di Marco De Paolis – Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare di Appello – Roma
Quando nel 1961 Hannah Arendt raccontò il processo Eichmann, rese evidente a tutti come il male possa celarsi dietro volti ordinari, obbedienza cieca e routine burocratiche. Ancor più per queste ragioni, quel processo ed altri simili – seppur non esenti da critiche – hanno rappresentato un atto imprescindibile di giustizia, capace di restituire verità e dignità alle vittime.
Marco De Paolis, Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare di Appello di Roma, ci offre una riflessione sulla sua esperienza di procuratore che ha indagato in numerosi procedimenti contro criminali nazisti: un percorso complesso ma fondamentale per affermare la verità giudiziaria e quella storica e restituire giustizia a chi l’ha a lungo attesa.
Il messaggio è chiaro: fare giustizia, anche a distanza di tempo, è un dovere insieme etico e giuridico.
L’esperienza giudiziaria che ho condotto per 16 anni da procuratore militare, tra il 2002 e il 2018 è stata molto particolare, e per alcuni versi straordinaria. Tra i motivi che mi inducono a qualificarla in questo modo vi è senza dubbio la circostanza che essa presenta dei legami, delle forti connessioni con la politica e con la storia.
Si tratta dei processi per crimini di guerra nazisti commessi durante la Seconda guerra mondiale: crimini commessi in Italia contro la popolazione civile e all’estero contro militari italiani prigionieri dei tedeschi.
Il motivo per il quale ne parliamo oggi, nel 2025, è dovuto al fatto che – per motivi del tutto straordinari – molti processi per questi crimini di guerra si sono svolti pochi anni fa, a grande distanza temporale dalla commissione dei fatti, financo a settanta anni da essi.
In Italia, infatti, si è verificata una grave anomalia: è quasi del tutto mancata la giustizia su questi crimini, ed è stato possibile celebrare soltanto un piccolo numero di processi, la maggior parte dei quali con grandissimo ritardo, tra il 1996 e il 2013.

In questa vicenda ci sono due aspetti di grande interesse: il primo è quello attinente al fatto, e cioè i crimini commessi. Numerosissime atrocità e violenze sui civili e sui prigionieri di guerra italiani, rimaste per molto tempo poco conosciute e in molti casi addirittura del tutto ignote all’opinione pubblica. Il secondo aspetto è quello della difficoltà della “risposta” giudiziaria, in Italia, a questi crimini. E cioè, i gravi ritardi o addirittura la totale mancanza di una risposta giudiziaria.
Tutto questo è diventato un problema, una questione politica e storica di grande rilievo nel nostro Paese.
Le difficoltà incontrate dalla giustizia sono dovute a vari fattori: sia giudiziari che politici.
Certamente – più in generale – va riconosciuto che, quello della punizione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, è un problema da sempre presente nella storia dell’uomo e che tuttora si affaccia drammaticamente anche nella nostra ‘civile’ attualità, nonostante i progressi del diritto e della civiltà. Gli esempi non mancano; a tal proposito, per convincersene, basta riflettere su alcuni fra i casi internazionali più noti dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi (si veda il caso di Saddam Hussein o quello dei crimini della ex Jugoslavia).
L’affermazione dei princìpi del diritto internazionale e del diritto umanitario, cioè di quei princìpi nei quali si riconosce la quasi totalità degli Stati, non è sempre cosa facile.
In Italia, furono probabilmente cause politiche ad impedire alla giustizia militare di occuparsi dei criminali di guerra nazisti che devastarono il nostro Paese tra il 1943 e il 1945, durante l’occupazione tedesca dell’Italia. Quindici anni dopo la fine della guerra, infatti, nel 1960, avvenne un fatto assai singolare: l’allora procuratore generale militare presso il Tribunale Supremo Militare (organo giudiziario oggi non più esistente) adottò un provvedimento non previsto dall’ordinamento giuridico (in altre parole, un atto illegittimo). Egli decise di archiviare “provvisoriamente” centinaia di procedimenti sui crimini di guerra senza che ricorressero i presupposti di legge. Così facendo, impedì il compimento delle indagini penali che, invece, sarebbero state obbligatorie.
Si trattò di un occultamento illegale, come fu poi accertato, successivamente, da varie commissioni di inchiesta che si occuparono del caso.
Quindi, in Italia, nessuno si occupò di questi crimini di guerra per parecchio tempo. Poi, nel 1994 – dopo circa trentacinque anni – i fascicoli furono casualmente ritrovati e la giustizia militare riprese ad occuparsene, sebbene – ovviamente – il lungo tempo trascorso avesse di fatto compromesso la possibilità di procedere all’individuazione e alla punizione di moltissimi criminali di guerra.
Iniziò così, verso la metà degli anni Novanta, una particolare e tardiva stagione giudiziaria che è durata fino a pochi anni fa; l’ultimo processo è stato celebrato nel 2013, e ha riguardato la strage di centinaia di ufficiali italiani commessa dalla Wehrmacht sull’isola di Cefalonia, in Grecia, nel settembre 1943. Dal 1996 al 2013 si sono svolti, in Italia, 24 processi su questo tipo di crimini[1].
Le atrocità di cui parliamo possono essere suddivise in due categorie: le stragi commesse in Italia, sulla popolazione civile, e quelle commesse (prevalentemente all’estero) in danno di militari italiani prigionieri di guerra. Le prime, cioè quelle sui civili, furono quasi seimila e provocarono circa venticinquemila vittime. Fra quelle più note ricordiamo la strage di Marzabotto Monte Sole (circa 800 vittime civili, fra cui 216 bambini) e quella di Sant’Anna di Stazzema (circa 400 vittime civili, fra cui 110 bambini). Gli altri massacri, quelli sui militari italiani prigionieri di guerra, commessi prevalentemente all’estero in Grecia, Albania, Germania, Polonia ed ex Jugoslavia, provocarono circa 70.000 vittime.
I processi hanno affrontato varie e importanti questioni di diritto.
Fra le principali, ve ne è una su cui occorre fare una particolare riflessione. Si tratta dell’obbligo dell’azione penale connessa al principio di imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’umanità.
Questo profilo ci riporta al concetto del tempo. La imprescrittibilità del reato costituente “crimine di guerra”.
Sulla base di questo principio è possibile giudicare e punire i responsabili di gravi crimini di guerra e contro l’umanità fino a che essi sono in vita. Anzi, in verità, tale adempimento è doveroso e costituisce un obbligo preciso e indefettibile per i magistrati, che devono procedere sempre, fino a che l’imputato sia in vita.
Il principio svolge, in secondo luogo, anche una funzione di prevenzione, perché costituisce un deterrente verso i criminali: i criminali, cioè, devono sapere che – a prescindere dal trascorrere del tempo – ci sarà sempre qualcuno che li cercherà e che li chiamerà a rispondere dei loro crimini davanti ad un giudice.
Quello del tempo è, in effetti, un profilo particolarmente importante.
Il trascorrere del tempo in assenza di una indagine penale e di un processo incide negativamente non solo sul corso della giustizia, ma anche sulla coscienza civile della comunità statale. E ciò è particolarmente grave allorché – com’è nel caso di crimini di guerra o contro l’umanità – i fatti siano di enorme gravità.
Certamente, i ritardi possono dipendere (com’è ben comprensibile) dalle oggettive e pratiche difficoltà connesse alla particolare complessità dei fatti da accertare. Si possono quindi ben intendere le difficoltà che insorgono allorché occorra svolgere indagini e processi su fatti complessi che avvengono in situazioni eccezionali come la guerra o i conflitti armati e che riguardano soggetti appartenenti a Stati diversi, o che sono commessi all’estero in luoghi lontani dai Paesi dei soggetti coinvolti. Tuttavia, ed è questo il nodo problematico ricorrente in questo genere di vicende, su di esse spesso si inseriscono ostacoli rappresentati dalle interferenze di carattere politico. Le esigenze di ragion di stato che sovente gli Stati oppongono – più o meno palesemente – e che determinano un rallentamento e, spesso, un impedimento al corso della giustizia.
Ecco, allora, che i ritardi e le omissioni nel compimento delle indagini finiscono per incidere pesantemente sul risultato finale dei processi avviati anche sotto un profilo extragiudiziario. Il trascorrere del tempo, infatti, rende sempre meno attuale e attenta la considerazione sociale dei crimini commessi, benché essi siano spaventosamente atroci. E la conseguenza finale è che, nonostante la previsione del principio legale di imprescrittibilità del reato, si finisce poi, in pratica, per porre in discussione l’opportunità o addirittura la stessa necessità di procedere.
Questo è ciò che, in buona sostanza, è avvenuto in Italia con la tardiva stagione giudiziaria sui crimini di guerra nazifascisti commessi durante l’occupazione del nostro Paese (1943-1945).
L’illecito occultamento di centinaia di fascicoli giudiziari compiuto nel 1960 e che ha determinato la tardiva e assai parziale riapertura delle attività giudiziarie su tali fatti, ha compromesso quasi irrimediabilmente l’affermazione dei principi di diritto, lasciando decine di migliaia di cittadini senza risposta e senza giustizia. Il ritardo ha, in pratica, contribuito fortemente a depotenziare, a sminuire la carica di rilevanza che questi fatti, straordinariamente gravi, possedevano. Li ha trasformati in fatti non più attuali, non più meritevoli di attenzione da parte dell’opinione pubblica, ne ha fatto dei fantasmi del passato da confinare esclusivamente in un ambito storico.
Ciò è particolarmente grave. Occorre infatti considerare alcuni aspetti spesso trascurati. Anzitutto, vi è la considerazione che le conseguenze negative di questi crimini sono perpetue. Il danno provocato alle vittime e ai loro familiari non va in prescrizione. Io, come pubblico ministero, ho interrogato circa un centinaio di nazisti e oltre un migliaio di persone offese, cioè, sopravvissuti alle stragi e familiari delle vittime.
Nella mia lunga esperienza di procuratore che ha indagato su centinaia di casi e che ha sostenuto l’accusa in tanti processi contro criminali di guerra, mi ha profondamente colpito la differenza fra le vite di quelle persone: i carnefici, da un lato, che non hanno subìto conseguenze dai crimini che hanno commesso, hanno potuto vivere una vita tranquilla, circondati dagli affetti delle proprie famiglie. Da quegli affetti, cioè, che avevano negato a centinaia di persone. Nessuno ha mai chiesto loro conto dei crimini compiuti.
Dall’altra parte, invece, persone che hanno avuto una vita penosa, terribile, devastata per sempre. Una vita distrutta e stravolta radicalmente.
Non ci deve, dunque, sfuggire la ragione per cui è essenziale che, anche a sessanta o settant’anni di distanza dai fatti, sia giusto e doveroso ricercare i criminali responsabili di simili atrocità per sottoporli ad un processo.
Non si tratta di una persecuzione, ma semplicemente di un doveroso atto di esercizio della giustizia. Non è, infatti, il tempo il ‘padrone’ della giustizia, ma il diritto. Non è il tempo a scandire il corso della giustizia, non è il tempo a stabilire se una persona è colpevole o innocente. È il diritto che ha questo potere. Non si diventa meno responsabili o addirittura irresponsabili di un crimine soltanto perché è trascorso parecchio tempo dalla commissione di esso. Non si ottiene la patente di impunità su crimini del genere soltanto perché, a causa del trascorrere del tempo, è diminuita la percezione di illegalità nell’opinione pubblica. E d’altronde, la vittima, l’orfano, non cessano di essere tali, non dismettono la propria qualità di persone offese, di vittime soltanto perché trascorre del tempo. Il danno, il lutto, sono perpetui, non vanno in prescrizione. Perciò, gli ordinamenti giuridici prevedono, sempre, per questo genere di reati la imprescrittibilità.
Questo concetto andrebbe tenuto sempre in massima considerazione. E non solo per i crimini di guerra ma anche per ogni altro genere di reati gravi.
Vi è poi un ulteriore aspetto, connesso a questo, sul quale riflettere.
È la necessità, imprescindibile, inderogabile, di fare tutto ciò che è possibile fare per assicurare sempre e comunque l’affermazione dei principi di diritto.
Anche su questo profilo risulta determinante il ruolo assunto in questi processi dalle persone offese dal reato: i sopravvissuti ai massacri e i familiari delle vittime, presenti nei processi come parti civili, singolarmente o come associazioni.
Per motivi intuibili, durante il corso delle indagini e dei processi era normale che, fra i familiari, si nutrisse qualche serio dubbio in ordine alla possibilità concreta di pervenire alla esecuzione delle pene in caso di condanna, a causa dell’avanzata età degli imputati e delle peculiari condizioni di salute di alcuni di loro.
Ebbene, pur tenendo ben presente questa difficoltà – e quindi, anche al di là della possibilità di poter eseguire concretamente le sentenze di condanna – è stato molto importante per le parti civili, per i familiari delle vittime, ottenere un formale accertamento giudiziario di ciò che accadde. E, insieme ad esso, anche una affermazione di responsabilità penale per i colpevoli.
Questo aspetto è stato fondamentale per i sopravvissuti e per i familiari. Infatti, ottenere un riconoscimento formale da parte di un organo dello Stato, da parte di un’istituzione pubblica era per loro di vitale importanza poiché sanciva ufficialmente, formalmente, l’illegalità e la criminosità di quanto compiuto dai nazisti. In mancanza di ciò, vale a dire se non ci fosse stata una sentenza penale di condanna, sarebbe mancata la possibilità di qualificare tale illegalità di fronte alla gente, all’opinione pubblica, la quale avrebbe potuto essere manipolata o disorientata da una qualsiasi tesi negazionista. Senza una pubblica e formale sentenza di un organo giudiziario dello Stato, si sarebbe potuto (e si potrebbe) ricostruire diversamente i fatti; essi avrebbero potuto essere deformati, depotenziati o addirittura confutati fino alla loro negazione. O, più semplicemente, giustificati.
Ecco allora l’importanza fondamentale dei processi, della giustizia, anche se tardiva.
Al di là del dovere giuridico di esercitare l’azione penale, l’esercizio della giurisdizione ha contribuito a fondare le basi morali, oltre che giuridiche, su cui poggiano i processi penali per crimini di guerra nazifascisti che sono stati tardivamente celebrati in Italia.
È così, dunque, che si manifesta la risposta al quesito, che spesso viene posto, circa il senso di un processo che intervenga a così tanta distanza temporale dai fatti.
Benché sarebbe sufficiente ricordare semplicemente che, per legge, si tratta di crimini imprescrittibili, con il conseguente obbligo legale di procedere fino a che sia in vita anche uno solo dei responsabili, c’è innanzitutto una considerazione di carattere morale: rinunciare ad accertare la responsabilità penale nei confronti di persone che si sono macchiate di crimini così orrendi costituirebbe un’offesa intollerabile alla memoria delle vittime e alla dignità dei loro familiari.
In secondo luogo, l’accertamento giudiziario mette al riparo dal pericolo del “negazionismo”. Esso, cioè, evita che qualcuno possa negare la realtà dei crimini compiuti attraverso ricostruzioni storiche false. È importante che la realtà storica dei fatti sia sempre garantita dal sigillo della giustizia, anche se essa dovesse intervenire molti anni più tardi.
È in queste ragioni che risiede il fondamento etico dei processi penali ai criminali di guerra, a prescindere dalle loro origini o provenienze e a prescindere dall’epoca storica nella quale i fatti si collochino.
[1] Chi scrive è stato il pubblico ministero che ha istruito 17 di questi 24 processi.