Hannah Arendt, il diritto e la scienza: tra etica, politica e conoscenza

di Clelia Piperno – Presidente Fondazione Rut

Hannah Arendt, una delle pensatrici più originali e profonde del Novecento, ha lasciato un’eredità filosofica che attraversa molteplici ambiti: dalla teoria politica alla filosofia morale, dal concetto di totalitarismo alla riflessione sul giudizio e sulla responsabilità individuale. Tra i temi meno esplorati ma estremamente attuali del suo pensiero vi è il rapporto tra diritto e scienza, due pilastri della modernità che, secondo Arendt, rischiano di diventare strumenti di alienazione se separati dalla responsabilità e dalla pluralità dell’agire umano.

Il diritto come spazio dell’agire umano

Per Arendt, il diritto non è solo un insieme di norme, ma soprattutto uno spazio in cui l’essere umano può agire, apparire e partecipare alla vita pubblica. Nel suo capolavoro Vita activa, Arendt distingue tra lavoro, opera e azione: è quest’ultima a fondare la politica, intesa come lo spazio dell’incontro tra persone libere e uguali. In questo contesto, il diritto assume una funzione fondamentale: garantisce la durabilità dello spazio politico, rende possibile la promessa e il perdono, e soprattutto protegge la pluralità, condizione essenziale per la libertà.

Tuttavia, Arendt mette in guardia contro la burocratizzazione del diritto, che può trasformare la legge in uno strumento impersonale, svuotato di significato etico. È questo uno degli insegnamenti più sconvolgenti del suo saggio La banalità del male, dedicato al processo a Eichmann: l’obbedienza cieca alla legge, senza riflessione morale, può diventare un veicolo di orrori inumani. Il diritto, quindi, deve sempre rimanere ancorato alla capacità di giudizio, al pensiero critico e alla responsabilità personale.

La scienza e il rischio dell’astrazione

Anche nei confronti della scienza, Arendt mostra un atteggiamento ambivalente. Non la rifiuta in quanto tale, ma ne osserva criticamente l’evoluzione nel mondo moderno. In particolare, Arendt denuncia il pericolo dell’astrazione scientifica, che tende a sostituire il mondo sensibile con modelli matematici e teorici sempre più lontani dall’esperienza umana concreta. In La condizione umana, afferma che l’uomo moderno, affascinato dalla possibilità di “dominare la natura”, rischia di perdere il contatto con la realtà politica e relazionale.

La scienza, quindi, se separata dal contesto umano e politico, può diventare uno strumento di potere tecnocratico, e contribuire alla disumanizzazione dell’agire. Arendt mette in guardia contro un sapere che pretende di essere neutro, ma che può facilmente diventare complice di sistemi oppressivi quando si piega agli interessi dello Stato o del mercato. Per questo, anche la scienza deve rimanere legata alla dimensione del giudizio e della responsabilità individuale.

Verso una responsabilità condivisa

Ciò che lega il diritto e la scienza nel pensiero di Arendt è la necessità di ripensare in profondità il concetto di responsabilità. Arendt non intende la responsabilità in senso meramente giuridico, come imputabilità di un’azione secondo il diritto positivo, né in senso tecnico, come l’accuratezza con cui si applicano delle conoscenze specialistiche. La sua idea di responsabilità è radicalmente politica e morale, e si fonda sulla capacità dell’individuo di pensaregiudicare e agire in un mondo comune.

Uno dei suoi contributi più originali consiste nel superare la visione individualistica della responsabilità. Di fronte agli orrori del Novecento — dal totalitarismo alla Shoah — Arendt comprende che la responsabilità non può essere soltanto una questione privata, da relegare alla coscienza del singolo. Essa è piuttosto una responsabilità condivisa, che emerge nel momento in cui l’individuo si riconosce come parte di una comunità politica e partecipa attivamente alla costruzione del mondo comune. “Nessuno ha il diritto di obbedire”, affermava provocatoriamente nel contesto del processo Eichmann: un richiamo potente alla responsabilità individuale anche nei regimi in cui tutto spinge verso la deresponsabilizzazione.

Nel mondo moderno, caratterizzato da una crescente interdipendenza globale e da una forte specializzazione delle competenze, il rischio è che ciascuno si senta responsabile solo di un piccolo segmento della realtà, perdendo la visione d’insieme. In questo contesto, la scienza e il diritto possono facilmente diventare strumenti impersonali, mossi da logiche tecniche o procedurali, privi di legame con l’etica e la politica. Arendt invece invita a recuperare un’idea di responsabilità che sia plurale e relazionale: ogni azione, ogni decisione tecnica o giuridica, ha effetti sul mondo che condividiamo, e dunque ci coinvolge tutti, direttamente o indirettamente.

L’intelligenza artificiale e il rischio della deresponsabilizzazione

Tra le sfide più complesse del nostro tempo vi è sicuramente quella posta dall’intelligenza artificiale (IA). Le tecnologie intelligenti non si limitano a supportare l’essere umano in compiti ripetitivi o computazionali, ma sono ormai impiegate in processi decisionali cruciali: dalla giustizia predittiva alla sorveglianza, dalla selezione del personale all’allocazione delle risorse sanitarie, fino al controllo delle frontiere. In molti casi, le decisioni prese dagli algoritmi influenzano concretamente la vita delle persone, ma senza che sia sempre chiaro chi ne porti la responsabilità.

In questo contesto, il pensiero di Hannah Arendt ci offre uno strumento critico per smascherare un rischio sottile ma pericoloso: quello della deresponsabilizzazione morale e politica. Quando le scelte vengono affidate a sistemi automatici, o giustificate come “neutrali” perché basate sui dati, gli esseri umani tendono a ritrarsi dal giudizio. Ma proprio Arendt ci mette in guardia contro l’illusione dell’obbedienza cieca, anche — o forse soprattutto — quando l’ordine non viene da un’autorità visibile, ma da un sistema automatizzato.

L’automatismo dell’IA può quindi riprodurre dinamiche simili a quelle che Arendt denunciava a proposito del totalitarismo burocratico, dove ogni individuo è solo una rotella dell’ingranaggio, convinto di non avere il potere né il dovere di agire diversamente. In entrambi i casi, la perdita del pensiero critico e del giudizio etico conduce a una forma di “banalità del male” aggiornata ai tempi digitali: non più il funzionario che obbedisce, ma il programmatore che “ottimizza”, il dirigente che “automatizza”, il cittadino che “affida” scelte morali alla macchina.

La vera posta in gioco non è solo tecnica, ma profondamente politica e umana: chi decide? Chi controlla? Chi è responsabile delle conseguenze? Di fronte a queste domande, Arendt ci ricorda che il giudizio non è delegabile. Nessun algoritmo potrà mai sostituire il discernimento umano, la capacità di interrogarsi sul bene e sul male, di contestare, di assumersi il peso delle proprie azioni.

Per questo motivo, la responsabilità nell’era dell’IA deve essere stratificata e condivisa: riguarda chi progetta i sistemi, chi li adotta, chi li usa, chi ne subisce gli effetti. Ma riguarda anche la società nel suo insieme, che deve stabilire i limiti etici e giuridicientro cui l’intelligenza artificiale può operare. Arendt ci invita a non nasconderci dietro l’anonimato delle strutture, ma a restituire visibilità alle scelte, trasparenza ai processi, e voce a chi ne è escluso.

Infine, l’IA può diventare un banco di prova per rinnovare la partecipazione democratica. Le decisioni su come — e se — impiegare determinate tecnologie non possono essere lasciate solo a esperti o imprese private. Servono nuove forme di deliberazione collettiva, di controllo pubblico, e di alfabetizzazione digitale che permettano a tutti i cittadini di intervenire nei processi decisionali. È solo in questo modo che l’intelligenza artificiale potrà essere integrata in un progetto politico umano, al servizio della libertà e della dignità

Hannah Arendt non ha scritto per le donne, ma ha scritto da donna libera. La sua opera è un esempio di pensiero indipendente, di rigore intellettuale, di passione per il mondo. In un tempo in cui le identità tendono a diventare gabbie, la sua voce ci ricorda che la libertà non consiste nel rivendicare un ruolo, ma nel osare pensare, anche controcorrente.

In questo senso, Arendt è una figura fondamentale anche per le donne di oggi: non perché offre risposte semplici, ma perché ci invita a prendere la parola, a giudicare con la nostra testa, a entrare nella scena del mondo senza delegare. La sua eredità è, prima di tutto, una chiamata alla responsabilità del pensiero. E questa, forse, è la forma più alta di emancipazione.

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