di Stefano Cristante, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università del Salento
Apparentemente, lo scritto[1] di Hannah Arendt su Franz Kafka ha un carattere di modestia. Il suo è un piccolo saggio di una decina di pagine, uscito per la prima volta nel 1944 nella «Partisan Review», rivista trimestrale americana aperta ad autori e autrici rivelatisi di particolare valore, anche se all’epoca non necessariamente noti.
Il pezzo di Arendt esce sull’onda del ventennale della morte dello scrittore. Arendt si chiede subito cosa abbiano in comune i tanti ammiratori dello scrittore praghese, non più solo europei: cosa apprezzano delle opere di Kafka? Non certo il loro significato profondo, scrive Arendt, perché su quello sembrano esserci interpretazioni diverse e spesso conflittuali. Tutti concordano invece sulla “novità della narrazione, una modernità stilistica che non si manifesta in nessun altro autore con la stessa forza e chiarezza”[2]. Niente sperimentalismi, niente invenzioni, niente contorsioni: quello di Kafka è un tedesco nitido, senza orpelli. E tuttavia l’esattezza delle parole non consegna al lettore storie altrettanto chiare. D’altronde, Arendt sembra convinta che il Kafka percepito dai lettori emani fascino proprio grazie alla vaghezza e ai contorni sfocati delle sue storie indecifrabili. “Finché – azzarda la studiosa – un giorno il significato nascosto si rivela loro con l’evidenza improvvisa di una verità semplice e incontestabile”[3].
Questo passaggio è strategico, non solo per la sua conclusione (la rivelazione del significato nascosto) ma perché Kafka avrebbe preparato l’approdo proprio attraverso il mezzo di una scrittura chiarissima, senza apparenti inganni, senza dare l’impressione che le singole parole e le singole frasi fossero sintomo di contorsioni problematiche. E tuttavia le storie, cioè il contenuto significato dalla scrittura, restano da principio oscure ai lettori. “Storie che [i lettori, nda] non riescono a capire” – scrive Arendt. Resta invece loro addosso “un ricordo preciso di immagini e di descrizioni strane e apparentemente assurde”[4].

Subito dopo, la studiosa si immerge per poche pagine nel Processo e nel Castello, alla ricerca di fatti da interpretare. Sul Processo la Arendt scarta le interpretazioni teologico-religiose, ancora dominanti in quei tempi: la burocrazia di cui è vittima K. è una filosofia che basta e avanza per giustificare il paradosso della sua colpa, percepita come tale dall’individuo anche in assenza di crimini non solo non suffragati da prove, ma nemmeno pronunciati. Il senso di colpa cresce in tutto il romanzo, fino a che, giustiziato K. da due boia con un coltello rigirato nel cuore, la voce narrante così si congeda dal lettore: “«Come un cane!» disse e gli parve che la vergogna dovesse sopravvivergli”[5].
Secondo Arendt, l’immensità e l’impenetrabilità del sistema sociale si rivela a K. attraverso l’esito del suo processo, che genera un senso di colpa che gli deriva dal non saper vedere la grandezza e, soprattutto, l’inevitabilità del sistema sociale stesso. Mentre tutti gli altri personaggi della tragedia riconoscono la potenza di un edificio costruito sulla mancanza totale di verità, K. da principio prova a difendersi. Nel secondo capitolo del Processo (“Primo interrogatorio”) K. entra nel tribunale che lo ha convocato telefonicamente a “una breve inchiesta per la sua questione”[6]. E qui svolge una sua propria requisitoria, aspra e straordinaria, che avviene in un ambiente improprio e allucinato. Il suo centro è il seguente:
“[…] Ciò che mi è capitato è soltanto un caso singolo e come tale non molto importante, dato che non lo prendo molto sul serio, ma è indizio di un procedimento che viene usato con molti altri. Per questi mi batto qui, non per me. […] Io voglio soltanto la pubblica discussione di un pubblico inconveniente”[7].
Ecco dunque ciò che vorrebbe K., e con lui Hannah Arendt: una sfera pubblica dove misurarsi, dove poter mettere in discussione il funzionamento imposto delle cose. Uno spazio che non fosse stritolato dalla spirale del silenzio, avvolta attorno a uno qualsiasi, ma in realtà a tutti. Un luogo dove prendere la parola fosse l’atto di maggior pregio, di maggior cittadinanza. Dove vi fosse ascolto, possibilità di ars retorica, messa in rilievo delle contraddizioni, dialettica collettiva. Il contrario di tutto questo avviene invece nei suoi romanzi, dove la semplice idea di una discussione argomentata appare lontanissima, e il mondo assume i contorni di una catastrofe psichica.
Il castello ha un mondo simile a quello del Processo, ma Arendt osserva che è il comportamento del protagonista a cambiare. Come sappiamo è chiamato anche lui K., e giunge nei pressi del Castello per realizzare – scrive Arendt – “uno scopo ben preciso: stabilirvisi, diventare un cittadino, farsi una vita e una famiglia, trovare lavoro e diventare un membro utile della società”[8]. Ma sembra che l’unica possibilità di acclimatarsi nella sua nuova realtà sia quella di accondiscendere al fatto che solo il Castello può decidere se e cosa dargli in dote, come fa con tutti gli altri. K. è ostinato e viene almeno in parte riconosciuto come un esempio di resistenza dagli altri abitanti, ma le sue energie si rivelano limitate. Nell’incompiuto finale, si addormenta stremato dopo misteriosi errori logistici.
Se, come detto, per Arendt l’interpretazione religiosa dei romanzi di Kafka non tiene (cioè non regge lo sforzo dell’esegeta Max Brod di piegare l’opera di Kakfa in questa direzione), non tiene neppure un’interpretazione psicoanalitica dei suoi romanzi. Tiene invece un’interpretazione della sua opera che si potrebbe azzardare iper-sociologica – aggettivo che Arendt non usa – perché Kafka avrebbe ritratto una società che ha “la pretesa di rappresentare una necessità divina”[9]. SI tratta di una considerazione estrema, fondata sulla constatazione di un sempre maggiore sviluppo di tecnologie e modernizzazioni nate da logiche razionali applicate a qualunque ambito. Con la conseguenza di vedere disgiunte razionalità e ragione. “Ma il lettore moderno, o quantomeno il lettore degli anni venti – aggiunge qualche rigo dopo Hannah Arendt – affascinato dai paradossi in quanto tali e attratto dai meri contrasti, non voleva più prestare ascolto alla ragione”[10]. Viene in mente a questo proposito la classificazione degli idealtipi weberiani del potere, su cui il grande sociologo lavorò negli anni in cui Kafka scriveva i suoi romanzi. Weber dedicò grande attenzione al tipo di potere razionale-legale – ovvero burocratico – che permeava di sé la modernità. Ma l’idealtipo del potere carismatico non era a sua volta estraneo alla modernità, e anzi potremmo dire che incubava nelle maglie delle trame burocratiche, onnipresenti nella vita quotidiana della modernità occidentale. Le epifanie totalitarie del potere carismatico vanno lette come macchina irragionevole che porta all’ennesima potenza la razionalità protesa alla procedura, beatificata in quanto regola unica del funzionamento delle amministrazioni e dell’economia. Gli individui comuni sono piccoli meccanismi del sistema maggiore, o non sono che ombre. Anche la sociologia di Durkheim ha qualcosa da dire a proposito della società autorappresentatasi divina. Per il sociologo francese, anch’egli all’opera in quello scorcio di secolo, le variabili sociali che si riverberano nel comportamento individuale sono potenti, e valgono a spiegare anche fatti singoli, persino intimi e considerati a volte segreti e inspiegabili, come il suicidio. Ma anche un altro sociologo contemporaneo del Processo e del Castello, Georg Simmel, apparentemente fluttuante sulle mille creazioni di senso della vita collettiva, attribuisce alla condizione suprema della società di inizio ‘900 – la metropoli – la messa in opera di individui seriali congestionati dalla modernità.
Il pensiero di Kafka è una misura delle stesse atmosfere. Ma la sua scelta è privilegiare le ombre che la società – che si è arrogata il posto di Dio – getta sugli individui, trasformandoli in sagome astratte e fantasmatiche.
Come agisce Kafka attraverso la propria scrittura? Creando un’impressione di irrealtà tremendamente moderna. Non come i surrealisti, scrive Arendt, che cercano di “presentare quanti più possibili aspetti contraddittori della realtà”, usando il metodo del “fotomontaggio”[11]. Invece Kafka – ed è questo il centro del saggio di Hannah Arendt – usa la tecnica della “costruzione di modelli”[12]. Disincarna i personaggi, spogliandoli delle caratteristiche che li renderebbero diversi e riconoscibili, e li rimette in gioco come schemi per capire il mondo. La costruzione di modelli è rappresentata dallo stesso marchio dei protagonisti privi di nome completo, e sancita dalla lotta per giungere alla fine dei romanzi. Fine che in realtà non arriva, perché i romanzi (nonostante i tentativi apocrifi di Max Brod) restano incompiuti. L’immaginazione non ha bisogno della catarsi del compiuto, che si farebbe teoria: si spinge piuttosto a disegnare modelli che funzionano di per sé, quasi senza bisogno di una trama. Perché è la trama ad essere risolta, a monte, attraverso l’incombente crudeltà di una condizione di ingiustizia plateale, disvelata fin dalle prime righe: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcun male una mattina venne arrestato”[13].

“Noi tutti sappiamo – scrive Hannah Arendt – che la costruzione kafkiana non era solo un incubo”[14]. Il riferimento implicito è alla macchina del totalitarismo e alle sue procedure insieme prive di senso e spietate, ma si allarga all’idea di progresso, sulla quale la studiosa convoca l’amatissimo Walter Benjamin citando il celebre frammento sull’angelo della storia, all’epoca da poco disponibile[15]: l’angelo ha il volto rivolto al passato dove crescono immani rovine cui porre rimedio, ma alle spalle dell’angelo si scatena una tempesta, che lo risucchia nel futuro impedendogli ogni opera di ricostruzione. “Ciò che chiamiamo il progresso – svela Benjamin – è questa tempesta”[16].
Arendt scrisse il suo breve saggio su Kafka nel 1944 negli Stati Uniti, mentre la Seconda guerra mondiale non era ancora finita[17]. Era in America, cui Kafka aveva dedicato il suo omonimo terzo romanzo, che si chiudeva (pur incompiuto anch’esso) con una visione dei suoi immensi paesaggi dal finestrino di un treno (“Viaggiarono due giorni e due notti e soltanto ora Karl si rese conto di quanto sia grande l’America”)[18]. Per Hannah Arendt riavvicinarsi a Kafka voleva dire ripercorrere un sentiero di libertà a partire dal disvelamento di un modello di progresso che lo scrittore aveva visto all’opera nell’intera modernità e contro cui i suoi personaggi si erano battuti, riuscendo a farne intravvedere la spaventosa struttura soggiacente.
Il saggio della Arendt contiene molte altre suggestioni (come ogni saggio breve perfettamente riuscito, è pieno di cose e insieme incompleto), ma sono le sue due righe finali a farci riconsiderare Kafka con devozione particolare: “[…] i suoi romanzi sembrano possedere un fascino particolare, come se volessero dirci: quest’uomo di buona volontà può essere chiunque e ognuno, forse persino me e te”[19]. E, forse, è proprio questo il significato nascosto dell’opera di Kafka che si rivela un giorno al lettore con l’evidenza improvvisa di una verità semplice e incontestabile[20].
[1] Arendt H. (1944), Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, in Arendt H., Antologia, Feltrinelli: Milano, 2006, pp. 26-37.
[2] Arendt H., op. cit., p. 26.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Kafka F., Il processo, in Kakfa F., Romanzi, Meridiani Mondadori: Verona, 2006, p. 532.
[6] Kafka F., op. cit., p. 345.
[7] Ivi, p. 355-356.
[8] Arendt H., op. cit., p. 29.
[9] Arendt H., op. cit., p. 28.
[10] Arendt H., op. cit., p. 29.
[11] Arendt H., op. cit., p. 33.
[12] Ibidem.
[13] Incipit de Il processo, cfr. Kafka F. , Il processo, op. cit., p. 317.
[14] Arendt H., op. cit., p. 30.
[15] Benjamin W. (1942), Sul concetto di storia, Einaudi: Torino, 2014, pp. 35-37. La prima pubblicazione del testo di Benjamin avvenne nel 1942, in un fascicolo curato dall’Institute of Social Research e pubblicato in forma ciclostilata, per commemorare lo studioso suicidatosi nel 1940 mentre cercava di fuggire negli Stati Uniti. Fu Hannah Arendt a consegnare il manoscritto – affidatole da Benjamin a Marsiglia poco prima di morire –a Theodor Adorno e a Max Horkheimer.
[16] Benjamin W., op. cit. p. 37.
[17] A questo proposito può essere importante segnalare che anche Walter Benjamin aveva pubblicato un saggio su Kafka, esattamente dieci anni prima, nel 1934. Il saggio si intitolava Franz Kafka. Nel decimo anniversario della sua morte, e fu pubblicato in due parti nella Jüdische Rundschau (21 e 28 dicembre 1934), il principale settimanale ebraico in lingua tedesca. La rivista cesserà le proprie pubblicazioni il giorno prima della Notte dei Cristalli, l’8 novembre 1938. Il saggio di Hannah Arendt del 1944 appare, fin dal suo titolo, richiamarsi al più ponderoso saggio di Benjamin, che analizza l’opera di Kafka rifiutando “esplicitamente le tradizionali letture teologica, politica e psicoanalitica per sottolineare la fondamentale indecifrabilità di questi testi, il loro carattere aperto ed enigmatico” (Eiland H. e Jennings M.W., Walter Benjamin. Una biografia critica, Einaudi: Torino, 2015, p. 408).
[18] Kafka F., America, in Kakfa K., Romanzi, Meridiani Mondadori: Verona, 2006, p. 292.
[19] Arendt H., op. cit., p. 37.
[20] Cfr. nota 3.