Marcello Di Paola, Università degli Studi di Palermo
Se la prima pietra dell’ambientalismo contemporaneo fu posta da Rachel Carson nel 1962 con Silent Spring, un primo quadro generale di dove la questione ambientale si situasse nel panorama concettuale e politico caratteristico della modernità fu tracciato da Hannah Arendt nel 1958, in The Human Condition.
I libri di Carson e Arendt si muovevano in ambiti diversi: il primo denunciava gli effetti devastanti dei pesticidi sull’ecosistema e sulla salute umana; il secondo rifletteva sull’alienazione dell’individuo moderno e sulla “duplice fuga dalla terra all’universo e dal mondo all’io”. Il prologo di The Human Condition si apriva con una serie di dense riflessioni sul lancio dello Sputnik I, il primo satellite spedito in orbita nella storia dell’umanità, nel 1957. È quel prologo ad essere oggetto del presente scritto, che a mezzo secolo dalla scomparsa di Arendt lo rilegge alla luce di eventi ed accadimenti intellettuali, ambientali, e politici contemporanei.
Nonostante le differenze, Silent Spring e The Human Condition condividono una medesima lucidità critica. Arendt e Carson si dimostrano capaci di sorprendersi del corso che le cose hanno preso esattamente nel momento in cui le cose sembrano funzionare al meglio. Ai tempi in cui esse scrivono, le tecnologie di guerra, ormai convertite ad uso civile, nutrono corpi e speranze. I fertilizzanti, così come i pesticidi di cui scriveva Carson, che ora aiutano a riempire le tavole di una laboriosa classe media con cibo copioso a costi contenuti, erano diretta emanazione del processo Haber-Bosch che la Germania nazista aveva sviluppato durante il conflitto per produrre munizioni una volta divenuta oggetto di embargo internazionale. Lo Sputnik I, dal canto suo, era evidente filiazione dell’aeronautica bellica, delle tecnologie di comunicazione, e della cibernetica che avevano fatto progressi senza precedenti nelle due decadi precedenti. Carson e Arendt furono tra le prime a mettere in discussione il senso di questo momento storico: l’umanità sembrava passare dalla distruzione alla prosperità, ma tale prosperità si stava già contorcendo, come un antidoto che si fa veleno. The Human Condition mirava dichiaratamente ad “arrivare a comprendere la natura della società, quale si è sviluppata e mostrata al momento in cui fu sopraffatta dall’avvento di un’era nuova e ancora sconosciuta”.
Quell’ “avvento”, secondo Arendt, era stato segnato dal lancio dello Sputnik I, il primo mezzo di fuga dalla Terra; e quell’era è la nostra – l’era in cui la Terra non basta più. Dal 1958 ad oggi la popolazione mondiale è quasi triplicata, mentre la produzione agricola e industriale necessaria a fornire beni e servizi, in molti casi ancora più inquinante di quanto Carson avrebbe mai osato immaginare e prevalentemente energizzata da combustibili fossili, partecipa significativamente a cambiare la composizione atmosferica e con essa il clima del pianeta, e a decimare le sue specie. I satelliti riempiono ormai i cieli e presiedono alle comunicazioni e transazioni di tutti noi: se domani scomparissero, alcuni gangli fondamentali delle nostre società – banche, ospedali, scuole, servizi di sicurezza – si incepperebbero. Contestualmente l’URSS si è disgregata e ripensata Russia imperiale; la Germania si è riarmata; gli Stati Uniti vedono accartocciarsi il sogno americano, pericolosamente; e la Cina è emersa come potenza globale.
Oggi, alla crisi ambientale si accompagna una crisi storica, politica e istituzionale, che coinvolge e può sconvolgere l’ordine mondiale. Per l’occidente almeno, questo è a sua volta specchio di una profonda crisi di senso. E di nuovo, puntualmente, l’idea di fuggire da questo pianeta, l’idea di quel Pianeta B che potrebbe farci da seconda casa e di quegli altri corpi celesti che potrebbero farci da cambusa, si è riaffacciata tra coloro che hanno agio di intrattenerla, ed è di nuovo divenuta oggetto di investimenti politici e finanziari notevolissimi in molti paesi – non più solo Stati Uniti e Russia ma anche Cina, India, Giappone, gli Emirati Arabi Uniti, vari stati membri dell’Unione Europea singolarmente e di concerto, ed altri.
Il prologo di The Human Condition inizia descrivendo lo Sputnik I come un emissario dell’umano che entra temporaneamente in ritmo con i tempi siderali e le forze inumane del cosmo, “come se fosse stato ammesso in via sperimentale alla loro sublime compagnia”. Immediatamente dopo Arendt inaugura una delle tracce fondamentali del suo libro: la strana economia affettiva dell’essere moderni. Scrive: “Per un fenomeno piuttosto curioso, la gioia non fu il sentimento dominante” che accompagnò il lancio dello Sputnik I, e riporta come il New York Times lo descrisse invece come “un passo verso la fuga dalla prigionia dell’uomo sulla Terra e dal suo sottile involucro di atmosfera”. Riflettendo su questa affermazione, Arendt suggerisce che essa tradisca un acuto senso di alienazione dalle realtà del pianeta che condividiamo non solo tra noi umani, ma con tutte le altre entità viventi e non. L’ammirazione per le nostre stesse capacità scientifiche e tecnologiche, invece che parlarci di un bene che possiamo esercitare, nella economia affettiva della modernità ci parla di un male da cui ci possiamo liberare. Ma perché vedere in una prova di forza, quale il lancio dello Sputnik I, un rimedio ad una qualche immaginata debolezza? Perché ridurre libertà a liberazione? Perché non crogiolarsi nella propria potenza e darsi il tempo di esplorarla e comprenderla, e invece richiamare subito le limitazioni che tale potenza potrebbe e deve ancora scardinare? Perché provare non gioia, ma sollievo?
Arendt individua in questo atteggiamento una ribellione alla condizione umana, un desiderio di sostituire ciò che è stato dato con ciò che si può costruire. La terrestrità, che per lei è “la quintessenza della condizione umana”, diventa qualcosa da superare. Ed è la tecnica, naturalmente, a offrire i mezzi per superarla. O meglio, a offrire la speranza di un superamento.
Quando la mascotte olimpica della modernità, Prometeo, ruba il fuoco per donarlo agli umani così che possano difendersi dallo sterminio che di essi hanno deciso gli dèi, egli dona loro non già la tecnica generalmente, ma unatecnica fondamentale, quella che abilita ogni altra tecnica a venire – ovvero la speranza. Ogni tecnica è figlia della speranza e la speranza è una tecnica essa stessa, il meccanismo che permette la messa in discussione di ogni stato di cose, sia esso materiale, politico, o esistenziale.
La speranza è pionieristica ed energizzante, ma è anche scaturigine di insoddisfazione e di autoinganni. Come ogni tecnica, è a doppio taglio, antidoto e veleno; ed ha inoltre una gemella triste che sempre l’accompagna, ovvero la paura. Quando lo Sputnik I si alza, dunque, nella speranza di altri mondi, ciò porta non gioia ma sollievo, dalla paura che “il sottile involucro dell’atmosfera” della Terra sia troppo sottile per toglierci ogni paura.
Così come troppo fragile è la costituzione dei nostri corpi, ed infatti immediatamente a seguire Arendt cita un altro tentativo tecnico di superare la condizione umana, che è speranza di superare la paura prima, ovvero la morte: “io credo anche che un desiderio di sfuggire alla condizione umana si nasconda nella speranza di protrarre la durata della vita umana aldilà del limite dei cento anni”. Oggi, facilmente notiamo che tra coloro che spingono per lasciare la Terra per andare sulla Luna e poi su Marte vi sono molti che finanziano anche ricerche sulla longevità ultracentenaria, e sulle possibilità di trasferire digitalmente le loro persone – i loro ricordi, tendenze, competenze – su supporti digitali extra-corporei che permettano così una forma di immortalità.
Il corpo e la Terra: superarli è un sogno antico ma sempre attuale, che la modernità persegue con i suoi nuovi, mirabolanti mezzi. E qui Arendt fa uno scarto alquanto imprevedibile, che però individua l’implicazione necessaria del perseguire quell’antico sogno con quei nuovi mezzi – ovvero l’abbandonarsi al più-che-umano. Scrive:
La difficoltà sta nel fatto che le ‘verità’ della moderna visione scientifica del mondo, benché dimostrabili in formule matematiche e messe alla prova nella tecnologia, non si prestano più all’espressione normale del discorso e del pensiero. Ma può darsi che noi, che siamo creature legate alla terra e abbiamo cominciato a comportarci come se l’universo fosse la nostra dimora, non riusciremo mai a comprendere, cioè a pensare ed esprimere, le cose che pure siamo capaci di fare. Sarebbe come se il nostro cervello, che costituisce la condizione fisica, materiale dei nostri pensieri, fosse incapace di seguirci in ciò che facciamo, tanto da rendere necessario in futuro il ricorso a macchine artificiali per produrre i nostri pensieri e le nostre parole. Se la conoscenza (nel senso moderno di know how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercè di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale.
Questo passaggio introduce vari temi di interesse. Arendt lo presenta come una articolazione della “crisi interna alle stesse scienze naturali” (in quegli anni la fisica quantistica ridisegnava la fisionomia della natura in maniera tanto matematicamente solida quanto sbalorditivamente controintuitiva), ma si vede presto che la crisi in questione travalica i confini delle scienze e non è solo epistemologica ma esistenziale. Quando la tecnica, che è speranza e nostra migliore speranza, supera le stesse condizioni fisiche che l’hanno prodotta (“il nostro cervello”), allora la tecnica non è più nostra, e non essendone più padroni simmetricamente noi diveniamo “esseri senza speranza” – e peggio, “creature prive di pensiero alla mercè di ogni dispositivo tecnicamente possibile”. Dopo aver descritto il distacco dalla Terra con lo Sputnik I, e poi di noi stessi dal nostro corpo con i tentativi di superare i vincoli della morte, e poi della scienza dal senso comune e dal discorso, Arendt descrive ora il distacco della conoscenza dal nostro saper pensare, e l’immediata ed aumentata vulnerabilità che ne segue.
È ovvio per noi oggi venire immediatamente attratti da quella formula, “macchine artificiali”, che suona forse meno lusinghiera delle nostre “intelligenze” artificiali ma che nel passaggio in esame descrive esattamente la stessa cosa, e la descrive impegnata a fare esattamente la stessa cosa, ovvero “produrre i nostri pensieri e le nostre parole” lì dove noi non arriviamo a farlo. Ed è ovvio anche notare che, di nuovo, tra coloro che spingono per andare su Marte e per allungare la vita sono molti quelli impegnati anche nello sviluppo di intelligenze artificiali sempre più potenti, che promettono una trasformazione assoluta delle nostre società e delle nostre vite individuali.
Di questa trasformazione, al momento, a malapena sappiamo individuare qualche traiettoria. Anche oggi, che vediamo quelle “macchine artificiali” proliferare davanti ai nostri occhi, non abbiamo contezza di dove la separazione della conoscenza dal pensare umano di cui parla Arendt, e l’abbandono al non-umano che l’affidarsi all’intelligenza artificiale implica e promuove, potrà portarci infine. Non hanno tale contezza neppure coloro che le intelligenze artificiali le stanno sviluppando. Sappiamo però che esse faranno molte cose che noi non capiremo e che ora non possiamo neanche immaginare. Dunque, più conosciamo, più dobbiamo accettare incognite sconosciute per continuare a conoscere.
Ma conoscere senza capire è un paradosso. Eccone un altro: su Marte, probabilmente, arriveranno innanzitutto e perlopiù le macchine intelligenti, e relativamente pochi umani in carne e ossa. L’esperienza dello spazio sarà perlopiù mediata da quelle macchine, e molti aspetti di essa saranno forse persino loro esclusiva. Quelle macchine sono entità intelligenti ma non coscienti. Se è vero che non c’è valore senza esperienza qualitativa, né esperienza qualitativa senza una coscienza fenomenica che la abbia, allora o le macchine marziane intelligenti saranno anche coscienti, ammesso che ciò sia possibile, oppure il valore della colonizzazione si svuoterà notevolmente. Quel “valore astronomico” che sarebbe realizzabile oltre la Terra, promesso dai cosiddetti “lungotermisti” (un gruppo di pensatori-attivisti distribuito tra Oxford e la Silicon Valley, divenuto riferimento concettuale per molti finanziatori della colonizzazione spaziale), appare allora parecchio più evanescente. E vale la pena, lasciare la Terra, se il bene che potrebbe venirne non lo esperirà nessuno, o solo pochi?
Il tema, ovviamente, è immediatamente politico, non foss’altro perché le risorse necessarie all’impresa spaziale, se spese sulla Terra, potrebbero portare del bene esperito a moltissime persone, e molto più velocemente. E si intreccia con un altro, con l’ultimo tema che Arendt menziona nel prologo: l’automazione del lavoro.
Su Marte ci vorranno lavoratori più-che-umani, competenti, veloci, precisi, instancabili. Le infrastrutture ed i processi da costruire e gestire richiederanno un tipo di operare qualificato che sapiens perlopiù non potrà fornire. Ma in attesa di impiegarla su Marte, l’automazione del lavoro sta già dilagando sulla Terra. Nel considerarne l’eventualità, Arendt pone non solo il problema che oggi ci si dice l’automazione ponga, ovvero la perdita di impieghi per umani in carne e ossa, ma anche un problema di perdita di senso, di un profondo disorientamento esistenziale. Questa perdita viene inquadrata storicamente e concettualmente nello sfatarsi delle promesse del produttivismo, quale che fosse la sua ideologia giustificativa in questo o quel contesto:
L’era moderna ha portato con sé una glorificazione teorica del lavoro ed è sfociata in una trasformazione fattuale della società tutta in una società di lavoratori […] E’ una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dai gioghi del lavoro, e questa società non sa più molto di quelle attività più alte e significative per perseguire le quali vale la pena di liberarsi da quei gioghi […] Ciò che ci si para innanzi è dunque la prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, ovvero senza quell’ultima attività che gli era rimasta. Di sicuro non può esserci nulla di peggio.
Lavorare è una necessità individuale, ma è anche una ideologia sociale le cui urgenze hanno progressivamente obliterato la dignità e spesso anche la possibilità di “quelle attività più alte e significative” che si trovano oltre il lavoro – possiamo immaginare l’attività creativa, la contemplazione, l’azione politica, la convivialità, la spiritualità. Chi con queste non ha più dimestichezza, una volta che il suo lavoro sarà automatizzato non saprà più cosa fare di sé stesso. Da qui la perdita di senso.
La scomparsa del lavoro in una “società di lavoratori” può accelerare ulteriormente il ripiegamento su sé stessi che Arendt chiama “la fuga dal mondo all’io”, quel ritrarsi in un individualismo dei desideri e dei criteri, e addirittura delle verità, che tenta di dare un senso a sé stessi senza il supporto del mondo; o meglio, oggi, con il supporto di quel mondo virtuale che si trova sulle piattaforme digitali, cioè abbandonandosi, in un’altra maniera ancora, al più-che-umano – però stavolta non per fronteggiare l’inumano oltre la Terra, ma per mantenere in circolazione almeno una versione surrogata dell’umano sulla Terra, senza quasi più abitarla.
“Non può esserci nulla di peggio”, scrive Arendt, e chi aveva letto The Origins of Totalitarianism avrebbe intuito perché. Una volta allontanati dal lavoro, trovando poche fonti di significato nella propria quotidianità, gli individui che formano una società ai loro occhi a quel punto fallita possono disporsi a cercare di nuove, magari in una qualche nuova “missione storica” che titilli vecchie paure e speranze – rendendosi così servi volontari per operazioni altrui. Nella sua opera precedente, Arendt aveva già descritto l’atomizzazione sociale e l’alienazione degli individui – la “fuga dal mondo all’io” – quali caratteristiche tipiche delle società moderna e presupposti necessari all’instaurazione dei totalitarismi. Aveva anche osservato come il suddito ideale del regime totalitario non sia tanto l’individuo fanatico e ideologizzato, quanto l’individuo conformista e passivo, soddisfatto di essere un surrogato di sé stesso e dunque perfettamente adatto alla servitù volontaria. L’individuo che vive su piattaforme digitali, quello che ognuno di noi ormai più o meno è, sembra incarnare il suddito ideale. E non mancano oggi nuovi sogni totalitari cui asservirsi.
Dopo il prologo, The Human Condition continua per traiettorie complesse e profonde che non v’è qui malposta ambizione di dipanare. È bene invece chiudere tornando al parallelo tra il lavoro di Arendt e quello di Rachel Carson. Ciò che li collega, nel contesto di quegli anni rombanti che andarono dal 1955 al 1965 – quando suonavano i Beatles, l’Italia viveva il suo “miracolo”, e il cambiamento climatico non era ancora divenuto una questione pubblica – è questo chiarissimo percepire che l’incremento esponenziale del potere tecnico-scientifico che si stava avendo allora, e che ancora oggi sta accelerando, non avrebbe necessariamente generato maggiore comprensione del mondo, né maggiore libertà e giustizia per individui e collettività. E questo fu percepito nonostante ancora suonassero i Beatles, e ancora dovesse iniziare la rivolta culturale (in parte ispirata proprio da Arendt e Carson) che avrebbe fatto sognare una maggiore comprensione del mondo e maggiore libertà e giustizia a milioni di giovani fra il 1965 e il 1975. Le due autrici videro come quel sogno fosse costruito su strutture che tendevano per loro costituzione a spegnerlo. Compresero e trasmisero il fatto che all’aumentare della nostra giurisdizione sulla natura può facilmente non corrispondere un effettivo potenziamento di chi noi siamo – almeno non in quanto esseri mortali e terrestri che cercano un significato alle proprie vite, individualmente ed insieme.
Ciò che lega le due autrici è questa consapevolezza che l’essere umano non è un’entità astratta ma un essere incarnato, situato, relazionale. L’idea di un futuro su Marte, abitato da “macchine artificiali” e automi intelligenti, è affascinante – ma questa fascinazione è anche sintomo di una profonda dissociazione e di una sconfitta, anzi di sconfitte molteplici e di molteplici perdite: della parola pensata, del lavoro significativo, del coinvolgimento politico, di legami fra umani e non umani e fra le generazioni. La fuga dalla Terra — letterale o simbolica —implica la rinuncia a immaginare un futuro sulla, della, e con la Terra. Si sostituisce allora la trasformazione collettiva con il pionierismo individualistico, la cittadinanza con la competenza tecnica, il dialogo con le “macchine artificiali”. In questo quadro la crisi ecologica, la crisi democratica, e la crisi del lavoro sono tutte voci di una più ampia crisi di senso.