Curato da David Dattilo e Paola Tavella
“Bisogna resistere e opporsi all’attacco devastante, con il recupero del nostro vero ebraismo, la correzione dei comportamenti, delle idee e delle conoscenze. E cheRav Jonathan Sacksr quanto gli è possibile, di colmare i solchi delle spaccature che ci dividono. […] Questo rosh chòdesh però l’invito generico dovrebbe avere un contenuto più specifico. La consapevolezza che niente è più come prima.”
Queste parole di Rav Di Segni, scritte all’inizio del mese di Elul – l’ultimo del calendario ebraico, che precede Rosh haShanà e Yom Kippur – richiamano al cuore del messaggio di questo tempo: la teshuvà, il ritorno.
La teshuvà è uno dei concetti chiave dell’ebraismo, filo conduttore dei giorni più santi. È un’idea complessa che include rimorso, pentimento e bilancio interiore. Pur essendo un termine post- biblico, la parola teshuvà è radicata nella tradizione ebraica ed è stata elaborata dai maestri, fino a Maimonide, che ne ha definito i tratti fondamentali: riconoscere il male compiuto, impegnarsi a non ripeterlo, e dimostrare la sincerità del pentimento quando si presenta di nuovo la stessa occasione di peccato, scegliendo questa volta una strada diversa.
Questo numero di Erre è dedicato al “Giubileum”, sancito nel 2025 dalla Chiesa cattolica dalla “pellegrini di speranza” citando la bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 di Papa Francesco, in cui si ricorda che il perdono non cancella il passato ma può aprire al futuro. Ma in qualche modo possiamo agire sul nostro passato? Come tutti sappiamo, ciascuna azione che andiamo a compiere o che abbiamo già compiuto ha sempre conseguenze molteplici, buone e cattive: “Del male che voi avevate pensato di farmi Dio si è valso a fin di bene” questo dice Giuseppe rivolgendosi ai fratelli nella Torà (Genesi 50,20). Questa idea, ci spiega rav Jonathan Sacks nel libro Alleanza e Conversazione appena pubblicato dalla casa editrice Giuntina, è una idea di una portata enorme: implica che se cambiamo il nostro cuore, siamo in grado di riscattare il passato.
“Niente è più come prima”, dice rav Di Segni e aggiungerei citando il Talmud “ciò che è stato è stato” (Pesachim 108a) e non possiamo cambiarlo!
Con o senza pentimento il passato è passato ed è comunque immodificabile. Tutto ciò è vero, innegabile, ma come ci spiega Giuseppe parlando con i suoi fratelli, esistono due concezioni del passato: la prima è ciò che è avvenuto, la seconda è il valore di ciò che è avvenuto.
Questa trasformazione può avvenire appunto grazie alla teshuvà.
Un esempio eloquente è la vicenda di Resh Lakish, maestro del III secolo. Rapinatore e gladiatore, incontrò rabbi Yochanan che lo convinse a studiare. Divenne così uno dei più celebri ba’alè teshuvà del Talmud.
Pur lasciandosi alle spalle la vita criminale, continuò a utilizzare le capacità maturate in quel contesto – forza e coraggio – per scopi positivi, come liberare un collega rapito o recuperare beni rubati. Le sue colpe non furono cancellate, ma trasformate: divennero parte essenziale del bene che riuscì a compiere. Cosa ci insegna la storia di Rèsh Lakìsh?
Era stato un rapinatore di strada e avrebbe potuto continuare a esserlo. Invece divenneun ba’al teshuvà, e utilizzò da quel momento in avanti proprio quelle caratteristiche che aveva sviluppato nella sua precedente vita – la forza fisica e il coraggio – a scopi virtuosi. Sapeva che non avrebbe potuto farlo se avesse avuto un passato diverso, una vita di studio e di pace. Le sue trasgressioni divennero meriti perché viste retrospettivamente costituirono una componente essenziale del bene che alla fine compì. Ciò che era accaduto (il passato in quanto passato) non cambiò, ma il suo significato (il passato in quanto parte di un racconto di trasformazione) sì.
Trasformazione attraverso le idee, la conoscenza, colmando le spaccature che ci dividono.
La “correzione dei comportamenti, delle idee e delle conoscenze” a cui ci invita rav Di Segni può avvenire “Se ciascuno di noi è in grado di cambiare sé stesso, grazie a quell’affermazione radicale di libertà che chiamiamo Teshuvà […]. Allora il tempo diviene una arena del cambiamento nella quale il futuro riscatta il passato e nasce una concezione nuova – l’idea a cui diamo il nome di speranza.”
(Rav Jonathan Sacks)
