegli anni tante cose non funzionavano come oggi. Oggi siamo, teoricamente, una società più pluralista, più aperta. Eppure tendiamo, più o meno inconsciamente, ad abitare contrapposizioni, schieramenti, fronti. Tendiamo a sentirci rassicurati dalle affinità e, come dire, a disagio sulle differenze. Così, anche se non lo vogliamo, ci sembra che le vere amicizie si stabiliscano essenzialmente su quel che c’è in comune, su una prospettiva comune – come stare fianco a fianco e di lì guardare al mondo insieme.
Invece non è così. L’amicizia si può fondare sulle contrapposizioni: di idee, esperienze, modi di essere e volere. È così per Hannah e Mary, così come lo è nel caso di Elena Croce e Camilla Salvago Raggi: l’una memorialista e saggista al centro della vita intellettuale italiana, figlia di Benedetto, l’altra lettrice (e poi scrittrice) che vive nella remota provincia dell’Appennino ligure-piemontese. La loro amicizia e il loro epistolario durano dal 1967 al 1962[2] e sono anch’essi lo specchio di esistenze vissute più che pienamente, in due mondi lontanissimi fra loro.
Non c’è bisogno di essere uguali o anche solo affini, per diventare amiche. Hannah e Mary imparano a conoscersi con il tempo e tuttavia resta sempre uno spazio piccolo per l’incomprensione (“scusa non mi ero spiegata”, “scusa non avevo capito”) e uno grande per le reciproche scoperte. Il 22 gennaio del 1972 Hannah scrive a Mary soprattutto per consolarla perdita del grande amico Nicola Chiaromonte – intellettuale italiano, anzi europeo, anzi del mondo libero ancora tutto da scoprire nel nostro paese, soprattutto grazie al recente Meridiano che gli è stato dedicato[3] – e le spiega in poche righe il senso (anzi, l’insensatezza) della morte nella tradizione ebraica – Chiaromonte era sposato con Miriam Rosenthal e “Miriam mi pare perfettamente in tono con il lutto ebraico… le donne non erano ammesse ai funerali perché facilmente si mettevano a gridare”, e poco dopo nella lettera: “Il concetto di base è quello che trovi iscritto in tutte le pompe funebri ebraiche: il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il Signore. Ossia: non lamentarti se ti viene tolto qualcosa che ti era stato dato, ma che non necessariamente ti apparteneva. E ricordati, perché venga tolto qualcosa bisogna, prima, che venga dato. E peggio per te, se hai creduto che fosse tu, se hai dimenticato che ti era stato dato”.
Mary, dal canto dispiega davanti agli occhi di Hannah che leggono tutto il perenne movimento, geografico, mentale e sentimentale della propria vita, e la vivacità del mondo, degli incontri che fa, delle cose che succedono alle conoscenze comuni e non solo. In quei decenni di scambio epistolare il mondo doveva essere tanto più grande di adesso: non c’era la rete, gli spostamenti erano più lunghi e complessi. Eppure no, non è affatto così: in queste lettere fra loro è tutto uno spostarsi, un conoscere gente ai quattro angoli del mondo, un dialogare fra distanze abissali. Il loro mondo era dunque più piccolo? Forse sì forse no. Certo che entrambe ne sono cittadine, ci si muovono come da un quartiere all’altro della propria città. Di più Mary, sempre in viaggio fra Europa, America e magari un po’ di Asia, casa a Parigi e a Castine nel Maine.. Ma anche Hannah si sposta come se allora fosse molto più semplice di quanto non lo sia oggi.
E, pur nell’intimità del loro scambio di parole e affetto, non sono mai sole: c’è la famiglia, soprattutto quella di Mary, ci sono le conoscenze comuni e c’è l’universo di scrittori, intellettuali e filosofi che le circonda. Ma non è mai uno spettegolare fine a se stesso: è strabiliante il modo in cui, parlando di Tizio e di Caio, viene sempre fuori una considerazione così profonda e originale che rende tutto qualcosa di più di quel che sembra.

Ci sono, naturalmente, i grandi temi di quel presente e anche del nostro: “Esiste un piccolo Eichmann in ciascuno di noi?”. Queste lettere accompagnano tutta la vicenda del processo, le corrispondenze di Hannah da Gerusalemme, le accese polemiche intorno al suo libro. Eichmann è uno spettro che fa spesso ombra, nelle parole dell’una e dell’altra. È un tema ricorrente, desta domande, confessioni (Hannah spera nella sua condanna a morte). Attraverso l’amicizia con Mary e le parole che si scrivono, c’è tutta quella Intensità, tutta quella “determinazione interiore” e “disposizione per l’essenza delle cose” di cui dice Hans Jonas al suo funerale, ma c’è in Hannah Arendt anche una dolcezza tutta speciale, nuova. Non propriamente una fragilità, piuttosto una specie di malinconia rassegnata verso il mondo e la gente che lo abita: “Questa vita con se stesso, sulla quale essa si basa è la vita del pensatore par excellence: nell’attività del pensiero, io sono insieme a me stessa – e né con altra gente, né con il mondo in quanto tale, come capita all’artista”. Certo, è evidente il contrasto fra la vita piena di mondanità di Mary e quella più solitaria, più “introversa” di Hannah, ma tutto è sempre in secondo piano dentro questo dialogo dove ciò che veramente conta è la loro confidenza, il loro scambio di idee. Solo alla fine, dopo la morte Heinrich, Hannah soffre quella solitudine più inguaribile: “Non mi accade mai nulla. Pensa alla smania di operazioni delle donne mature. Sembriamo incapaci di vivere in assenza di avvenimenti: la vita diventa un flusso indistinto e noi (siamo) a malapena in grado di riconoscere un giorno dall’altro. La vita stessa è piena di storie. Cosa le ha fatte svanire?”.
[1] Dall’Epilogo di Carol Brightman, curatrice dell’epistolario Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e May McCarthy 1949-1975, traduzione di Amineh Pakravan Papi, Sellerio, Palermo 1999, pp. 686-687
[2] Appena pubblicato a cura di Stefano Verdino, con una nota di Benedetta Craveri (figlia di Elena Croce): Scrivimi. Lettere 1967-1992, Rubbettino, Napoli, pp. 243
[3] Nicola Chiaromonte, Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura, a cura di Raffaele Manica, Milano 2021