Hannah Arendt e il cinema
di Sergio Brancato – Professore ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Napoli “Federico II”
Possiamo immaginare un film tratto da uno dei libri più rappresentativi – e, pertanto, epistemologicamente controversi o perfino scomodi – del Novecento qual è appunto La banalità del male di Hannah Arendt? Qualcuno potrebbe obiettare che, trattandosi di un saggio-reportage, il problema non si pone poiché la sua narrazione ha una rigida struttura documentale che non si presterebbe alle finzioni del cinema. Altri opporrebbero l’argomentazione che perfino dal celebre Rapporto Kinsey – pubblicato in due volumi tra il 1948 e il 1953, dedicato ai comportamenti sessuali delle donne e degli uomini nella tarda modernità – il regista Bill Condon abbia tratto nel 2005 una pellicola di discreto successo interpretata da Liam Neeson. Altri ancora ricorderebbero che proprio al libro di Arendt sono stati ispirati diversi documentari, più o meno accurati, realizzati soprattutto con il copioso materiale televisivo di quello che è stato, in questo caso senza eccessi iperbolici, il processo del secolo e il primo grande evento di reality televisivo. Altri, infine, ricorderebbero non senza un tono di puntiglio Hannah Arendt, il film diretto nel 2012 da Margarethe von Trotta e interpretato da Barbara Sukowa, in cui la regista tedesca ricorre a una soluzione paradigmaticamente molto sensata, ovvero quella di integrare le immagini (in bianco e nero) del vero Adolf Eichmann tratte dagli archivi della tv israeliana con quelle (a colori) dell’attrice che drammatizza per la macchina da presa la vicenda della Arendt nel tempo del suo lavoro in Israele per il New Yorker: realismo e finzione, infine, si intrecciano all’interno di un’opera che proprio per questo motivo presenta al nostro sguardo un sottotesto imprevisto, quello della problematicità e – nel fondo – dell’ambiguità di ogni narrazione storica.
La relazione tra Hannah Arendt e il cinema è, nella sostanza, un paradosso della “rappresentabilità” degli eventi della memoria collettiva. Pensiamo infatti a quel che rappresenta un libro come La banalità del male per l’immaginario tardo moderno: la disanima – impietosa quanto razionale – del processo a Eichmann da parte di un’intellettuale ebrea e tedesca rovescia il focus del dibattito dall’idea del “mostro” nazista – l’essere malvagio che fa riecheggiare i miti arcaici del diverso, dell’altro da noi , in fondo e per molti versi connaturati al nazional-socialismo – alla macchina rituale del processo e ai suoi trucchi giuridico-mediatici, disegnando così un quadro disarmante per la retorica dell’Occidente e costringendoci a strappar via dalla faccia dei vincitori la maschera menzognera di un processo di civilizzazione salvifico e progressivo. Tra i motivi per cui Arendt incontrò l’aperta ostilità di una parte rilevante della società israeliana vi è, infatti, anche il disvelamento della messa in scena orchestrata dal governo Ben Gurion e finalizzata a rendere il processo un evento mediatico di portata mondiale, in grado di ridefinire la percezione “assoluta” della Shoah.
Tornano alla mente, per converso, le frasi del discorso finale del piccolo barbiere, epigono forse naturale del vagabondo chapliniano, ne Il grande dittatore (The Great Dictator): “Più che macchinari ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto. (…) Voi non siete macchine, voi non siete bestie, siete uomini!” A ben vedere, il grande drammaturgo e sublime comico londinese sposa in pieno quella componente del discorso sulla modernità che ne ha magnificato la grandeur umanistica sottovalutandone – o perfino rimuovendone – l’enorme portato di violenza ferale e conflittualità portata all’estremo. Approdato sul grande schermo nel 1940, il quarto lungometraggio di Chaplin fu apprezzato sia dal pubblico che da gran parte delle élites intellettuali proprio per la sua capacità di restituire in tempo reale le coordinate della tragedia che aveva occupato il centro della scena nella storia del Novecento – ciò che in un suo precedente libro Arendt definisce come la drammatica originalità del totalitarismo – fornendole il definitivo turning point nella narrazione del Secolo Breve. Per contro, lo stesso Chaplin ammise che se avesse avuto contezza dell’effettiva crudeltà dei campi di concentramento, non avrebbe mai osato farne una parodia edulcorata come quella messa in scena nel film.
Il punto su cui riflettere è allora quello dell’adeguatezza – o meno – del cinema a rendersi linguaggio in grado di restituire l’inimmaginabile, l’estrema propaggine dell’osceno orrore scaturito dalla sinergia tra istinto e razionalità che caratterizza una modernità bilanciata – a parere di Arendt come di altri filosofi a lei coevi – tra progresso e degenerazione. Il film di von Trotta si pone a metà strada in un percorso fatto di ipotesi diverse e tra loro contradditorie: se è vero che la sceneggiatura enfatizza la vicenda umana dell’intellettuale tedesca apolide, che si reca in Israele sentendosi in una husserliana epochè dell’identità culturale, è anche vero che la narrazione trova il proprio punto di equilibrio – così come nel libro – nell’esigenza di una distanza che renda possibile gettare lo sguardo sulla pornografia dello sterminio attraverso il filtro del pensiero critico.

In qualche misura, un precedente in tale direzione era costituito da Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg), film del 1961 diretto e prodotto da un cineasta progressista come Stanley Kramer con un cast composto dal gotha degli attori democratici di Hollywood, da Spencer Tracy a Marlene Dietrich a Burt Lancaster. Nella pellicola viene ricostruito il terzo dei dodici processi per crimini di guerra che gli USA organizzarono – non a caso – a Norimberga per procedere contro i cosiddetti crimini secondari. Il tentativo premiato dall’Oscar dello sceneggiatore Abby Mann, il cui vero nome era Abraham Goodman, fu quello di restituire drammaticamente il conflitto di coscienza del giudice Dan Haywood rendendolo perifrasi del problema morale sia dei vinti che dei vincitori della guerra.
Questo punto di vista resta distante da molti dei film prodotti sull’Olocausto, tra i quali spiccano ovviamente quelli dei registi Roman Polanski e Steven Spielberg, che con The Pianist (2002) e Schindler’s List (1993) restituiscono una dicibilità alla Shoah attraverso le regole della finzione, anche se l’esempio più recente in tal senso è La zona d’interesse (The Zone of Interest), pellicola del 2023 di Jonathan Glazer, che adatta il romanzo omonimo di Martin Amis pubblicato nel 2014: film intenso e spietato nell’implacabile incedere della trama, La zona d’interesse trova una soluzione straordinaria per la messa in scena dei campi di sterminio, affidando la descrizione agli effetti sonori, al suono disumano della “soluzione finale” che sovrasta la quotidianità della vita in casa del comandante di Auschwitz, penetrando attraverso le pareti e confondendosi con il rumore e le voci della famiglia, una “normale” famiglia tedesca che – come Amis aveva probabilmente ben chiaro – rimanda a sua volta alle tesi di Arendt sulla banalità del male che scaturisce dalla soppressione delle coscienze individuali nell’orizzonte del totalitarismo.