di Simona Fraudatario, ricercatrice e coordinatrice del Tribunale Permanente dei Popoli
Per i popoli che lo abitano, il Cerrado è la culla delle acque. In questa savana tropicale, che si estende per un terzo del territorio brasiliano, nascono alcuni dei principali fiumi che confluiscono in otto delle dodici regioni idrografiche del Brasile, oltre che nei bacini dei fiumi Paraná, Paraguay e Prata del Sud America. Il Cerrado è il risultato di un complesso sistema costituito da altipiani e valli ed è un vero e proprio regolatore idrico del continente. Le radici profonde della vegetazione dell’area, costituita per lo più da alberi da frutto e palme, favoriscono l’infiltrazione dell’acqua piovana nel sottosuolo, dando origine a un serbatoio che ospita le due principali falde acquifere del Brasile: il Guarani e l’Urucuia-Bambuí. Questa vasta regione dall’immenso valore ecologico – il Cerrado è considerato la savana con la maggiore biodiversità al mondo – è in connessione con quasi tutte le altre formazioni paesaggistiche del Brasile e non solo. Nella foresta amazzonica sono presenti isole di savana risalenti all’epoca che precede l’ultima glaciazione (sono le cosiddette zone di transizione); il Cerrado, inoltre, arriva a interessare parte del territorio della Bolivia e del Paraguay, a conferma del fatto che gli ecosistemi non seguono i confini dati agli Stati nazionali, ma logiche completamente diverse.
Non solo fiumi. Il Cerrado è abitato da numerosi popoli la cui identità è legata ai progetti di vita associati ai rispettivi territori. Si tratta per lo più di popoli indigeni, il cui rapporto con il territorio è segnato dalla loro presenza millenaria e dall’incontro violento con l’espansione coloniale, dalle comunità quilombola, storicamente legate alla resistenza alla schiavitù, e dalle comunità tradizionali, la cui identità è spesso associata a pratiche produttive di uso familiare e collettivo. Tra queste rientrano le comunità di pastori, quelle che raccolgono fiori sempreverdi, che pescano rispettando il ritmo delle piene dei fiumi, che raccolgono il cocco e che sono note con il nome, al femminile, di quebraderas de coco-babaçu. Parlare di Cerrado significa quindi parlare di biodiversità e diversità culturale. Come ricorda Diana Aguiar, studiosa di ecologia politica, quando ci riferiamo ai popoli del Cerrado, è necessario tenere in considerazione popolazioni tanto diverse quanto i suoi paesaggi. Tra i popoli indigeni troviamo, per esempio, i Jê (come gli Xerente, gli Xakriabá, gli Apinajé e gli Xavante), i Tupi-Guarani (come i Guarani e i Kaiowá) e gli Arawak (come i Terena e i Kinikinau). Tra le comunità quilombola, troviamo invece i Kalunga (che vivono negli stati di Goiás e Tocantins), i Jalapoeiros (di Jalapão) e centinaia di altri gruppi in tutto l’entroterra del Cerrado. L’insieme di queste comunità ha plasmato i paesaggi del Cerrado e ne è stato plasmato a sua volta[1].

La lunga presenza umana in una regione ecologica così antica ha determinato una costante interazione tra il Cerrado e i suoi popoli. Secondo il geografo Carlos Walter Porto-Gonçalves, scomparso di recente, “nessun gruppo sociale, popolo o comunità abita un territorio senza produrre conoscenza. Non si può mangiare senza sapere come piantare, pescare, raccogliere o allevare gli animali. L’agricoltura è, in senso letterale e materiale, la cultura della campagna. Nessun popolo o comunità ha mancato di inventare i propri sistemi di cura, le proprie medicine; lo stesso vale per le abitazioni, i propri modi di costruire le case, le proprie architetture”[2]. Così, i popoli indigeni, le comunità quilombola e quelle tradizionali, con le loro conoscenze così profondamente radicate nei paesaggi del Cerrado, sono i custodi di un sapere tradizionale che ha permesso la conservazione e la moltiplicazione delle acque e della biodiversità del Cerrado.
La ricchezza ecologica e culturale descritta brevemente in questo articolo è in netto contrasto con l’idea dominante secondo cui il Cerrado sarebbe un territorio vuoto, per lo più abitato da collettività arretrate e incapaci di adattarsi agli imperativi dello sviluppo. A causa di questa narrazione, consolidatasi dalla dittatura fino a oggi, i territori del Cerrado possono e devono essere sfruttati senza limiti. L’idea del Cerrado come zona di sacrificio è riflessa nella Costituzione del 1988, che ha escluso la savana dalle aree riconosciute come patrimonio nazionale, ovvero la foresta amazzonica, la foresta Mata Atlântica, la catena montuosa Serra do Mar, la pianura alluvionale Pantanal Matogrossense e la Zona Costiera. A partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, le terre del Cerrado sono state convertite alla produzione di prodotti agricoli da destinare all’esportazione. Nel giro di pochi decenni, la coltivazione di soia, eucalipto, canna da zucchero e cotone, nonché l’espansione di impianti di estrazione mineraria e la costruzione di strade e porti per il trasferimento di prodotti e risorse, hanno trasformato il paesaggio in modo impressionante. L’imposizione del modello di produzione della monocultura, in netto contrasto con la biodiversità e i modi di vita del Cerrado, ha causato e continua a causare profondi conflitti che hanno segnato la regione, ancora oggi esclusa dall’attenzione della comunità internazionale.
Di fronte al rischio di distruzione degli ecosistemi del Cerrado e dell’estinzione delle popolazioni che lo abitano, le uniche azioni significative sono state intraprese dai popoli e dalle realtà sociali che li sostengono. Un esempio recente è rappresentato dall’iniziativa della Campagna nazionale in difesa del Cerrado, una coalizione di 56 movimenti, reti sociali e ricercatori indipendenti, che nel 2019 ha chiesto al Tribunale Permanente dei Popoli di avviare un processo di indagine partecipata per documentare lo stato di salute del Cerrado e formulare raccomandazioni a sostegno della vita dei popoli e della regione in questione. Nel giro di tre anni, il Tribunale ha trasformato la richiesta di giustizia – che, secondo le parole delle comunità, è una justiça que brota da terra – in un processo sociale volto a sistematizzare le conoscenze sulla devastazione del Cerrado allo scopo di risanarne le acque ferite.
Le conoscenze acquisite sono confluite in tre udienze pubbliche dedicate alla contaminazione di fiumi e falde acquifere (novembre 2021), ai rischi per la sicurezza alimentare, con un grave impatto sulla salute collettiva e in particolare su quella delle donne (marzo 2022), e all’alto livello di deforestazione e di occupazione delle terre che ostacolano il processo di titolazione delle terre indigene e quilombolas (luglio 2022). La giustizia che sorga dalla terra non ha mirato soltanto a garantire l’accesso alla terra, né tantomeno, in questo caso, a concedere titoli di proprietà privata individuali che, come è noto, sono suscettibili alle pressioni di imprese, investitori, speculatori fondiari e accaparratori di terre. Questa forma di giustizia aspira ancora oggi a garantire la proprietà collettiva del territorio nella sua interezza, senza il quale non possono coesistere forme di giustizia idrica, sovranità e sicurezza alimentare, biodiversità, autodeterminazione e diversità dei popoli. Pertanto, per i popoli del Cerrado, il diritto alla terra e al territorio è la prerogativa per poter godere appieno di tutti gli altri diritti, nonché per l’esistenza della vita sul nostro pianeta.
La sessione del Tribunale si è tenuta in un contesto di crisi ambientale e climatica, caratterizzata dall’erosione della biodiversità su scala globale che ha contribuito all’aumento di eventi meteorologici estremi. La devastazione del Cerrado è, quindi, una grave questione ambientale che riguarda l’intero pianeta. Nella logica di ascolto del Tribunale, i popoli del Cerrado non sono una minoranza marginale, ma collettività che anticipano tendenze globali. Per questo motivo, la resistenza alla distruzione del Cerrado non è un “affare” delle popolazioni indigene, quilombolas e delle comunità tradizionali, ma trascende la dimensione locale. Sanare le acque ferite è l’appello incessante a proteggere tutti gli ecosistemi, a partire proprio dal Cerrado, che ancora attende la formulazione, su scala nazionale, di adeguate misure di protezione e l’azione della comunità internazionale affinché sia inserito tra gli ecosistemi da tutelare con urgenza e riconosciuto come bene comune.
Tribunale Permanente dei Popoli
Il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è un tribunale d’opinione internazionale, istituito come espressione indipendente e programmatica della Fondazione Lelio e Lisli Basso (Roma, Italia).
Nato nel 1979 come diretta prosecuzione dell’esperienza del secondo Tribunale Russell sulle dittature in America Latina (1974-76), il TPP si propone di dare visibilità e voce ai popoli che subiscono gravi e sistematiche violazioni da parte di attori pubblici e privati, a livello nazionale e internazionale, che non hanno la possibilità di rivolgersi e accedere agli organi competenti della comunità internazionale organizzata.
Il lavoro del TPP si basa sui principi espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, proclamata ad Algeri nel 1976, e sui principali strumenti internazionali di tutela dei diritti umani. La Dichiarazione rappresenta una pietra miliare nel riconoscimento dei diritti collettivi come complementari a quelli individuali.
Il TPP costituisce un’esperienza unica per la sua natura permanente e per la sua missione aperta a una varità di richieste provenienti da comunità, popoli, minoranze e attori della società civile. A differenza di altri tribunali di opinione, il TPP si è confrontato con scenari di violazione dei diritti umani geograficamente diversificati. A oggi, il Tribunale ha realizzato più di 50 sessioni in tutto il mondo, garantendo la partecipazione di popoli e movimenti sociali e dando vita a un’agenda di lavoro per i diritti umani e dei popoli a livello globale. In particolare, il Tribunale promuove attività di denuncia, documentazione e ricerca per la formulazione di proposte sulla loro effettiva implementazione. Favorisce, inoltre, l’evoluzione dei diritti umani in ambito internazionale mettendo a confronto le categorie di diritto e gli strumenti di garanzia esistenti con l’esperienza diretta di vita dei popoli.
[1] Diana Aguiar, “O Cerrado e seus povos: uma história de convivência de longa duração”, in Acusação final. Parte 1, Tribunale Permanente dei Popoli, Sessione in difesa del Cerrado e dei suoi popoli, p. 14, testo disponibile al sito: https://tribunaldocerrado.org.br/wp-content/uploads/2022/07/Parte-1-Contexto-Acusacao-Final_VF.pdf
[2] Carlos Walter Porto-Gonçalves, Dos Cerrados e de suas riquezas, Fase, 2019, p. 10. Traduzione dell’autrice.