Conversazione con Pietrangelo Buttafuoco su Arendt, Heidegger e l’arte di cominciare
di Annamaria De Paola
Abbiamo incontrato Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale di Venezia, nel suo ufficio affacciato sulla calma febbrile della laguna. Ci ha accolti con un vassoio di datteri, gesto antico e ospitale, e subito ha detto di voler parlare d’amore. Perché l’amore, a suo dire, è la cosa più importante della filosofia. L’amore di Hannah Arendt e Martin Heidegger, innanzitutto.
“Il démone mi ha colpito… non avevo mai provato nulla di simile”.
Così scrive, in una lettera, un professore di filosofia alla sua giovane studentessa, che riconosce immediatamente il riferimento: quel démone è Eros, la forza evocata nel Simposio di Platone. È durante un seminario sul Sofista che nasce la loro relazione: un legame fatto di passioni difficili da nominare, segnato da interruzioni brusche e ritorni improvvisi, e destinato a durare mezzo secolo.
Lei ha diciott’anni, è libera, curiosa, affamata di sapere. Lui ne ha trentacinque, è sposato, e già ribelle tra i filosofi. Entrambi si lasciano travolgere da un amore rischioso, che si fa anche viaggio: un’avventura dell’anima e del pensiero, fatta di distacchi e riconciliazioni, tensioni e ricomposizioni. Un legame che avrebbe lasciato un’impronta indelebile nelle vite di entrambi.
Il carteggio tra Hannah Arendt e Martin Heidegger, pubblicato nel 1998 e tradotto in italiano nel 2007, restituisce la densità di quell’amore: intenso, autentico, intrecciato al desiderio dell’essere.
Nei primi anni della loro relazione, Heidegger lo esprime con le parole di Agostino: “Amo” significa “Voglio che tu sia”. Nel maggio del 1925 scrive ad Arendt: “Ti voglio felice, raggiante e libera, come quando sei arrivata da me”.Firma la lettera non più solo Martin, ma “il tuo Martin”. Poi, la lunga interruzione: tra loro si è frapposta la Storia, con il suo carico di ferite — le leggi razziali, la guerra, le derive del tempo — che per oltre vent’anni li ha tenuti lontani.
Quando tornano a scriversi, ormai maturi, le lettere si fanno più sobrie: lui firma semplicemente Martin. Ma, nell’autunno delle loro vite, una lettera di lei chiude il cerchio: “Come sempre, Hannah”. E da quel momento, fino alla fine, sarà davvero così. Un’appartenenza durata cinquant’anni.
Il filo che attraversa ogni meandro di questa storia è l’amore – in tutte le sue sfumature: eros e agape, fedeltà e tradimento, passione e quotidianità, oblio e memoria, distacco e riconciliazione. Affiora anche l’amor mundi, l’amore per il mondo, che Hannah Arendt avrebbe posto al centro della sua riflessione. Da qui scaturisce una domanda cruciale: come può nascere un nuovo inizio dopo l’autodistruzione dell’Europa, dopo la guerra e il genocidio?

La domanda che sembra accompagnare, fin dalle origini, la relazione tra Arendt e Heidegger è radicale: a cosa serve il pensiero? E ancora, può un pensiero dell’esistenza trovare applicazione nel mondo dell’azione? Ed è da lì che la nostra conversazione ha cominciato ad accendersi, attraversando i territori della filosofia e della grecità, della volontà e dell’agire pubblico. Abbiamo interrogato il potere della parola, la figura dell’intellettuale, e la possibilità di un nuovo inizio. Un viaggio tra il mito e la modernità, alla ricerca di ciò che ancora può incendiare il pensiero.
Quale tensione profonda attraversa il rapporto tra Hannah Arendt e Martin Heidegger?
In Hannah Arendt, come in Heidegger c’è un rovello potente attorno al linguaggio, alla domanda originaria. Possiamo dire che il loro confronto – e il loro amore – abbia tracciato due traiettorie profondamente diverse, quasi opposte, ma proprio per questo complementari. Quei due mondi non si elidono, non si escludono, ma devono coesistere. Una coesistenza che si configura quasi come un “amplesso necessario”. Parlo di carnalità non nel senso fisico del termine, ma nel desiderio profondo che attraversa l’amante verso l’amato. Un desiderio che rovescia continuamente i ruoli: chi guida e chi è guidato? Chi plasma e chi viene plasmato? Come in una pièce, il servo di scena diventa il commendatore, e viceversa. La loro relazione non può essere letta in maniera lineare, ma come una tensione costante e necessaria.
Quale visione del tempo emerge dal pensiero di Arendt e Heidegger?
Entrambi ci offrono una prospettiva del tempo radicalmente alternativa rispetto alla concezione lineare tradizionale. Su questo punto, Arendt ci consegna una riflessione straordinaria. In Vita Activa afferma che ciò che rende davvero unico l’essere umano è il potere di cominciare. Ma attenzione: il cominciare non si dà se non nel potere di interrompere. La natura non si interrompe mai: segue cicli, si ripete, si perpetua. L’uomo, invece, può rompere, può spezzare la sequenza. E solo così può dare inizio. È un atto rivoluzionario. È ciò che fonda la libertà. L’interruzione diventa così possibilità di nascita, rottura della routine, apertura all’inedito. È il celebre “battito d’anima” evocato da Schopenhauer, quell’istante misterioso, non controllabile, che spalanca il nuovo. Arendt e Heidegger ci propongono una visione del tempo che non avanza in linea retta, ma si avvolge su se stesso, in una forma sferica, dove ogni punto può diventare origine e cambiamento.
In che modo la relazione con l’altro diventa condizione necessaria per la manifestazione dell’essere?
Nella visione greca, persino gli dèi si affaticano per essere riconosciuti, si celano sotto sembianze umili, come mendicanti. Lo straniero, il mendicante, porta dentro di sé il baluginio della divinità. Eppure, ha bisogno dell’altro per essere svelato. La manifestazione dell’essere ha bisogno di un tramite. Talvolta, persino sporcato. È il distacco che rende possibile l’incontro. L’alterità non è ostacolo, ma condizione. Ancora una volta, si rivela essenziale: due anime, due destini che si incrociano nel vortice della storia —Hannah e Martin, come Paolo e Francesca — travolti da un desiderio che è insieme rivelazione e condanna. L’essere, per potersi manifestare, ha bisogno di attraversare il “tra”: quello spazio fragile e fecondo dove si incontrano differenze, dove l’identità si costruisce nel dialogo, dove il sacro si lascia intuire nel volto dell’altro.
E quel “tra” è proprio il territorio della volontà?
Esattamente. Il pensiero di Arendt si struttura attorno a questa triade: nascita, volontà, compimento. La volontà nasce, poi si muove nello spazio del “tra” – uno spazio intermedio e instabile – e poi si compie. È un ciclo che ci riguarda tutti. Viviamo immersi in questo “in-between”, e lì si gioca il senso del nostro agire. La volontà, che interrompe e ricomincia, è centrale anche oggi, nell’epoca della transizione digitale. La realtà si dissolve nei flussi, e lì si manifesta anche il nulla nichilistico, quello che oggi spesso abitiamo senza saperlo nominare. Ma resta fondamentale l’atto di volontà. Ed è anche ciò che rende attuale, potentemente attuale, il pensiero di Arendt oggi.
A proposito di attualità: come si colloca il pensiero di Arendt e Heidegger nel nostro presente, immerso nella frammentazione dei linguaggi?
La storia si è rimessa in moto. Non perché qualcuno l’abbia spinta, ma perché qualcosa, all’improvviso, si è risvegliato. Un sussulto vitale. Le grandi narrazioni – quelle che Arendt avrebbe chiamato “prediche” – sono crollate. E noi? Ci muoviamo a fatica. Tentiamo di capire, di dare un senso. Ma il flusso ci travolge. Eppure, anche il gesto più piccolo – rimandare una cena, cambiare strada – è già una scelta, un atto storico. Il battito d’ali che può cambiare il corso degli eventi. Viviamo in una dimensione fragile, sospesa, come nell’antico apologo orientale: se qualcuno in Estremo Oriente si sveglia da un sogno, il sogno finisce. E con esso, il mondo. Arendt e Heidegger abitavano questa tensione: il tempo circolare, il ritorno, il salto.
Per Arendt, la Vita Activa è azione, ma anche rischio. Significa esporsi. Presuppone coraggio. Rompere il tabù. Attraversarlo.
Veniamo alla figura dell’intellettuale pubblico. Esiste ancora? E che senso ha oggi?
“Intellettuale” è una categoria che porterei a sospetto: borghese, etichettante, legata a un apparato ideologico-burocratico preciso. È una parola figlia di un bisogno moderno di incasellare, nominare, normalizzare. Basti citare Ipazia: nel mondo antico non c’era bisogno di nominare l’intellettuale, perché il pensare era parte del vivere, non un mestiere. La figura dell’intellettuale, invece, è a mio avviso profondamente ambigua. Non chiameremmo mai intellettuale Socrate, né Platone. Chi pensa, chi crea, chi agisce nel mondo con potenza visionaria – come Arendt, come Heidegger – è prima di tutto un artista del pensiero. Il linguaggio, d’altronde, non è mai neutro: ci rivela sempre qualcosa dell’autenticità che cerca di nominare. Gli artisti, infatti, li si nomina per cognome, perché la loro autorità è altra, più profonda. Quando abbiamo avuto in Italia momenti di rottura autentica, è stato grazie a figure capaci di visione, che hanno saputo orientare il proprio tempo. Penso a Danilo Dolci, Leonardo Sinisgalli, Leonardo Sciascia. Hanno saputo parlare al proprio tempo, incidere. Ma erano prima di tutto artisti. Non intellettuali nel senso accademico o burocratico. L’artista ha un’altra forza: la forza del carisma, che è possesso di parole. Penso a Dante: con la sua Monarchia ha strutturato il pensiero politico, ma l’innesco è poetico. L’arte muove. L’artista incendia.
Quando sfogliamo ad esempio la corrispondenza tra Arendt e Heidegger, o ancora meglio, le loro opere “sistematiche” – anche se chiamarle così è forse improprio – come Vita Activa o Segnavia, ci rendiamo conto che sono vere e proprie prassi. Non sono semplici sistemi di riflessioni. Sono fuoco. Sono parole che accendono, che trasformano, sono gesti concreti che mutano la realtà. Hanno quella magia artistica, spirituale. È questa la vera scintilla.
A volte però si accusa certi pensatori di non “sporcarsi” con il pubblico…
Quando alla Biennale abbiamo lavorato al Progetto Speciale dell’Archivio Storico Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem di Meister Eckhart, ci siamo chiesti: come restituire al presente una parola sepolta sotto le croste dell’accademia? E la risposta è stata: portarla alla luce. Ma senza renderla inoffensiva. Restituirla nella sua forza originaria, nella sua capacità di aprire spazi interiori, fenditure di senso, vuoti fecondi. Eckhart non è un autore da spiegare, ma da attraversare. Le sue parole non si comprendono, si abitano. Il suo pensiero è un esercizio del silenzio, un invito all’essenziale, una disciplina dell’abbandono. È stato un gesto di semina.
Perché il verbo – come in Eckhart, in Arendt e in Heidegger – è qualcosa che ci obbliga al respiro, all’ascolto, allo sguardo. Non produce sapere, ma lo scioglie. Non offre risposte, ma pone domande che resistono. In un’epoca che consuma superficialmente le parole fino a svuotarle, tornare a Eckhart è stato un atto di resistenza. Di fiducia nella profondità.
Portare quella parola nel presente, è un atto politico?
Tornare a quella parola, portarla fuori dalle biblioteche polverose, metterla in scena nel mondo, è un atto pubblico. È la replica della prassi arendtiana: pensare in solitudine, ma parlare in pubblico. Prendere la parola per creare spazio comune, per rischiarare il tempo che viviamo.
Qual è oggi il compito del pensiero?
Questo gesto – filosofare col martello, come voleva Nietzsche – richiede coraggio e chiarezza. Necessita di evitare gli equivoci, di custodire il fuoco del pensiero autentico anche contro la banalità, la cultura del gossip che tutto appiattisce. Oggi più che mai, il compito del pensiero è quello di risvegliare. Di interrompere. Di ricominciare. Viviamo drogati di banalità e terrore. La società della chiacchiera, come diceva Heidegger. Il chiacchiericcio, direbbe Arendt. È un sistema che non tollera l’ignoto, l’inafferrabile. Eppure il pensiero autentico nasce solo lì. Solo nell’imprevisto.
Se potesse intervistare Arendt, cosa le direbbe?
L’ascolterei, per rispetto. Bisogna mantenere il pathos della distanza. C’è un sapere che discende. Noi dobbiamo essere discepoli, cioè coloro che ricevono. È la paideia teoretica.
Se dovesse scegliere una sola parola per raccontare l’amore tra Arendt e Heidegger, quale sarebbe?

Linguaggio. È lì che si sono incontrati, ed è lì che hanno lasciato tracce. Il loro amore ha conosciuto l’interruzione non come fine, ma come condizione di un nuovo inizio. Dalla frattura è germogliata una possibilità inedita: un cominciamento, come avrebbe detto Heidegger. È stato seme di qualcosa di ulteriore, che oggi ancora ci parla.
Parole che ci restituiscono una riflessione necessaria sul pensiero come atto radicale, sul linguaggio come luogo sacro e sulla responsabilità dell’intellettuale – o meglio, dell’artista del pensiero – nel nostro tempo confuso. È un invito a tornare alle parole che illuminano, che interrompono e generano inizio. Perché, come ci ricorda Buttafuoco, è solo nella scintilla di chi pensa con arte che possiamo ancora intravedere il futuro.