Roy Chen è uno scrittore, traduttore e drammaturgo israeliano. La famiglia paterna arrivò in Palestina nel 1492 a seguito dell’espulsione dalla Spagna, la famiglia materna dal Marocco nel XX secolo. Nato a Tel Aviv nel 1980, è cresciuto con un nonno gioielliere e una nonna hostess poliglotta, un altro nonno pescatore e una nonna analfabeta, ma esperta nella sapienza antica del cuore. In gioventù, nell’ambito di una personale rivolta identitaria, Roy ha lasciato la scuola imparando da solo il russo. Negli anni, è diventato un traduttore di letteratura classica dal russo all’ebraico. Ha tradotto Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Cechov, Bunin, Charms e molti altri. All’età di diciannove anni ha iniziato a lavorare in teatro. Dal 2007 è diventato il drammaturgo stabile del Teatro Gesher, uno dei teatri più importanti di Israele. In Italia la Giuntina ha pubblicato il romanzo Anime e la pièce teatrale Chi come me che sta andando in scena al Teatro Franco Parenti di Milano con la regia di Anrée Ruth Shammah.
Come trascorri il tuo Shabbàt a Tel Aviv?
Il sabato mattina ci svegliamo lentamente. Mi fermo e insieme a me si fermano tutti i miei personaggi – di solito non scrivo di Shabbat. È una giornata dedicata alla famiglia e a tutto ciò che non ho fatto durante la settimana: yoga, lettura, cucina. Di solito andiamo dai miei genitori che ci fanno mangiare come oche per il foie gras. Altre volte ci incontriamo con gli amici in un bar, la mattina, e ci prendiamo il nostro tempo. a poco a poco.
Quando eri piccolo nella tua famiglia si osservava lo Shabbat? Hai dei ricordi legati allo Shabbat?
Niente scuola: e già così era una giornata positiva. Papà legge i giornali sul balcone, fuma e maledice i politici, la mamma cucina, spettegola con le mie zie. Fuori non ci sono macchine, i bambini giocano per strada. Con la famiglia di mia madre: vado alla sinagoga marocchina, rumore, gioia, piccoli scandali, vita colorata. Con la famiglia di mio padre: ateismo dimostrativo: film in TV, musica, litigi, battute che si ripetono all’infinito. Molte volte mi sono trovato ad annoiarmi durante lo Shabbat, oggi posso dire che la noia è la madre della creazione.
Che significato ha per te lo Shabbat da persona laica?
Un giorno in cui il sistema ti lascia andare. E ti liberi. Una sorta di reset fisico e spirituale. Fermare la corsa infinita. Prendere decisioni per la settimana che sta per iniziare. Però sono grato agli ebrei religiosi. Se non avessero osservato lo Shabbat nei millenni, soprattutto quando ancora nel mondo non esisteva l’idea di concedere e concedersi un giorno di riposo settimanale, chissà se questa grande idea sarebbe arrivata a noi…
Cosa ti viene in mente associando le parole Shabbat e Teatro?
Il sabato è un giorno speciale a teatro. Di solito gli spettacoli per bambini vengono messi in scena il sabato mattina: una giornata comoda per tutta la famiglia. Sono felice di vedere ottocento persone riempire la sala di sabato mattina. Si riuniscono nella piazza davanti al teatro, bevono succo d’arancia o mangiano falafel, fanno foto sullo sfondo della fontana, comprano programmi e li leggono, poi entrano nella sala buia e inizia la magia. Un’ora e un quarto dopo escono e il loro Shabbat è pieno dello spirito del teatro.
