Intervista a Luca Trapanese: resilienza e saper ascoltare

a cura di Giuseppe Picciano - Direttore Responsabile rivista Erre

Chiamatelo pure predestinato. Luca Fella Trapanese, docente di pedagogia dell’Inclusione all’istituto universitario Suor Orsola di Benincasa e assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli da due anni e mezzo, ha preso contezza di quanto sia complesso, da amministratore pubblico, tradurre in pratica i concetti di lotta all’emarginazione e alle fragilità esistenziali o sostenere i processi di inclusione in una città tentacolare come la sua. Tuttavia, il volontario che è in lui, da sempre impegnato in progetti in Paesi in via di sviluppo nei quali ha coordinato missioni umanitarie con le suore di Madre Teresa di Calcutta, cresciuto spiritualmente nel treno bianco per Lourdes dove ha assistito molti ragazzi disabili, immaginava le difficoltà che avrebbe comunque affrontato una volta attraversato il guado che separa la trincea quotidiana dal punto di osservazione. In ogni caso ha chiuso il cerchio.
Trapanese ha accettato l’invito di ERRE a conversare sul primo periodo della sua esperienza di amministratore, ma anche del suo vissuto nelle aree del disagio e della sofferenza. Da fondatore del “Borgo Sociale”, una microcomunità per ragazzi disabili senza genitori impegnati a vivere in maniera autonoma, e della “Casa di Matteo”, la prima comunità nel Sud Italia che accoglie bambini con gravi malformazioni, disabilità e forme tumorali terminali abbandonati, ha accettato quindi di riflettere sui valori delle politiche sociali di prossimità sottese al concetto di resilienza e quanto siano preziose, talune volte, per ridimensionare i furori dell’intolleranza.

Secondo l’accezione più diffusa, assessore, essere resilienti siginifica possedere le risorse per affrontare e superare una situazione di crisi e consiste nell’avere sufficiente resistenza per non esserne travolti, sufficiente elasticità per superarla, sufficiente pazienza per il tempo necessario a riuscirci. Visti gli ultimi burrascosi eventi nel mondo, la resilienza può essere considerata anche un antidoto ai fondamentalismi?

Non c’è dubbio. Combinare queste tre capacità morali, corroborate da una buona dose di umana sopportazione, aiuta a elaborare ogni situazione critica. Essere disposti all’ascolto e al confronto è l’unico modo per tenere accesi i canali di dialogo. Con qualche risultato.

Napoli è la città delle contraddizioni per antonomasia dove spesso tolleranza e insofferenza, solidarietà e illegalità sono separate da un labile confine. Poeticamente la definiscono “madre e matrigna”. Un contesto che appare subito chiaro a chi si occupa di tradurre iniziative di coesione e di inclusione nei quartieri socialmente complessi. Come valuta la sua esperienza finora maturata?

Da quasi tre anni mi confronto con la realtà quotidiana di Napoli e devo ammettere quanto sia faticoso far comprendere a uno spaccato di società recalcitrante la necessità di dover tendere a dei miglioramenti. La difficoltà più grande è proprio quella di adottare azioni e comportamenti innovativi in una città per indole statica, che fa fatica a concepire i cambiamenti come vere opportunità. Lo noto anche nelle interazioni con gli enti che si occupano di sviluppare i progetti che noi finanziamo: alla proposta di modificare e attualizzare determinate procedure, si alza un muro di perplessità. Poi, dopo un laborioso lavoro di mediazione, il progetto si realizza nella maniera più soddisfacente possibile.
Durante il suo mandato, ha promosso alcuni progetti (tra i quali il giocattolo sospeso, l’affido extrafamiliare, la giornata della disconnessione, le ludoteche di quartiere) sulla scorta della sua precedente esperienza di operatore del sociale. Coesione, inclusione, equità sociale: come si conferisce dignità al welfare cittadino che non siano solo assistenza o enunciati di circostanza?

Scusi il pragmatismo, ma per conferire efficacia alle politiche sociali occorrono innanzitutto risorse economiche. Viviamo in un momento di profonda povertà per il welfare perché lo Stato ha tagliato tanto. Se non vogliamo creare assistenzialismo tout court dobbiamo creare progetti continuativi nel tempo e duraturi. Stiamo lavorando a una nuova visione della collaborazione tra privati, il terzo settore e amministrazioni pubbliche, che finora ci ha soddisfatto per i risultati conseguiti,
ma i fondi a disposizione restano esigui.

Assessore, lei è padre single di una bambina con sindrome di down che ha adottato nel 2018. Alba è stata rifiutata da decine di coppie idonee all’adozione. Considera il suo gesto rivoluzionario o semplicemente un buon esempio?

Ogni gesto che facciamo è rivoluzionario quando rompiamo gli schemi. Siamo rivoluzionari ogni giorno quando facciamo capire alla società che siamo persone e non individui omologati.

Quando ho pensato ad Alba non avevo alcuna intenzione di creare scandalo, volevo solo adottare un bambino disabile di pochi giorni. In quel momento non mi resi conto che se avessi ottenuto l’adozione avrei infranto un modello consolidato.

Nel momento in cui ci sono riuscito, sono stato io stesso, paradossalmente, vittima di questa scelta ma ho rimesso in discussione una serie di argomenti che fossero di un solo tipo: la famiglia tradizionale, le genitorialità, la maternità, l’uomo single a cui non è concesso adottare una bimba di venti giorni.

La vera rivoluzione in fondo non l’attua chi vuole farla a tavolino, ma chi la persegue quotidianamente.

Durante il suo mandato ha istituito un festival sulla disabilità: l’ha chiamato “Capability” nel quale si parla di disabilità come capacità alternativa, mai come problema.

Accendendo i riflettori sulla disabilità e parlandone con un linguaggio moderno, affrontando temi importanti e spesso taciuti quali la sessualità, il “dopo di noi”, i diritti negati, la vera inclusione, maternità e disabilità, sport e disabilità, volontariato. Il nostro obiettivo è cambiare l’approccio alla disabilità prima dal punto di vista culturale e poi da quello del welfare.

La manifestazione prevede, in vari luoghi cittadini, tre giorni animati da dibattiti, film, laboratori per i più piccoli, visite guidate, mostre alla presenza di influencer ed esperti della comunicazione che parlano di disabilità in maniera positiva.

Di mattina, nelle scuole, gli studenti incontrano gli operatori del volontariato e comunicatori; nel pomeriggio all’Albergo dei Poveri si proiettano film e documentari con workshop tematici condotti da esperti.
Essere disposti all’ascolto e al confronto è l’unico modo per tenere accesi i canali di dialogo.
Assessore Trapanese, ha raccontato la vicenda di Alba in un libro, ma la sua attività di scrittore è prolifica. Di recente ha presentato il suo ultimo lavoro: “Non chiedermi chi sono” nel quale narra cosa significhi soffrire per una malattia o per amore o cosa significhi riconoscersi uguali nelle diversità. Si tratta di un’introspezione molto profonda e coraggiosa. Ne fa tesoro anche quando deve affrontare situazione di grave disagio o di sofferenza?

Sì, il mio bagaglio di esperienze mi è molto utile nella quotidianità. Da assessore sono in contatto con numerosi genitori che hanno figli disabili, con persone che subiscono ingiustizie, con tante famiglie disagiate che non sanno come andare avanti e che stanno per perdere tutto, compreso la casa. Il mio vissuto mi aiuta a costruire una prospettiva diversa dell’ascolto.

Per debellare l’intolleranza e l’odio, prodromi dei fondamentalismi, bisognerebbe liberare le menti. Come si sgomberano le menti e con quali strumenti?

Un solo strumento, la cultura. Dobbiamo fare cultura nelle scuole e in ogni altra sede adeguata. Cultura non significa apprezzare quadri e monumenti storici, ma affermare il concetto di diversità e di conoscenza dell’altro. Ci sono persone che fanno ancora fatica a distinguere tra chi è malato e chi è disabile. Quando mi presentano dicono: “Ecco il papà di Alba, la bimba che soffre di sindrome di Down”. Alba non soffre la sindrome di Down. Alba ha la sindrome di Down, è un modo di essere. Soffre chi è affetto da una patologia. Quindi bisogna intraprendere dei progetti per educare le persone alla diversità. Alcune persone non hanno proprio idea che possono esserci possibilità diverse dal proprio schema di vita. Bisogna parlarne di più, soprattutto ai giovani che sono la nostra proiezione nel futuro.

Lei è un apprezzato autore di acquerelli. In questo tempo malato, il soggetto che dipingerebbe sarebbe un auspicio di pace o la condanna dei confitti che insanguinano il pianeta?
Sarebbe un soggetto che rappresenta la pace, la nostra unica speranza. Vede, oggi ci sono le guerre in Ucraina, in Medioriente e in molte aree del mondo che ignoriamo. Domani potrebbe toccare a noi e nessuno ci garantisce che ciò non avvenga. La pace e la convivenza trai i popoli sono gli obiettivi più alti cui tendere. Obiettivi terribilmente faticosi.

In che senso?

Dal quartiere a rischio alle crisi geopolitiche bisogna incentivare la convivenza pacifica e il dialogo interculturale, ponendosi in atteggiamenti di ascolto delle storie di vita intrise di traumi, frustrazioni, insuccessi. Occorre estirpare il pregiudizio, sradicare lo stereotipo per prevenire la discriminazione cercando sempre ambiti di interazione. Crede che sia così semplice o conveniente?»
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