Intervista a Edith Bruck

a cura di Raffaele Buscemi - Giornalista

Edith Bruck, pseudonimo di Edith Steinschreiber, è una scrittrice, poetessa, traduttrice, regista e testimone della Shoah. Reduce dell’Olocausto, sopravvissuta alla deportazione nei campi di concentramento di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen, ha trascorso gran parte della sua vita a raccontare la terribile esperienza con la sua arte e con i suoi scritti, portando la propria testimonianza presso scuole e università, per mantenere viva la memoria.
Con Edith Bruck abbiamo di fatto ripercorso alcune tappe della sua vita cercando analogie con i problemi del presente, dal razzismo all’emarginazione passando da i rapporti umani e dalla loro complessità. Con un occhio di riguardo alla situazione Israeliana.

In una sua raccolta di poesie dal titolo «Versi vissuti» scriveva: «Nascere per caso. Nascere donna. Nascere povera. Nascere ebrea è troppo in una sola vita». È ancora così? È ancora attuale?

Rinascerei esattamente così come sono nata. La poesia la scriverei anche oggi. Voglio dire va bene così, forse quello che pesava di più era l’essere ebrea. Ma questo peso lo porto profondamente dentro di me, non potrei essere mai null’altro. Ma questo ha inciso molto nella mia vita. Tutta la vita. Ha cambiato i miei rapporti con il mondo, con l’umanità, con gli amici, con la società e ha totalmente cambiato la mia esistenza, per sempre. Io vivo ogni giorno quello che ho vissuto.

Cosa vuol dire?

Non vorrei essere qualcosa di diverso da quella che sono. Ho pagato il prezzo.

Lei cosa intende quando ha scritto «nascere per caso».

Perché si nasce per caso. Perché io vengo da una famiglia molto povera, molto numerosa. Si nasce per caso, no? Mamma diceva che abbiamo i fgli che ci ha dato Dio. E quindi tutti i figli che sono nati, sono dati da Dio. L’uomo non c’entra. E quindi normalmente, le famiglie ebraiche nel villaggio dove io sono vissuta avevano minimo 8, 10 o 13 figli. Mia madre era molto credente, mio padre così così. Come posso dire, non portava la kippāh per esempio. Allora noi, per questo motivo, eravamo già in qualche maniera discriminati dalle altre famiglie, perché c’erano altre 10 famiglie ebraiche nel villaggio.

In che senso discriminate? Anche in una comunità così piccola c’erano divisioni?

Di queste 10 famiglie alcune non ci dicevano neanche buongiorno. Non eravamo affatto simpatici agli altri. E la mia famiglia già lì per lì era abbastanza discriminata. Papà era un po’ così, non dico dubbioso, ma molto nervoso, perché era molto povero, non sapeva come mantenere la famiglia. E quindi faceva trasporti di bestiame e poi avevamo otto fratelli, due morti da piccoli e noi eravamo sei in una casa con una stanza e una cucina. Diciamo che l’80% delle altre famiglie erano assolutamente, si può dire, fondamentaliste, quasi ci studiavano, c’era una specie di razzismo all’interno della piccola comunità.

C’era già un voi e un noi?

Si, nel senso che se c’è un ebreo ricco allora gli ebrei sono tutti ricchi, però noi eravamo sempre chiamati “voi”, nel senso che un ebreo non è mai un singolo ma è sempre il voi, è “tutti gli ebrei pensano la stessa cosa”, tutti gli ebrei sono colpevoli, se un ebreo ruba, tutti gli ebrei sono ladri, se uno è ricco tutti siamo ricchi. Se alcuni hanno ucciso Gesù siamo tutti deicidi. Voglio dire che perfino Italo Calvino, che è venuto a casa mia, ha detto un giorno: «voi dovete andare in America dove ci sono i vostri lettori», io ho detto a Italo: «voi chi?», ha risposto: «voi ebrei». Quindi voglio dire che la cosa è sfuggita ormai totalmente. Questo voi, voi, sempre voi.
Sta parlando di antisemitismo?

Stiamo vivendo proprio uno tsunami di antisemitismo, sappiamo che questa cosa non passerà mai e sarà eterna.

Perché eterna?

Perché non passa mai, perché siamo stati cresciuti, accusati, fin da bambini, così. Sono stata terrorizzata fn da piccola perché noi abbiamo ammazzato Gesù Cristo. Era una cosa data per scontata. Non c’era via di uscita, era il grande antisemitismo, prima ancora del razzismo. Direi quasi antisemitismo innato. Questa cosa degli ebrei è rimasta anche oggi, secondo me. Poi nel tempo oltre all’antisemitismo arrivò anche il fascismo. La propaganda fascista arrivò anche nel mio villaggio di 1.300 abitanti. A molti hanno fatto cose orribili, io sono stata “soltanto” trascinata nel bosco e denudata dal sedere in giù e mi mettevano sull’ortica che pizzicava molto, poi invece una volta hanno rotto del tutto la testa di mio fratello. Anche lì però c’era gente che era buona con noi: c’era un contadino abbastanza benestante, con il suo cavallo e con il suo carro è entrato nel ghetto anche se non so come ha fatto, ma ha superato la guardia tedesca. Ci ha portato da mangiare. Era molto alto così si vedeva solo la sua testa da dietro il muro del ghetto, iniziava a prendere il cibo e lo buttava e cadeva come la manna del cielo, tutti piangevano, anche mio padre.

E poi?

E poi nel ‘42 hanno bussato i fascisti e i gendarmi. Subito dopo la Pasqua ebraica. È importante dire che dopo la guerra si è
insegnato a scuola che sono stati i tedeschi a portarci via dal villaggio, ma non è vero. La menzogna si è diffusa subito dopo la guerra. Chi ci ha portato via era ungherese. All’alba, verso le cinque, i gendarmi hanno rotto la porta. Mia madre è corsa a cercare le decorazioni di mio papà, della prima guerra mondiale, pensando che potesse aiutare in qualche maniera ma questo fascista di 25 anni, 20 forse, ha preso queste medaglie, le ha buttate per terra, le ha pestate con gli stivali e ha detto: «da oggi non valgono più». Quindi ha dato uno schiaffo a mio padre. Lì tutto è cambiato per sempre, nel senso che, un ragazzino di 20 anni che da uno schiaffo a uno di 48 anni, per me era un dolore indescrivibile. Oggi quando lo racconto soffoco le lacrime perché è stato terribile e perché da lì in poi ho capito che era finita.

Facciamo un salto nel tempo, andiamo al ‘48. Lei si trasferisce in Israele, però non era come se l’aspettava. E poi va via. Perché?

È molto semplice: io sono cresciuta con una mamma che cantava canzoni bellissime. Una volta la mamma dato che non avevamo niente per cenare, si è seduta sul letto e ci ha raccontato che ce ne saremmo andati nella nostra patria, la terra promessa, che Dio ha promesso. Lì ci saremmo amati tutti, ci avrebbero aspettato con le braccia aperte, saremmo stati tutti uguali e non saremmo stati più odiati. E poi mi diceva «dormi, figlia mia, dormi» e canticchiava una canzone. La cena non c’era, questa era la cena. Allora io credevo a questo, credevo che lì saremmo stati tutti felici, uguali, non odiati, non aggrediti, tutti saremmo andati nel paradiso terrestre e in questo paradiso terrestre io credevo. Sono arrivata nel 1948 in Israele dopo alcuni campi di transito, dal 46 fino al 48 da un campo all’altro, finalmente in Palestina, in Palestina! Ormai non mi importava più nulla, soltanto arrivare. Siamo andati nella stiva di una nave dove c’erano molti ebrei, scalzi, marocchini anche e un sacco di gente dell’Africa. Io mi chiedevo se fossero davvero ebrei, nel senso che per me era strano perché non erano europei. Scrutavano, mormoravano, non li riconoscevo in qualche maniera. Però erano ebrei.
Stiamo vivendo proprio uno tsunami di antisemitismo, sappiamo che questa cosa non passerà mai e sarà eterna.
Torniamo al ‘48.

Siamo arrivati a Haifa e subito ci hanno chiesto: «che valore avete portato?» Come si fa a chiedere che valore abbiamo portato da Auschwitz. Non avevo niente, nulla. La situazione di povertà era estrema. Provai ad andare a trovare uno zio ma la sua reazione su molto fredda, quindi mi cercai subito uno o più lavori. Ho fatto le pulizie, la cameriera, ho lavorato in vari negozi ma ero sempre poverissima. Una volta avevo così fame che svenni mentre lavoravo. Ma non era la terra promessa di latte e miele che avevo idealizzato da piccola. Molta gente è stata cattiva con me, molti approfittavano della povertà di chi arrivava, c’era anche molto razzismo tra nazionalità diverse anche se eravamo tutti ebrei. Una volta entrai in un negozio e mi cacciarono via dicendo: «vai al negozio degli ungheresi come te».

Come eravate trattati voi sopravvissuti dei campi di concentramento?

Quando iniziavo a raccontare qualcosa, ognuno di questi nuovi ed eroici ebrei, che non assomigliavano a noi del ghetto, dicevano: «hanno fatto bene a portarvi via, potevate ribellarvi». Noi non potevamo parlare, neanche in Ungheria dopo la guerra nessuno ci ascoltava, lo stesso hanno fatto in Israele. Era una generazione di ebrei che non sapeva neanche piantare un chiodo nel muro, non sapevano neanche quanti figli avevano. L’ebreo nuovo era uno senza kippāh, erano bei ragazzi, tutti pronti a sparare, tutti pronti, armati, erano i nuovi ebrei, erano un pò ebrei cowboy, all’americana diciamo. Belli, biondi, con occhi azzurri. Ho preso una volta questo autobus, c’era un soldato a guidarlo, e la prima cosa che disse fù: «non voglio sentir parlare di Auschwitz». Nessuno mi ascoltava, per questo ho cominciato nel ‘46 a scrivere.

Quindi poi lasciò il paese.

Io Israele non lo potevo più vedere. Quando sono arrivata il paese era appena nato quindi era neonato, ma anche io ero neonata in un certo senso, appena rinata, e quindi avevo esattamente bisogno di quello di cui aveva bisogno il paese, avevamo gli stessi identici bisogni ma non potevamo dare nulla l’uno all’altro. Nel ‘52 circa ho lasciato il Paese, quando mi hanno chiamato a fare il servizio militare. Io non farei il militare per nessun Paese al mondo, io non prenderei mai in mano un’arma, detesto la violenza, non alzerei la mano contro nessuno.

Quindi poi lasciò il paese.

Io Israele non lo potevo più vedere. Quando sono arrivata il paese era appena nato quindi era neonato, ma anche io ero neonata in un certo senso, appena rinata, e quindi avevo esattamente bisogno di quello di cui aveva bisogno il paese, avevamo gli stessi identici bisogni ma non potevamo dare nulla l’uno all’altro. Nel ‘52 circa ho lasciato il Paese, quando mi hanno chiamato a fare il servizio militare. Io non farei il militare per nessun Paese al mondo, io non prenderei mai in mano un’arma, detesto la violenza, non alzerei la mano contro nessuno.

Andiamo adesso ai fondamenti di un popolo e al fondamentalismo. Qual è il legame che li unisce?

C’è sicuramente il sentimento di un popolo: io appartengo al mio popolo ebraico, questo è per me fondamentale, non cambierei mai, nonostante tutto. Per me sarebbe un tradimento ai miei avi, ai miei nonni, a mia mamma, a mio papà, per nulla al mondo voglio dire.
Quindi scrissi che ero favorevole alla soluzione dei due Stati, non me lo perdonarono per anni.
E la religione? Come si pone in questo duo?

Oggi tutti lo usano il nome di Dio, di Allah, o quello che vuoi, per uccidere, per il fondamentalismo. Io credo che la religione molte volte è una specie di licenza di crudeltà sul tuo prossimo. Viviamo in un mondo dove c’è uno tsunami di antisemitismo spaventoso che è nato adesso con Gaza, e anche in America fanno manifestazioni dappertutto, cioè un antisemitismo in tutto il mondo. Io non sono colpevole per niente però sono punita e quindi è per quello che vengono giudicati sempre gli ebrei nel loro insieme, dappertutto, come se tutti pensassero la stessa cosa, non esistesse l’individuo che pensa diversamente.

Funziona così anche per chi critica alcune scelte politiche?

Vai a dire una sola parola su Israele, per carità, tu diventi antisemita, anche per le comunità ebraiche.

Certo, si confonde Israele con l’intero popolo ebraico, come se uno che critica Israele stia criticando gli ebrei, invece sono due cose separate.

Questo non è che è nato adesso, con Netanyahu, anche se Netanyahu ha la sua colpa. Io, per esempio, facevo giornalismo negli anni 70-60 e mi ricordo tutte le guerre che ci sono state in Israele e tutti gli incontri per la pace, per i due popoli e credo che di aver scritto un articolo dove ero d’accordo che i due paesi finalmente dicessero basta a questi massacri, a questo odio. Quindi scrissi che ero favorevole alla soluzione dei due Stati, non me lo perdonarono per anni.

Qualcuno se l’è legata al dito, quando ho detto 60 anni fa, due popoli, due Paesi. Ma vogliamo andare avanti così per tutta la vita con i palestinesi?

Io devo dire che assolutamente non sono d’accordo che vada avanti questo odio reciproco. Sono cresciute dal 48, 10 generazioni che odiano gli ebrei, ovunque essi siano. Continueranno se non si trova una soluzione, ma io non ho una soluzione.

Nessuna proprio? Eppure a volte nei proclami politici sembra esserci grande sicurezza.

Beh, quando Netanyahu dice che raderà al suolo Gaza, questo non risolverà niente. Non distruggerà mai Hamas in vita sua Israele, non c’è via d’uscita, non ce la si fa. Quindi è inutile minacciare, è inutile quello che dice Netanyahu, perché non è realizzabile. Anche gli americani, prima o poi si volteranno da un’altra parte.

Secondo lei come si passa dai fondamenti al fondamentalismo di un popolo?

Ci può essere quello islamico, ci può essere pure quello cattolico, ci può essere in qualunque parte del mondo, secondo me. Ma c’è in qualunque parte del mondo anche religione e politica. Appunto siamo pieni di fondamentalisti se vogliamo. Dappertutto.

Come si passa da una società normale, civile, secondo lei, a una società in cui governa il fondamentalismo?

Anche il razzismo. Non nasce all’improvviso. È un processo. Il credere ciecamente, senza assolutamente badare a quello che pensi tu, e quindi andare avanti ciecamente. Lo trovi dappertutto: nella religione, nella politica, nel nazionalismo anche. Dove non c’è fondamentalismo? Dimmi un paese, perfino in Svezia basta vedere cosa succede da quando è salita al potere la destra. In Svizzera in una pista di sci è comparso un cartello con scritto «non si forniscono strumenti per sciare agli ebrei».

Secondo lei come si arriva a quel punto? A essere fondamentalisti?

Quando tu hai la verità in tasca, la tua opinione, il tuo comportamento è vero, in assoluto vero. Escludere completamente quello che l’altro pensa. È per quello che è anche impossibile la pace. È impossibile. Impossibile per l’odio, per il pregiudizio, per tutti i pregiudizi del mondo. Non c’è altro, tutti sono pieni di pregiudizi. Non c’è fratellanza.
Ho chiesto a Francesco “cosa è Dio? Dov’è Dio?” Lui mi ha risposto che Dio è una ricerca continua.
È un problema dell’uomo o delle società?

In fondo l’uomo non è in pace con sé stesso e non può fare pace con gli altri, finché non la fa con sé stesso. E credo che ogni persona che uccide e non fa altro che uccidere in qualche misura sé stessa. Lo stesso che uccide in qualche misura muore dentro di sé.

Secondo lei c’è anche un problema di linguaggio?

C’è una libertà tale di dire bestialità e di parole senza senso, che è una cosa che fa paura veramente, anche le parole ormai non hanno peso, sono svuotate della loro sostanza, come la pace, come la morte, come la patria, tutto. A usare, a consumare le parole, perdono la loro sostanza, non hanno più senso, posso dire qualsiasi cosa. L’altro giorno si parlava di genocidio, no? C’è questo cantante, a Sanremo, che ha detto “stop al genocidio”. Allora, uno mette sullo stesso piano tutto. Mi ha fatto male.

Così tutto diventa uguale e nulla ha più un peso specifico proprio..

L’altro giorno sentivo una persona che qui paragonava il genocidio dei palestinesi alla Shoah. È una vergogna, una cosa che ti fa male, da impazzire. Perché lo scopo del confronto è diminuire, appiattire, ma la Shoah è unica, non esiste nel ‘900 né dopo esisterà la stessa cosa.

Quindi non si può parlare di genocidio?

Il fatto di denunciare Israele per genocidio mi ha stravolto, genocidio? Ma stiamo scherzando? È un mondo che usa le parole senza neanche riflettere due minuti. È una guerra che è continua, uno da due schiaffi, l’altro quattro, uno cinque, uno da, l’altro risponde. Il 7 ottobre cosa doveva fare Israele? Tu lo sai? Io no. Bruciano, ammazzano bambini, strozzano, tagliano le teste e Israele cosa deve fare? Non deve rispondere? Beh, deve rispondere, però, ad un certo punto, secondo me, bisogna, non dico pareggiare perché non si potrà pareggiare mai, ma cercare un momento dove fermarsi.

Quindi un po’ di fiducia ce l’ha. Anche se una volta ha detto di non fidarsi degli arabi. Ha senso fare pace con qualcuno di cui non ti fidi?

Certo, fidarsi per una volta. Una volta, due volte, tre volte e quattro volte. Nessuno vuole morire. Ma bisogna tentare, se non tenti…allora non risolvi. Magari tenti, non risolvi, però hai tentato. Tentare è già un messaggio molto importante per il mondo. Provare. Dobbiamo tentare. Perché così non si può andare avanti. Così abbiamo davanti, e loro hanno davanti, solo la morte e quello non è vita. Né per Israele né per i nemici.

Dio non c’è tutto in questo?

Io ho avuto molti dubbi su Dio, fin da bambina. Ma Dio c’è o non c’è? Poi la mamma diceva: «sta qua, sta la, sta in questo, Dio è dappertutto». Ho conosciuto Papa Francesco in sinagoga, noi sopravvissuti in prima fila. E lui era molto caldo, mi teneva la mano, mi abbracciava. E mi era molto simpatico. Quando ho chiesto a Francesco «Cosa è Dio? Dov’è Dio?» lui ha risposto che Dio è una ricerca continua. Non è che mi tormenta l’idea se c’è Dio o no. Io ho la coscienza assolutamente pulita, non ho fatto male neanche a una mosca.

Sembra una visione senza speranza, non c’è nulla a cui aggrapparsi?

A che cosa ti aggrappi? Veramente non lo so. Io mi aggrappo a questi ragazzi a cui da 62 anni vado a scuola a parlare e a raccontare dei campi e della Shoah. E mi aggrappo al dolore.
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