Casa Editrice Giuntina, 2013. Traduzione di Corrado Badocco.
di Shulim Vogelmann
Joachim Fest: Certo, poc’anzi Lei ha accennato al fatto che la nostra concezione del male, o comunque quella che è stata formulata in termini religiosi, filosofici, letterari all’interno della nostra area culturale, non contempla affatto una tipologia di uomo come Eichmann. Una delle tesi del Suo libro – e che emerge già nel titolo – è quella della «banalità del male». A ciò si sono legati numerosi fraintendimenti.
Hannah Arendt: Sì, vede, questi fraintendimenti sono in realtà quel poco che di genuino c’è stato nell’intera polemica. Ritengo cioè che questi stessi fraintendimenti sarebbero sorti comunque e in ogni caso. Quelle cose hanno in qualche modo procurato un terribile choc e lo capisco bene, perché io stessa ne sono rimasta al quanto scioccata. Per quanto mi riguarda fu qualcosa a cui non ero veramente pronta.
Comunque, uno dei fraintendimenti è questo: s’è creduto che ciò che è banale fosse perciò anche comune, ordinario. Ora, pensavo fosse chiaro che… Non intendevo dire questo. Non intendevo assolutamente dire: «Un Eichmann alberga
in noi, ciascuno di noi ha dentro di sé un Eichmann e chissà che diavolo altro». Niente del genere! Posso ben immaginarmi di parlare con qualcuno e che questo qualcuno mi dica qualcosa che non avevo mai sentito prima, cioè qualcosa per niente comune. E allora di questo qualcosa posso dire «È estremamente banale». Oppure: «È di poco valore». In questo senso ho parlato di banalità.
Ebbene, la banalità è stato un fenomeno impossibile da ignorare. Questo fenomeno ha trovato espressione in cliché e modi di dire addirittura grandiosi e che continuano a riecheggiare fino a oggi. Voglio dirLe che cosa intendo con banalità perché a Gerusalemme m’è venuta in mente una storia raccontata una volta da Ernst Jünger e di cui mi ero scordata.
Durante la guerra, Ernst Jünger (questo episodio è narrato nel libro Irradiazioni) si reca da contadini pomerani o meclemburghesi – no, credo fossero della Pomerania – e uno di loro aveva ricevuto direttamente dai campi di concentramento alcuni prigionieri di guerra russi, che erano naturalmente molto affamati – Lei sa come furono trattati i prigionieri di guerra russi in quei campi! E questo contandino dice a Jünger: «Be’, che esseri subumani – […] sembrano animali! E ciò lo si capisce già dal fatto che rubano il mangiare ai maiali». Jünger glossa questo episodio dicendo: «A volte sembra come se il popolo tedesco abbia un diavolo in corpo». E non disse questo in senso «demoniaco». Vede, questo episodio è di scandalosa stupidità. Voglio dire: questa storia, per così dire, è stupida. Il contadino non capisce che a fare questo sono uomini per l’appunto affamati e che chiunque farebbe altrettanto al posto loro, no? Ma tale stupidità è davvero qualcosa di scandaloso. […] Eichmann era molto intelligente, però aveva questo genere di stupidità. Era tale stupidità a risultare oltremodo scandalosa. Ed è questo che propriamente ho inteso dire quando parlai di banalità. In ciò non v’è nulla di abissale – cioè di demoniaco! Si tratta semplicemente della mancata volontà di immaginarsi davvero nei panni degli altri, avendo cioè un’idea di cosa capita loro, no?
SINOSSI DEL LIBRO

Una violenta polemica a livello internazionale avevano scatenato gli articoli sul processo svoltosi a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann raccolti da Hannah Arendt nel suo celebre quanto controverso libro La banalità del male. Come poteva un semplice burocrate essere responsabile dello sterminio di milioni di persone? Come poteva il «male» essere definito «banale»? Per discutere e chiarire queste e altre inquietanti domande non c’era forse interlocutore più adatto che lo storico Joachim Fest, già noto per i suoi studi sui gerarchi del Terzo Reich e che si fece presto apprezzare come autore delle monumentali biografie su Hitler e Speer.
Complesse questioni storiografiche e filosofiche s’intrecciavano nel libro su Eichmann e che ritroviamo approfondite in tutta la loro vitalità e attualità anche in questo volume, che oltre ai principali documenti della controversia intorno al libro di Hannah Arendt pubblica per la prima volta l’intervista del 1964 con Joachim Fest, ritrovata solo di recente, e le inedite lettere che i due si sono scambiati fino al 1973.