di Dario Cecchi – Professore Aggregato di Estetica (Sapienza Università di Roma)
Hannah Arendt è stata una delle più grandi pensatrici politiche del Novecento. Al suo nome sono legate alcune questioni fondamentali della filosofia e della teoria politica contemporanee: dall’analisi del totalitarismo fino alla controversa interpretazione dell’adesione ai crimini del nazismo attraverso il concetto di “banalità del male”. Più in generale, dobbiamo ad Arendt una radicale riabilitazione dell’agire politico. L’azione non è solo un mezzo per ottenere un fine, ma è ciò che dà senso alla politica, che altrimenti si riduce a mera gestione burocratizzata degli apparati statali. L’esigenza di restituire significato e centralità all’agire politico trova espressione nell’opera più conosciuta di Hannah Arendt, che si intitola appunto Vita activa ed è stata pubblicata nel 1958. Il titolo originale — The Human Condition (La condizione umana) — è in realtà un compromesso con l’editore americano. La stessa Arendt indicò Vita activa come titolo per l’edizione tedesca del libro, da lei curata e tradotta nel 1960. Non si tratta solo di cogliere l’autonomia dell’azione rispetto ai suoi scopi, ma di comprendere come l’agire politico dia senso all’esistenza umana. L’agire politico rende manifesti due tratti fondamentali della vita: la capacità di iniziare cose nuove (la “natalità”) e la capacità di entrare in una relazione duratura e reciproca con gli altri attraverso atti e discorsi (la “pluralità”). Questi due tratti disegnano i contorni della condizione umana. Arendt non parla di natura umana: il suo discorso non vuole cadere nel determinismo biologico o metafisico. Con spirito kantiano, si tratta piuttosto di riconoscere i “trascendentali”: i presupposti che permettono di dare senso alla vita, riconoscendo gli altri come nostri simili e intrecciando così una rete di rapporti.

Appare chiaro che non è possibile comprendere il significato della politica usando solo categorie giuridiche o politologiche. L’agire politico non si riduce al governo dello stato o all’esecuzione degli ordini di chi governa. Un’azione politica non può essere giudicata solo in base al criterio dei mezzi impiegati e dei fini perseguiti. Un’azione, se è autenticamente politica, se cioè rende visibile qualche aspetto della condizione umana, è libera, gratuita ed esemplare. In altre parole, un’azione politica, oltre che giusta, deve essere bella. Anzi, è giusta in quanto appare anche bella: la bellezza è uno dei requisiti per riconoscere la giustezza dell’agire umano. Arendt lo ripete in diverse luoghi della sua opera: le qualità che apprezziamo nella sfera pubblica non si impongono come concetti astratti, ma grazie a esibizioni esemplari. Per un cristiano, dice Arendt, Francesco d’Assisi mostra immediatamente con i suoi gesti cosa sia la santità. Così, a un antico greco l’immagine di Achille ispirava subito l’idea di coraggio. Allo stesso modo, Arendt, che era critica verso il determinismo storico del marxismo, il dogmatismo del comunismo e la Realpolitik di Lenin e Stalin, riconosce in Rosa Luxemburg il carattere della vera leader politica. Luxemburg, argomenta Arendt, non ha mai sovrapposto teorie astratte alla situazione politica con cui si misurava: al contrario, ha sempre agito a partire da un’acuta comprensione del presente. E non è un caso che Rosa Luxemburg fosse anche una profonda amante della bellezza del mondo. Al centro della appropriazione arendtiana della bellezza in chiave politica non c’è tanto l’oggettività di ciò che viene contemplato, ma il fatto che la bella azione e il bel gesto forniscono criteri per giudicare le cose del mondo.
La riflessione arendtiana sulla bellezza è profondamente influenzata dalla filosofia di Immanuel Kant e in particolare dalla Critica della facoltà di giudizio. L’ultima parte del percorso intellettuale di Arendt è di fatto un tentativo di rileggere in chiave politica la questione del giudizio estetico: ne resta una traccia significativa nel suo ultimo libro, purtroppo incompiuto, La vita della mente, e nei testi di lezioni e seminari. I giudizi estetici presentano la struttura dei giudizi politici. Infatti i giudizi politici, valutando le azioni umane, tentano di comprendere le condizioni per cui è possibile pensare il mondo come una dimora comune a tutta l’umanità. Kant ritiene in effetti che il bello non sia una qualità oggettive delle cose. Il sentimento del bello è l’effetto della disposizione del soggetto che giudica: è l’immaginazione che, considerando l’esperienza delle cose, percepisce la possibilità di allargare i confini della nostra conoscenza del mondo. Di fronte al bello l’immaginazione non è vincolata all’intelletto, alla logica, all’esigenza di ricostruire un’immagine scientifica della realtà. La bellezza non è però figlia di un’immaginazione che fantastica. Cambiano i criteri da rispettare: è l’imparzialità del giudizio; è la capacità di mettersi al posto degli altri, includendo il loro punto di vista nella nostra prospettiva. L’orizzonte ideale dei giudizi estetici è quello di un sentire comune a tutti, sola premessa possibile per pensare l’umanità come una comunità plurale che condivise lo stesso mondo, senza eliminare le differenze dei singoli. Il poeta esercita in maniera esemplare questa facoltà di giudicare politicamente le cose quando è capace, anche di fronte a conflitti che dividono interi popoli, di riconoscere a ciascuno la propria grandezza. Omero nell’Iliade, pur celebrando la vittoria dei greci sui troiani, riconosce il valore di questi ultimi, offrendo un’immagine del valore e della dignità della condizione umana.

Veniamo così al punto più difficile del pensiero arendtiano: il rapporto tra giudizio politico e giudizio morale. Arendt sa bene che la barbarie nazista ci ha messo di fronte a una completa negazione dell’umanità. Il totalitarismo nazista ha perseguito questo obiettivo sradicando nel popolo tedesco, e non solo nel popolo tedesco, ogni possibilità di pensiero critico e di coscienza morale. Più della tanto spesso fraintesa formula della “banalità del male”, occorre pensare alla categoria della “assenza di pensiero”, attraverso cui Arendt tenta di descrivere la mentalità di Adolf Eichmann, di cui seguì il processo, e dell’homo nazionalsocialista in genere. L’assenza di pensiero nega il fatto che il mondo possa essere la casa comune di un’umanità plurale. Perciò, nell’universo nazionalsocialista non c’è posto per l’autentica bellezza: ne sia una piccola prova l’ossessione di Hitler per uno stile classico ridotto a replica kitsch di un mondo di guerrieri ed eroi. Ma la capacità di giudicare la vera bellezza, anche dopo averne riscoperto la valenza politica, non rappresenta immediatamente un’opposizione al male totalitario. Il bello esibisce l’immagine alternativa di un mondo condiviso nella pluralità delle sue manifestazioni, ma non ha il potere di scacciare l’immagine totalitaria di un mondo dominato da una sola “razza”, da un partito o da un pensiero unico. Di fronte a un simile male può qualcosa solo la fermezza del giudizio morale: il giudizio morale evoca l’idea di una giustizia che è un dovere di ciascuno. Socrate rappresenta questo ideale di giustizia nella storia della filosofia occidentale: nel dialogo platonico Gorgia Socrate afferma infatti che essere in accordo con se stessi viene prima della ricerca del consenso da parte degli altri. Sono i giusti che manifestarono il loro dissenso di fronte alle persecuzioni o agirono concretamente per salvare i perseguitati dalla furia nazista. Il pensiero di Hannah Arendt è attraversato dalla tensione antinomica tra l’esigenza di prendere posizione nel presente e la capacità di immaginare un futuro per l’umanità. È un pensiero stretto, o sarebbe più giusto dire generato dal tentativo di trovare un punto di congiunzione, precario ma possibile, tra la giustizia, che riconosce torti e ragioni, e la bellezza, che indica nel mondo un luogo offerto alla felicità di tutti. Amor mundi, per amore del mondo, è d’altronde il motto sotto la cui insegna Arendt pone tutta la sua riflessione filosofica. È una lezione che non ha perso di attualità.