Donne, speranza di pace nei territori contesi

Intervista a Yahel Brando e Maria Hammad di Laura Fano

Chi sono e cosa fanno le attiviste israeliane di Yael e quelle palestinesi di Marwa
Yahel-Braudo Bahat è co-direttrice dell’organizzazione israeliana Women Wage Peace. Marwa Hammad è direttrice dei progetti per l’associazione palestinese Women. Le due organizzazioni sono state candidate al Nobel per la Pace 2024. In questa intervista a quattro mani condividono le loro rifessioni sul ruolo delle rispettive organizzazioni, sul confitto pluridecennale nel loro territorio e sul ruolo specifco delle donne nella ricerca di una pace equa e duratura.
Qual è l’origine delle vostre organizzazioni?

Yael: Women Wage Peace è stata fondata dieci anni fa, nel 2014, subito dopo la “protective edge operation” (operazione margine di protezione) a Gaza, che, fno a nove mesi fa, chiamavamo la grande guerra di Gaza. Prima infatti c’erano state continue operazioni militari di minor scala. Nel 2014 circa 30 donne provenienti da ogni estrazione sociale e di diverse opinioni politiche decisero che bisognava fare qualcosa, qualcosa di diverso, e fondarono Women Wage Peace. Come organizzazione siamo cresciute molto nel tempo e ora contiamo con oltre 50.000 membri registrati. Alcune socie fondatrici avevano una lunga storia in altre organizzazioni e movimenti pacifisti. Decisero però che Women Wage Peace doveva essere un movimento di donne composito, non un altro movimento di sinistra come la maggior parte delle organizzazioni pacifiste israeliane, bensì una organizzazione che potesse fornire uno spazio politico a donne che semplicemente volevano la pace, a prescindere dalla loro appartenenza partitica o tendenze politiche. Quindi noi non siamo un’organizzazione legata a partiti politici. Ovviamente, se si chiede al pubblico israeliano, tutti ci identificano con la sinistra perché c’è la parola pace nel nostro nome. Noi però diciamo che la pace non è necessariamente una parola di sinistra, così come la sicurezza non è necessariamente una parola di destra. La sicurezza può esserci solo se c’è pace e la nostra richiesta è che siano messe in campo negoziazioni per una risoluzione del confitto israelo-palestinese. Non appoggiamo nessuna soluzione specifica – quella dei due stati, quella di uno stato, una federazione. Diciamo semplicemente che i leader politici devono dare inizio alle negoziazioni e che noi appoggeremo ogni accordo politico che sia rispettoso, non-violento e accettato da entrambe le parti. Inoltre, cosa estremamente importante, esigiamo la partecipazione attiva delle donne in questo processo. Le donne devono sedere ai tavoli di negoziazione perché sappiamo che, in accordo con la risoluzione ONU 1325, quando le donne partecipano alle negoziazioni, l’accordo è migliore, sostenibile e più inclusivo.

Marwa: Women of the Sun è stata fondata a Betlemme nel febbraio 2022 con la missione di emancipare le donne e le ragazze palestinesi attraverso l’istruzione, la costruzione della pace, l’empowerment economico. Contiamo su circa 3000 membri in Cisgiordania, a Gerusalemme e a Gaza. Il nostro focus è l’emancipazione delle donne palestinesi dal punto di vista politico e economico, e crediamo che sia necessario avere anche una componente di peace-building perché non può esserci empowerment politico senza mettere queste donne in contatto con altri partner. Lavoriamo per far sentire la voce delle donne palestinesi, metterle in contatto con donne israeliane e far loro vedere che abbiamo partner dalla parte opposta, e che queste sono brave persone. Questo è importante perché per noi il muro dell’apartheid, così come altri ostacoli, crea un divario enorme tra la popolazione israeliana e quella palestinese. Quindi è fondamentale poterci rispettare mutualmente. Perché ci concentriamo sulle donne? Innanzitutto perché siamo donne, ci scontriamo con la dominazione maschile nelle nostre comunità, con stereotipi, con problemi sociali. Non abbiamo una leader forte, una donna palestinese con una propria voce. Ci si aspetta che facciamo parte dei partiti politici e delle organizzazioni ufficiali, o che la nostra voce passi attraverso quella degli uomini, e noi non vogliamo questo, vogliamo avere la nostra voce perché ci sono tanti diritti da reclamare. Vogliamo libertà di movimento, libertà di espressione. E l’empowerment economico, perché, affinché le donne palestinesi abbiano la propria voce, bisogna che siano indipendenti da un punto di vista economico, in modo da poter esprimere le proprie opinioni all’interno delle loro famiglie, nelle loro comunità e nello spazio pubblico e politico.
Come e perché avete iniziato a collaborare?

Yael: In Israele collaboriamo con movimenti israeliani così come con palestinesi israeliani e con donne ebree, attraverso lavoro sul campo e sui social media, cercando di trasmettere il messaggio che la pace è possibile, la pace è necessaria, che il confitto non può essere più gestito e deve essere risolto. Abbiamo organizzato eventi, proteste, manifestazioni e laboratori. Circa cinque anni fa abbiamo cominciato a lavorare con attivisti pacifsti palestinesi. Abbiamo deciso che volevamo lavorare con loro in maniera più stretta, perché già lo facevamo ma sporadicamente. Per esempio, nelle grandi marce del 2016 e 2017 abbiamo ospitato migliaia di donne palestinesi provenienti dalla Cisgiordania. Poi abbiamo pensato che era arrivato il momento di lavorare in partnership con donne palestinesi dei movimenti pacifsti e, nel 2019, abbiamo avuto una serie di incontri per cercare di arrivare a una visione comune.
Pensavamo che se le donne non erano in grado di farlo, non potevamo pretendere che riuscissero a farlo i leader politici. Così abbiamo cominciato questo processo molto lungo, per nove mesi ci siamo incontrate e alla fne abbiamo scritto il documento “Mother’s Call” (Appello delle Madri). Il passo successivo sarebbe stato quello di organizzare eventi e progetti insieme, ma è arrivato il Covid e ci siamo dovute fermare per un anno e mezzo. Ci siamo riunite di nuovo nel 2021 e siamo state entusiaste di sapere che il nostro partner palestinese aveva deciso di creare un proprio movimento: Women of the Sun.

Marwa: La nostra relazione con Women Wage Peace è cominciata nel 2022 quando abbiamo firmato un accordo, ma prima di questo abbiamo lavorato insieme alla “Women’s Call” per nove mesi. È stato un lavoro molto difficile, perché non ti rapporti con gente della tua comunità, devi lavorare con una comunità molto diversa. Il nostro lavoro consiste sia in programmi rivolti solo a donne palestinesi, sia in programmi rivolti anche a donne israeliane, ma soprattutto insistiamo con le donne palestinesi perché siano parte del processo di costruzione della pace. Non è stato facile far sì che la Mother’s Call utilizzasse il linguaggio sia dei Palestinesi sia degli Israeliani, e far sì che ci rispettassimo mutualmente. Abbiamo incontrato spesso differenze forti tra noi, ma penso che ora abbiamo una partnership solida. L’abbiamo raggiunta con un grande sforzo, non è stato facile perché abbiamo incontrato molte sfide, stereotipi, problemi. Ma avere questo documento nella nostra lingua è molto importante perché siamo convinte che, come donne palestinesi, non possiamo lasciare la sedia vuota, dobbiamo sederci al tavolo e reclamare i nostri diritti alla parte opposta. Dobbiamo mostrare loro la realtà e i problemi di cui soffriamo nella comunità palestinese, in modo che loro possano avere una giusta prospettiva di come viviamo e si possa raggiungere una soluzione che sia equa. La nostra richiesta al tavolo delle negoziazioni è che venga messa fne al confitto, che si fermi il genocidio, soprattutto perché sono le donne che ne pagano il prezzo, così come i civili in generale. Dobbiamo anche educare i nostri fgli e le nostre figlie alla pace, così che in futuro abbiamo una generazione che creda nella pace e voglia sedersi al tavolo con gli Israeliani per reclamare i propri diritti. La nostra attività consiste nell’organizzare marce ed eventi e abbiamo realizzato anche due progetti con Women Wage Peace. Avevamo organizzato un evento il 4 ottobre, purtroppo è stato proprio tre giorni prima dello scoppio della guerra, e in questo evento avevamo già detto “Fermiamo lo spargimento di sangue”, perché noi sapevamo cosa stava avvenendo nella vita reale ma nessun altro lo faceva. Ora abbiamo ricevuto molta più attenzione, siamo state nominate al premio Nobel per la pace insieme a Women Wage Peace, e abbiamo avuto l’onore di essere incluse tra le donne più infuenti del mondo del 2024 da Time Magazine. Continuiamo il nostro cammino per diffondere la Mother’s Call a livello locale e internazionale.
Le donne devono sedere ai tavoli di negoziazione perché sappiamo che, in accordo con la risoluzione ONU 1325, quando le donne partecipano alle negoziazioni, l’accordo è migliore, sostenibile e più inclusivo.
La Mother’s Call è molto interessante. In cosa consiste esattamente e come mai avete deciso di utilizzare il termine ‘madre’ invece di donne?

Marwa: È un’iniziativa simbolica. Il termine deriva dal fatto che ci siamo ispirate al ruolo di protezione che tradizionalmente è associato alle madri. Vogliamo proteggere i nostri figli, fare qualunque cosa per ottenere per loro un futuro migliore. Il termine si riferisce alla maternità perché noi come madri chiediamo pace, giustizia e la protezione delle famiglie e delle comunità che soffrono a causa del confitto. Il termine madre si riferisce al valore universale della cura, e come donne palestinesi la nostra forte resilienza ci spinge a lottare per tutto ciò che riguarda la nostra comunità e per le nuove generazioni. Per questo io credo molto nella Mother’s Call.

Yael: Vorrei solo aggiungere che la maternità, come ha già detto Marwa, e la cura sono sentimenti che tutte condividiamo. Possiamo litigare e non essere d’accordo su molte cose, sappiamo per esempio che ci sono due narrazioni molto diverse sulla storia di questa regione, ma affermiamo che non dobbiamo incolpare, far provare vergogna o puntare il dito contro una delle parti per ciò che è successo. Vogliamo guardare al futuro e ce ne prendiamo cura. Quindi si tratta del termine ‘madre’ in un’accezione politica e nel suo aspetto simbolico, che è un sentimento che molte donne, sia israeliane che palestinesi, apprezzano. E anche molti uomini! Anche se alcune volte ci dicono “siamo lasciati da parte e trascurati”. Noi gli rispondiamo che possono unirsi a noi se vogliono. Gli diciamo “Avete fatto la guerra per cent’anni, ora è il nostro turno per stabilire la pace; Tuttavia, vi potete unire a questo nostro sforzo”. Il termine ‘madre’ e la nozione di cura, inoltre, nella società israeliana sono dei sentimenti che possono connettere popolazioni e gruppi molto diversi, e questo è molto utile. Questo sentimento è qualcosa che ci portiamo dentro, siamo le madri della regione e questa regione è profondamente ferita. Abbiamo la responsabilità di prendercene cura, e lo sentiamo anche nei momenti più difficili e di disperazione. Ci diciamo che siamo le madri della regione, che abbiamo una responsabilità e ci mettiamo al lavoro.

Quindi non si tratta solo di essere madri delle nuove generazioni, ma, come tu hai detto Yael, anche della regione.

Yael: Non siamo preoccupate solamente per i nostri figli. Ovviamente, io sono preoccupata per i miei due fgli, ma anche per tutti i bambini israeliani e palestinesi e per le generazioni future. Ci sentiamo tutte madri di tutti. Questa è l’idea: non mi preoccupo solamente per i miei figli, per la mia famiglia o per i bambini israeliani. Ho a cuore tutti i figli della regione.

Siete delle organizzazioni di donne – le più grandi organizzazioni di donne nei vostri rispettivi paesi. Che rapporto vedete tra la guerra in generale e il ruolo delle donne e degli uomini?

Marwa: Nella comunità palestinese sono gli uomini a fare la guerra e le donne ne pagano il prezzo. Noi non decidiamo se fare la guerra, non siamo coinvolte attivamente nella guerra, ma ne paghiamo il prezzo. Significa perdere le nostre case, essere uccise, ferite, doverci prendere cura delle nostre famiglie. Penso che noi donne perdiamo tutto e c’è tanta pressione su di noi. Molte donne devono prendersi cura delle famiglie perché hanno perso i loro uomini, sono le famiglie a perdere queste guerre. È la società palestinese che fa sì che la guerra ricada tutta sulle spalle delle donne. Come organizzazione di donne palestinesi vogliamo proprio porre l’attenzione sulle donne perché non vogliamo più pagare il prezzo di questa guerra. E se pago il prezzo di una guerra a cui non ho preso parte, devo allora sedermi al tavolo delle decisioni. Vogliamo che cresca la voce delle donne palestinesi in modo che non ci siano più guerre, perché sono sicura che non esiste una donna palestinese che voglia la guerra, che voglia perdere la propria casa, la propria famiglia, i propri cari. Per questo facciamo pressione perché ci sia uguaglianza di genere nella presa di decisioni, perché si applichi la risoluzione ONU 1325 affinché le donne possano partecipare alle negoziazioni e non soffrire più gli effetti della guerra in futuro. Sono sicura di questo: non vogliamo più soffrire questa condizione.

Yael: Aggiungo la prospettiva israeliana. Da un lato le donne israeliane vengono reclutate – io per esempio ho servito nell’esercito molti anni fa, ma il mio servizio militare non aveva niente a che fare con il confitto. Per la maggior parte degli Israeliani, prima del 7 ottobre, il confitto non aveva nulla a che fare con le loro vite. Questo è uno degli ostacoli che ci troviamo ad affrontare all’interno della società israeliana perché la maggior parte della gente è sempre stata indifferente al confitto, dicendosi che poteva essere gestito. Ora non è più così. Tornando alla domanda sul fatto di essere un’organizzazione di donne, da un lato le donne vengono chiamate a svolgere il servizio militare, c’è una partecipazione di donne combattenti; dall’altro, le donne non sono abbastanza coinvolte nel processo di presa di decisioni sulla pace e la sicurezza, soprattutto in questo periodo. In altri periodi della storia e della politica di Israele ci sono state molte più donne coinvolte rispetto agli ultimi due anni. Nell’attuale compagine governativa quasi non ci sono donne, non c’è nessuna donna nel gabinetto di guerra per esempio. Quasi nessuna donna a capo dei ministeri, quelle poche che ne fanno parte seguono la linea estremamente fondamentalista dell’attuale governo. Non abbiamo alcuna voce e questo è terribile, come diceva Marwa, perché siamo noi a pagare il prezzo del confitto. Le donne e i bambini sono sempre quelli che pagano il prezzo delle guerre – disgraziatamente questo non è specifco della nostra regione, ma accade in ogni zona di confitto, nel passato e nel presente. Lavoriamo sul campo e con altre organizzazioni di donne proprio perché siano preparate a partecipare alle negoziazioni, nella presa di decisioni su pace e sicurezza, e perché siano più coinvolte. Non è ancora abbastanza, certamente non con questo governo, ma è forse la parte più importante delle nostre richieste, non solo per un principio di uguaglianza – per noi l’uguaglianza è importante, ma non è il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo è promuovere la pace e sappiamo che senza le donne ai tavoli prima e durante le negoziazioni, non si potrà raggiungere la pace e, se si raggiunge, non sarà sicuramente una pace sostenibile nel tempo.

Per concludere, una domanda sulla situazione attuale. Come riuscite a portare avanti il vostro lavoro, in particolare Women of the Sun? Quale pensate sia la migliore soluzione per il futuro?

Marwa: Come Women of the Sun lavoriamo su due fronti: le donne e la pace. Quindi ci troviamo di fronte a più sfide rispetto ad altre organizzazioni, perché nelle nostre comunità le donne non sono coinvolte in politica, non vengono considerate all’altezza. Noi ci battiamo per un riconoscimento da parte della nostra comunità, ci battiamo per poterci sedere allo stesso tavolo, poter dire che i Palestinesi non stanno facendo bene il loro lavoro.
La mia risposta è “va bene, sono una donna, mi sto adoperando e non lascerò il mio posto vuoto perché qualcun altro possa parlare di ciò che mi riguarda senza che io lo sappia”.Sono qui per parlare con la mia voce, reclamare i miei diritti e mostrare la realtà della popolazione palestinese e i problemi che ci troviamo ad affrontare.

Abbiamo di fronte a noi tante sfide, ma abbiamo anche tanta resilienza che ci viene dall’aver sofferto tanto durante il confitto. Per quanto riguarda la solidarietà internazionale, per noi non è necessario che consista in un supporto finanziario, bensì che venga posta attenzione ai nostri programmi così che possano continuare, che possiamo mostrarli a sempre più persone che credono nella pace e nell’emancipazione femminile.
Nel futuro voglio ascoltare la voce delle donne, specialmente voglio che la voce delle donne palestinesi sia amplificata. Che l’eguaglianza di genere nelle nostre comunità diventi realtà, che siano comunità emancipate per affrontare le sfide collettivamente. E lo possiamo fare attraverso l’istruzione, l’empowerment economico e il lavoro di advovacy per i nostri diritti.

Yael: Come ho detto, noi non aderiamo o proponiamo alcuna soluzione specifica. Tante volte nel corso degli anni ci hanno detto che dovevamo schierarci a favore di qualcosa di concreto: la soluzione dei due stati, un’altra o un’altra ancora. E recentemente questo è successo sempre più spesso. Ma come ho detto, noi siamo un movimento di donne con visioni e vite diverse che credono in diversi tipi di soluzioni al confitto, perché ci sono già molte soluzioni sul tavolo. Quindi ciò che noi diciamo è che questo confitto non ha bisogno di un nuovo piano, ciò di cui questo confitto ha bisogno è di leader coraggiosi che diano inizio alle negoziazioni. Noi facciamo pressione perché ciò avvenga, chiediamo alla comunità internazionale di supportare, facilitare, incoraggiare e renderlo possibile. Ma non sappiamo – davvero non sappiamo – non siamo in grado di sapere quale potrebbe essere la souzione perfetta per questo confitto. Sappiamo che sarà il prodotto di una negoziazione, come avviene in tanti altri confitti nel resto del mondo. Ci sono già tanti piani sul tavolo, messi a punto durante gli anni, quindi ciò di cui abbiamo bisogno è che i leader si siedano, includano le donne, inizino le negoziazioni e risolvano il confitto.
Women Wage Peace

È un movimento di pace di base israeliano, nato poco dopo la Guerra di Gaza del 2014. Il suo obiettivo principale è prevenire future guerre e promuovere una soluzione non violenta, rispettosa e reciprocamente accettata al confitto israelo-palestinese, con la partecipazione attiva di donne provenienti da diversi contesti politici e religiosi in tutte le fasi delle negoziazioni.
Women of the Sun

È un’organizzazione femminile palestinese con sede a Betlemme. Fondata nel luglio 2021, si dedica con passione a promuovere una risoluzione pacifica del confitto israelo-palestinese, portando avanti con coraggio la voce delle donne nel processo di pace.
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