di Nadia Fusini
Nadia Fusini , studiosa di Letteratura inglese e comparata, ha curato i due volumi dedicati a Virginia Woolf nei Meridiani Mondadori (1998), e piú recentemente il Meridiano su John Keats (2019). Alla scrittura delle donne ha dedicato Nomi (Donzelli 1996) e La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield (Mondadori 2012). Per Einaudi sono usciti: Hannah e le altre (2013), Vivere nella tempesta (2016), María (2019, Premio Bergamo), Maestre d’amore. Giulietta, Ofelia, Desdemona e le altre (2021) e Creature in bilico (2023).
Nel cuore del secolo scorso tre donne assai diverse e lontane tra loro si sono arrischiate in una riflessione profonda e rigorosa sulla violenza, sul potere, sulla guerra: una riflessione di valore epocale, che ancora e di nuovo oggi ci serve. Rispondono al nome di Rachel Bespaloff, Simone Weil, Hannah Arendt. Le separano di poco l’una dall’altra le date di nascita: Rachel Bespaloff nasce nel 1895, Hannah Arendt nel 1906, Simone Weil nel 1909.
Tutte e tre vivono gli anni tremendi del nazismo. E ne soffrono nel corpo e nell’anima.
Se ne torno a parlare oggi è perché queste donne scrittrici e filosofe, proprio perché donne, questa è la mia tesi, seppero sviluppare quello che Virginia Woolf nel suo diario chiama “l’altro sguardo”; seppero, cioè, negli anni tremendi della loro esistenza tormentati da quella che appariva a tutti gli effetti la “vittoria del male”, rendere i loro occhi capaci di vedere la realtà per quello che era.
Si potrebbe obiettare: non soltanto esseri umani donna si interrogarono in quegli anni su quanto accadeva; anche esseri umani uomo lo hanno fatto. Sì, certo, ma nessuno come queste tre donne è sceso tanto in profondità. Come palombare Bespaloff, Weil, Arendt si sono calate nelle acque agitate della violenza smisurata che segnò il cuore delle loro esistenze. E lo poterono fare, ripeto, questa la mia tesi, perché donne e in quanto donne particolarmente sensibili alle questioni che quegli anni difficili imposero alla mente, al cuore, alla carne di tutte le creature viventi.
Uomini e donne, noi tutti abbiamo un corpo che spesso abitiamo inconsciamente, quasi fosse un involucro. Ma in particolare una donna, se sa compiere il gesto di auto-auscultarsi, troverà dentro di sé la traccia, per quanto dormiente, di una percezione del mistero del corpo; mistero tanto più profondo per lei, perché il corpo per una donna non è mai un oggetto, ma sempre ‘vita’. Per dirla con Husserl, mai Körper, sempre Leib, e cioè essere vivente. Deve essere diverso per un maschio, se un maschio può violentare un corpo di donna; se lo fa, se può farlo, è perché il corpo, evidentemente, non lo sente, né lo pensa; lo ha, lo possiede, lo usa… Il suo, quello dell’altro.
Chi non percepisce l’altro come essere vivente, chi addirittura arriva a pensare che la violenza corrisponda a un fantasma di godimento, a una specifica joussance, o volupté femminile; chi riesce a sottrarsi alla percezione dell’altro come di sé medesimo; chi non sperimenta in sé l’estraneo, è questo un uomo? verrebbe da chiedersi. Dove ‘uomo’, capite, vale come significante universale dell’umanità intera.

Viene da chiedersi, chi nell’altro si diverte a suscitare il grido di dolore, perché non si interroga sul proprio perverso piacere? Chi ama la guerra, chi gode nel procurare dolore, perché non si interroga su questo morboso godimento? Finché non si avrà il coraggio di andare a vedere lo spazio cieco in cui nasce questa violenza, senz’altro non avremo accesso alla comprensione dello sfondo spettrale e cieco della violenza tout court.
Ma può farlo chi la violenza la esercita? In chi provoca sventura non c’è forse una voluta ignoranza della sofferenza dell’altro? Una voluta cecità? Si può chiedere di ‘vedere’ a chi la violenza accieca?
La violenza è per una donna un’esperienza di cui è vittima, e chissà se per questo non si produca in lei per ciò stesso la capacità di una diversa conoscenza, che contrasta, fessura, scarta rispetto ai luoghi comuni, ai pregiudizi, alle convenzioni. Chi si presenta al mondo battezzata con quel nome comune di donna, che l’abbiglia di certi carismi e doni, sa che tra di essi c’è la vulnerabilità. Nella donna, il genere umano si coglie nella sua nudità di preda. È un sentimento di sé che una donna conosce bene. A volte, ci gioca, e ‘fa’ la preda. Ma per lo più, subisce. E ha paura.
Spesso e volentieri una donna non si avventura in strade buie, si muove con prudenza, non viaggia da sola; convive con un sentimento di sé alla Jane Austen, di un gentil sesso debole, quanto a equipaggiamento fisico. La sua forza la depone come fosse un seme, o un uovo, altrove: la cova o la coltiva nella sopportazione di dolori che l’uomo non conosce. È lei a partorire la vita e sempre lei al capezzale di chi muore.
L’esercizio della forza è un compito da cui la cultura, la civiltà hanno assolto la donna. Non le chiedevano, almeno nel passato, di combattere. Nella tradizione, se una donna andava in guerra era per curare i feriti. Ora è vero, ci sono donne-soldato, ma l’ipocrisia vuole che quegli eserciti siano al servizio non della guerra, ma della pace. E per lo più è ancora vero che se si tratta di violare, penetrare, è piuttosto l’uomo maschio chiamato a farlo. Lui si è specializzato nella performance e nel gusto della violenza.
Donne filosofe come Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt hanno insegnato a noi tutte e tutti che esiste una complicità indissolubile tra il fantasma della forza e l’attitudine alla sottomissione, che lega e aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente. Hanno riconosciuto nella tabe viriloide dell’hitlerismo una recrudescenza del culto della forza che da che mondo è mondo sostiene la perversione patriarcale, e si nasconde sotto varie maschere nel fondo ideale delle culture e delle società d’Occidente. Nel caso di Hannah Arendt, in particolare, un fine intuito guida la filosofa tedesca a cogliere la connessione tra potere e immaginazione, e a meditare i vantaggi e gli svantaggi del potere. Con coraggio, con risolutezza Arendt ‘vede’ come per il potere si possa rischiare di perdere qualcosa di molto prezioso – e cioè, “the freedom to think of things in themselves”, per dirlo nella lingua di Virginia Woolf, altra donna che in mille modi fomenta nelle donne a cui si rivolge (si legga Una stanza tutta per sé) la libertà di pensare alle cose in sé da sé. Da outsider qual era.
Hannah Arendt parla di Selbstdenken, di “pensare da sé”: la sola azione, secondo lei, che renda possibile la libertà di pensiero – la libertà di pensiero essendo la condizione prima di un’esistenza veramente ‘umana’. Per conquistare la libertà di pensare alle cose come sono, per giungere all’indipendenza, a potersi muovere nel mondo in piena libertà, l’angolo dell’esclusione dal potere in cui per secoli la donna è stata relegata – quella che Woolf chiama la posizione dell’outsider, e Weil la postura del paria – può offrire i suoi vantaggi. Se non la si subisce passivamente, ma la si riconosce. La si pensa.
Perché a ben riflettere, l’escluso, il paria, l’outsider può fare molte cose che l’insider non può fare. Non dovendo per forza agire nel senso di arrampicarsi sulla scala dell’assimilazione, onde per virtù di speciali moine farsi accettare, magari come un’eccezione della propria specie, il soggetto pensante, libero e pensante, può in piena consapevolezza guardare in faccia la propria condizione e rivendicare la differenza e denunciare come la libertà e l’uguaglianza non si debbano conquistare con la frode, quasi fossero privilegi, e non diritti. E addirittura, per custodire la sua libertà, può voler rimanere un outsider.
Nella formulazione di questo pensiero si dovrà rilevare un paradosso. Messa così la questione, e io credo che così la si debba mettere, la libertà di pensare sarebbe il frutto positivo di una discriminazione – fatto in sé negativo. Vale a dire, la libertà che ne deriva trasformerebbe in vantaggio l’esclusione. E dunque sì, certo, proprio perché donna – e cioè, in partenza svantaggiata, o male equipaggiata, secondo la diagnosi di Sigmund Freud; proprio perché outsider – in quanto non pienamente riconosciuta nel suo diritto di essere al mondo; una donna che abbia preso coscienza della propria condizione, potrà far brillare l’esplosivo e saltare in aria i luoghi comuni, e per virtù ossimorica produrre la vertigine di una trans-valutazione dei valori. Perché si accenda almeno il sospetto sul fatto che le cose vadano bene così come sono e non vadano cambiate. E si arrivi almeno a dubitare se non valga la pena di andare a controllare se tutto ciò che sembra, dico sembra stabile e sicuro, non sia per caso un’illusione.
Hannah Arendt l’ha fatto. Esempio eclatante: ha saputo ‘vedere’ chi era il nazista Adolph Eichmann, il figlio declassé di una solida famiglia middle-class, che prima fa l’agente commerciale, poi si iscrive al Partito nazionalsocialista, e subito dopo alle SS, fino a diventare uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto, il ‘padrone’ della vita e della morte di centinaia di migliaia di creature. Hannah Arendt va a seguire il processo a Gerusalemme come corrispondente del “New Yorker”. Per giorni e giorni osserva quell’uomo magro con una incipiente calvizie, chiuso in una gabbia di vetro. Più che un uomo vivo a Hannah Arendt sembrò un fantasma. Non un ‘mostro’, attenzione. Semmai, un pagliaccio. Un uomo grottesco. Un uomo privo di pensiero. Sì, gli mancava il segno vivo della capacità umana di pensiero. Non sapeva quello che aveva fatto. Non ne coglieva il senso, non ne concepiva la gravità.
Straordinaria, strepitosa prova di intelligenza femminile, Hannah Arendt sola tra mille altri che rimangono ciechi ‘vede’ e comprende, e formula l’idea della “banalità del male”. Che ci aiuterà per sempre a fissare il male all’assenza di pensiero. Il segno vivo della capacità umana di pensiero, insegna così Arendt, è la qualità che salva dalla barbarie. Non si può ragionare di niente con chi non ragiona. Con chi semplicemente ‘esegue’ gli ordini. Con chi basa ogni ragionamento esclusivamente sul proprio interesse. Laddove manchi la capacità viva di pensiero non c’è vita umana. Ecco la tragedia.
Scenario spettrale che incombe di nuovo sulla scena politica in questi nostri tempi di guerra. Mentre i monarchi del mondo fanno a gara per affidarsi all’intelligenza artificiale.