Nel libro dell’Esodo (20, 8-11) si legge: “Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo. Lavora sei giorni e fa in essi ogni opera tua; ma il settimo è giorno di riposo sacro all’Eterno che è l’Iddio tuo. Non fare in esso lavoro alcuno né te, né il tuo figliolo, né la tua figliola, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora entro le tue porte; poiché in sei giorni fece l’Eterno i cieli, la terra, i mari e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di riposo e lo ha santificato” (Esodo 20,8-11).
Nella tradizione ebraica lo Shabbàt è il settimo giorno della settimana, che comincia con la domenica. Shabbàt inizia il venerdì sera al tramonto e finisce il sabato sera, un’ora dopo il tramonto come tutte le festività ebraiche, perché è scritto nella Torà nella parte relativa alla creazione: “E fu sera e fu mattina”.
Gli orari dello Shabbàt dipendono quindi dal luogo dove uno si trova e dal momento dell’anno, perché sono basati sull’apparire in cielo delle prime tre stelle. Durante lo Shabbàt (dall’ebraico shavāt, interrompere e quindi riposo), alcune attività sono vietate perché derivano dei principali lavori eseguiti nella costruzione del Tempio, simbolo della creazione del mondo. Riguardano soprattutto attività agricole, domestiche, di tessitura, cucitura, filatura, di accensione e spegnimento del fuoco, di preparazione dei cibi, di trasporto di oggetti dalla propria casa all’esterno e viceversa, di viaggio oltre una certa distanza e di commercio. L’essenza dello Shabbàt è di lasciare da parte i lavori della settimana e ogni attività che comporti cosciente trasformazione dell’ordine esistente come cucinare, scrivere, usare l’elettricità, guidare la macchina, per fare posto a Dio nel giorno in cui ha finito di creare il mondo, facendo posto all’uomo.
Il giorno dello Shabbàt deve essere l’occasione di rallegrarsi in famiglia, di svuotare lo spirito delle preoccupazioni e dei doveri materiali della settimana, di studiare la Torà e di accogliere l’Oneg Shabbàt, il benessere dello Shabbàt. Il venerdì sera prima dell’entrata dello Shabbàt vengono accese due candele, simbolo della luce di Dio che fa risplendere la casa. Un rito dalle origini lontanissime: «Lo Shabbàt è nato con la creazione del mondo, alla fine della creazione – ha scritto Riccardo Shemuel Di Segni, Rabbino Capo di Roma, in “Shabbàt Shalòm. Il rinnovamento dell’umanità – Dialoghi con Riccardo Shemuel Di Segni e David Meghnagi” a cura di Dario Coen (Gangemi Editore, 2022) – Dopo sei giorni di creazione, racconta la Torà al suo inizio, il Signore si fermò. Quindi Shabbàt e creazione sono due termini indissociabili. Quando il testo della Genesi afferma, molto letteralmente, che lo Shabbàt viene a portare a compimento l’opera creatrice dei sei giorni, si deve intendere non che esso si aggiunga alla natura, che ne costituisce la base insostituibile, ma che sia intrinseco ad essa. Esso completa l’ordine naturale, conferendo senso alla sua esistenza, e si situa all’interno di questa stessa realtà”.

Del significato universale dello Shabbàt abbiamo parlato proprio con Riccardo Shemuel Di Segni, Rabbino Capo di Roma, che ci ha ricevuto nel suo studio dentro il Tempio Maggiore, all’indomani delle celebrazioni per i 120 anni dalla sua inaugurazione.
“Chi non conosce le regole dello Shabbàt e le apprende casualmente resta sorpreso dalle stranezze e dalle durezze di questa istituzione di remota antichità, concomitante con la creazione – dice rav Di Segni – Lo Shabbàt ci impone il rispetto della creazione, ci ricorda che siamo solo fruitori, non padroni”. Sei giorni su sette il tempo ci appartiene, possiamo dedicarci a creare la realtà non soltanto con il lavoro ma “con ogni forma di azione creativa e trasformativa. Ma un giorno alla settimana noi ci asteniamo, ci ridimensioniamo, non esercitiamo potere sulla natura, cresciamo spiritualmente”. Rav Di Segni parla della tecnologia che ci assorbe, parla dei computer, delle televisioni, dei telefoni cellulari, degli schermi che guardiamo per così tante ore: “Non riusciamo a staccarci eppure fino a qualche decennio fa non li avevamo. Quando sono stati inventati pensavamo che sarebbero stati al nostro servizio, ora è il contrario, sono i nostri padroni, servono per tutto. E allora ben venga l’astensione che lo Shabbàt ci comanda, spegniamo tutto per 25 ore. L’ebraismo è una civiltà che dedica grande attenzione alla tecnologia però ha elaborato una disciplina interna per non farsi dominare dalla tecnologia. Uno strumento vieppiù prezioso all’alba della Intelligenza artificiale, che potrebbe avere sull’uomo un dominio incontrollato”.
La divisione del tempo in settimane, e quindi il ritmo modellato su sette giorni, non corrisponde a nessun ciclo astrale, contrariamente alle altre suddivisioni del tempo. Il giorno dura ventiquattro ore perché è basato sulla rivoluzione della Terra su sé stessa; il mese corrisponde alla rivoluzione della luna intorno alla Terra (per l’esattezza: 29 giorni e mezzo), l’anno è determinato dalla rivoluzione terrestre intorno al sole. Invece la settimana non corrisponde ad alcun fenomeno astronomico e l’universale accettazione di questa forma rappresenta un consenso al criterio biblico, alla misurazione del tempo basata non su un fenomeno naturale, ma sul trascendente. “Lo Shabbàt è stato osservato da Dio prima che dall’uomo – scriveva nel XIX secolo il rabbino livornese Elia Benamozegh – ed è proprio perché Dio lo ha osservato che è stato comandato all’uomo di osservarlo a sua volta”
Rav Di Segni ragiona nel solco profondo di questa tradizione: “Sacralizzare il tempo è un’idea bellissima. Le grandi civiltà hanno costruito edifici nello spazio, noi gli edifici li costruiamo nel tempo. Innalziamo un edificio spirituale quando impariamo che la nostra vita deve prendere un ritmo, e deve anche sapersi fermare”. La concezione biblica del dominio sul tempo, e l’introduzione nell’attività umana di una dimensione di libertà e di alterità, salva dall’alienazione sociale e economica e permette di rigenerarsi. Il filosofo francese-israeliano Benjamin Gross ha scritto che lo Shabbàt prospetta ciò che in linguaggio moderno chiameremmo “l’abolizione della divisione delle classi, l’insubordinazione verso le leggi dell’economia e il superamento dell’alienazione causata dalla necessità del lavoro quotidiano”.

Rav Di Segni osserva che mentre il giorno di riposo settimanale sta scomparendo dalle nostre città, dove gli esercizi commerciali sono sempre aperti, le nuove generazioni di ebrei osservano Shabbàt più di quella precedente, e tengono molto alle cerimonie domestiche che aprono e chiudono l’interruzione settimanale. “Lo Shabbàt è un piacere – dice – e a volte rappresenta una cura. Chi vive il lavoro come una droga, ad esempio, ha la preziosa occasione di pensare ad altre cose”. Il giorno dello Shabbàt deve essere l’occasione di rallegrarsi in famiglia, di svuotare lo spirito delle preoccupazioni e dei doveri materiali della settimana, di studiare la Torà e di accogliere nella casa e nella sua mente l’Oneg Shabbàt, il benessere dello Shabbàt, regalo di Dio all’umanità.
Rav Di Segni dice che “già da quando finisce il Sabato, tutta la settimana deve essere proiettata verso la sua fine, dedicando alla sua preparazione i pensieri migliori, la scelta dei cibi, i tempi lavorativi e l’organizzazione domestica, in un crescendo che culmina il giovedì e il venerdì”. E infatti Shabbàt viene chiamato anche “Shabbàt Hamalkà”, la regina Shabbàt. Proprio come se stesse arrivando una regina, ci si prepara solennemente ad accogliere lo Shabbàt fin dai primi giorni della settimana, provvedendo agli ingredienti necessari per cucinare cibi più elaborati e sofisticati del so – lito, o abiti più eleganti da indossare davanti a Sua Maestà. Il venerdì sera, con l’entrata della regina Shabbàt, in casa regna un’aura di tranquillità e di scintillante regalità.