C’è qualcosa dopo la società dei consumi? La via della generatività sociale

di Mauro Magatti

A partire dalla metà del XX secolo, l’homo consumens ha monopolizzato l’immaginario della libertà. La centralità del consumo è andata di pari passo con la svalutazione del lavoro, sempre più instabile, mal pagato e frammentato e perciò sempre meno in grado di farsi parte costitutiva dell’identità personale.

Criticare la passività che tale configurazione produce sulla vita delle persone è un primo passo. Ma non basta. Per andare oltre, è necessaria un’idea più creativa di libertà, capace di riflettersi sull’intera organizzazione sociale. È nel modo in cui è capace di «mettere al lavoro» la libertà umana che qualunque società – compresa quella «dei consumi» – costruisce le proprie fortune.

Non è stato il capitalismo ad avere inventato il consumo. L’uomo da sempre è stato consumatore. Consumare, infatti, è una attività antropologicamente originaria, che ha a che fare con la capacità umana di stabilire una relazione intima con la realtà circostante. La bellezza del consumare – attività che ha una profonda valenza sociale, comunicativa e comunitaria – è quella di farci «toccare» quella realtà che tende invece a sfuggirci.

Semmai, nella sua fase matura, da quando cioè ha capito che il lavoro non bastava più a sostenere la crescita, il capitalismo si è impossessato della capacità di consumare, costruendovi attorno un intero modello sociale. La società dei consumi non è un evento naturale, una necessità della natura umana, il frutto di un’evoluzione inevitabile del cammino di sviluppo. Si tratta, invece, di un progetto sociale pensato già alla fine dell’ottocento, ma pienamente attuato solo dopo la seconda guerra mondiale.

Parlare di generatività diventa possibile nel momento in cui si riconosce che abbiamo bisogno di fare un passo in avanti, al di là della società dei consumi. Obiettivo possibile se pensiamo l’essere umano come capace non solo di inglobare in sé, di «mettere dentro» (attraverso, appunto, il consumo), ma anche di esternare, di «mettere fuori», attraverso tutte le forme del creare, del lavorare, del produrre, dell’agire che, nel loro significato antropologicamente più ampio, sono riconducibili al generare.

Esattamente come nel caso del «consumare», anche il movimento del «generare» è un atto antropologico originario, che da sempre definisce l’essere umano. Non si tratta dunque di inventare nulla di nuovo, né di contrapporre un termine con l’altro. Piuttosto, si tratta di riconoscere un certo modo di essere dell’umano, di valorizzarlo e di creare le condizioni per poterlo esprimere pienamente e liberamente. Avendo chiaro che parlare di «generatività sociale» non vuol dire svalutare il consumo. L’obiettivo è semmai quello di superare gli eccessi consumeristici, rafforzando il movimento complementare: «mettere fuori» e non solo «mettere dentro»; «escorporare» e non semplicemente «incorporare», dare non solo prendere.

Etimologicamente, «generare» è collegato a tutta una serie di termini come generosità, genialità, genitore, genesi’, gente, genuino, originale, ingegni: parole e concetti che condividono la radice gen. Questa radice latina esprime l’idea di qualcosa che «viene alla luce», «germoglia» e che è capace di durare nel tempo lasciando un segno, fino a creare una tradizione (come nel caso di una gentes, cioè di una famiglia). La stessa parola «felicità”» deriva dal latino fecundus, che indica appunto la capacità della vita di generare altra vita. «Ciò che è vivo dà frutto», scriveva Friedrich Schelling. E per capire se una pianta è viva o morta guardiamo se anche da rami apparentemente secchi riesce a spuntare qualche nuovo germoglio.

Ma ancora più espressiva è la radice greca. Il gen latino, infatti, viene dal verbo greco gignomai, che significa essere, far essere, far accadere. Ecco dunque un’indicazione fondamentale: originariamente, «generare» indica, ancora più e meglio della parola «agire» (che venendo dal verbo ago indica il   condurre, portare a termine, sottolineando così l’aspetto realizzativo), la capacità del mettere al mondo, del far accadere, come capacità qualificante l’essere umano. Ben al di là dell’aspetto biologico (il mettere al mondo un figlio), «generare» è ciò che «facendo essere ci fa essere».

Il problema è che oggi, nella cultura iperindividualistica e tecnocratica nella quale viviamo, facciamo una gran fatica a riconoscere la portata antropologica del termine «generare» (come gignomai). La modernità, infatti, ha da una parte intuito il punto (mettendo al centro della propria dinamica proprio l’iniziativa individuale); dall’altra lo ha profondamente distorto, riducendo il generare al solo fabbricare, cioè al realizzare uno scopo materiale in modo sempre più efficiente e standardizzato.

«Generare», dunque, non è l’effetto di un imperativo morale. Al contrario, esso è espressione di quell’energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, alla ricerca di un senso, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda. Generare tende a instaurare un circolo virtuoso, in cui ciascuno raggiunge la soddisfazione personale mentre arricchisce il contesto sociale. Un gioco a somma positiva da cui tutti, in una certa misura, escono avvantaggiati: chi agisce – diventando «autore» a tutti gli effetti della propria vita –, e il contesto circostante – che beneficia del lavoro di ricostituzione del legame sociale che tende sempre a spezzarsi.

L’origine del termine «generatività» è nella psicologia. Fu infatti negli anni cinquanta che Erik H. Erikson, all’interno della cornice di una concezione evolutiva della personalità umana, definì la generatività come una forma di realizzazione di sé in cui un soggetto attivo e creativo, in sintonia con il dinamismo della vita, offre un contributo all’ambiente circostante capace di favorire l’autorealizzazione altrui.

Erikson descriveva l’esistenza individuale come una sequenza (né lineare né automatica) di diverse fasi che segnano la graduale trasformazione del soggetto, il quale da «fruitore», diventa «fornitore» di cura. Il problema è che l’ingresso in ciascun nuovo stadio di questa evoluzione non è un passaggio né semplice né indolore. Al contrario, esso comporta sempre una «crisi», cioè la necessità di decidere tra progresso e regressione. 

Ogni fase di questa trasformazione è segnata dal dilemma tra «generatività» e «stagnazione» (o auto-assorbimento): dopo la lunga stagione della sperimentazione continua e della centratura sull’io associata alla giovinezza, viene il momento in cui il raggiungimento della felicità è subordinato alla capacità di instaurare un’interazione positiva tra l’io e il contesto circostante. Ecco perché, per Erikson, la generatività coincide con quella condizione in cui l’espressione di sé prende la forma di un contributo sensibile al contesto circostante e alle future generazioni.

 Soltanto se e quando supera un orientamento incentrato solo su sé stesso, il soggetto diventa in grado di aprirsi e di interagire positivamente con ciò che lo circonda, all’interno di una cornice intersoggettiva e intergenerazionale.

La pienezza del nostro essere liberi implica, secondo Erikson, divenire capaci di generare non solo biologicamente ma anche, e in senso più ampio, simbolicamente: essere in grado, cioè, di portare qualcosa di nuovo nel mondo entro una dinamica processuale che arricchisce tanto il soggetto quanto il contesto circostante.

Comportando la decisione e la responsabilità di far nascere o rivitalizzare ciò che ci circonda o che abbiamo ereditato, la generatività stabilisce così un nuovo legame con la realtà e le sue sfide. Da questo punto di vista, la generatività comporta un’idea di libertà irriducibile alla scelta tra diverse opzioni possibili: scegliere non è che il primo (e neppure il più importante) passo di un processo ben più complesso. La libertà, quando diventa generativa, comporta infatti creatività, rischio, affezione, dedizione, attivazione, resilienza, proiezione verso il futuro.

Di fronte ai tanti problemi che la fase storica alla nostre spalle ci lascia in eredità, è allora necessario aprire una nuova stagione storica nella quale la prosperità non si riduca all’aumento quantitativo (e perciò ripetitivo) delle possibilità tra cui scegliere (aprendo così un enorme spazio all’eccesso come via di fuga), il primo passo è dunque culturale. Si tratta, cioè, di ripensare la nostra libertà, superando lo schiacciamento sul consumo e sull’aumento puramente quantitativo delle possibilità di scelta che si è affermato soprattutto a partire dal secondo dopoguerra.

Per risolvere i problemi che abbiamo davanti – innescare un nuovo modello di sviluppo sostenibile, rinsaldare la democrazia, combattere l’ingiustizia, l’indifferenza, la solitudine – il concetto di libertà non può essere ridotto al suo significato negativo, ovvero al movimento del «liberarsi da»; né basta l’idea di libertà come scelta tra il maggior numero di opzioni possibili (tutte equivalenti, e di fatti già predisposte).

Una volta che le persone sono state liberate dall’oppressione e dalla tirannia, si apre la sfida della «libertà positiva», ovvero del «motivarsi verso qualcosa», assumendo la responsabilità verso il mondo come sorgente di creatività e autorealizzazione. Una questione che da sempre accompagna la riflessione sulla libertà e che oggi è quanto mai urgente riproporre ricordando – come scriveva John Stuart Mill, uno dei grandi teorici della libertà – che «sono felici solo coloro che hanno la mente fissata su qualcos’altro che la propria felicità: la felicità degli altri o il miglioramento dell’umanità».

Come all’inizio del XX secolo ci fu chi fu capace di vedere la centralità del consumo per fare evolvere l’economia della società di quel tempo – visione da cui derivarono tutte quelle forme istituzionali che hanno reso possibile la società dei consumi (la stabilità del posto di lavoro, la pubblicità, le ferie retribuite, il credito al consumo ecc.) – così oggi abbiamo il compito di immaginare nuove modelli organizzativi, nuove forme di partecipazione alla vita dei territori, nuove modalità di educazione e formazione che rafforzino per rendere plausibile questo nostro modo di essere nel mondo. Non una semplice conservazione di ciò che c’è, ma una diversa idea di futuro e di prosperità, in grado di comporre il desiderio di più vita con la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale.

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