“Durante lo shabbat per gli ebrei è vietato fare tutto”; questa opinione, ancora piuttosto diffusa, è in realtà completamente sbagliata. Inoltre dà l’idea di un giorno triste, passato a districarsi tra mille divieti. Lo shabbat è invece per chi lo rispetta innanzitutto un giorno di festa, celebrato secondo delle modalità ben definite e scandito da vari momenti. In una serie di “pillole”, scopriamo insieme come viene festeggiata questa “regina dei giorni della settimana”; regina, sì, perché in ebraico lo shabbat è femmina!
Le candele
È venerdì pomeriggio e il sole è ormai basso; la festa sta per cominciare! Lo shabbat, considerato sposa e regina della creazione, “entra”, così si dice, poco prima del tramonto del sole. Viene accolto così come si accoglierebbe la visita di una regina; la casa deve essere ben pulita e ordinata, e i membri della famiglia indossano i loro abiti migliori. Per festeggiare l’ingresso dello shabbat si devono accendere alcune candele, pronunciando una particolare benedizione. Al tempo in cui i Saggi plasmarono l’ebraismo così come viene praticato oggi, le case erano illuminate con candele o lumi a olio.
Dal momento che la Bibbia proibisce di accendere fuochi durante Shabbat, i Saggi prescrissero di accenderle subito prima di Shabbat per evitare di trovarsi a consumare il pasto di Shabbat al buio; in fondo, si suppone che Shabbat sia piacevole, e stare seduti al buio potrebbe non esserlo affatto.
Le candele vengono accese a un orario ben preciso, diciotto minuti prima del tramonto: in ogni comunità ebraica vengono diffusi gli orari giusti per ogni settimana. Il compito di accendere, aumentando così la luce nel mondo, è riservato alle donne di casa; un uomo può farlo solo se non ci sono donne presenti. Si usa in genere accendere due candele, in corrispondenza delle due volte in cui nella Torà, con una lieve differenza di formulazione, viene prescritto il precetto dello shabbat all’interno dei Dieci Comandamenti. Una per il versetto Ricorda (zakhòr) il giorno di shabbat per santificarlo (Es. 20:8) e una per il versetto Osserva (shamòr) il giorno di shabbat per santificarlo (Deut. 5:12). Secondo la tradizione ebraica, il popolo di Israele al monte Sinai udì entrambe le parole zakhòr “ricorda” e shamòr “osserva” contemporaneamente, come detto anche nei Salmi: “Una parola ha detto il Signore, due ne ho udite” (Sal. 62:12). Ciò sta a indicare che l’ebraismo è fatto sia di teoria (studio, concetti, etica e filosofia) che di pratica (il compiere i precetti), entrambe necessarie e inseparabili. In alcune case si usa accendere più di due candele, a volte una per ogni componente della famiglia. Quando la donna ha acceso le candele, la regina shabbat è in casa e il giorno sacro è cominciato.

La qabbalàt shabbàt
Il venerdì pomeriggio, poco prima del tramonto, ci si riunisce in sinagoga; compito che spetta soprattutto agli uomini, per la necessità di garantire il minyàn (il numero minimo di dieci maschi adulti, necessario affinché possa svolgersi la preghiera collettiva). Le facce dei frequentatori lasciano trasparire la stanchezza della settimana, e al tempo stesso il ristoro per essersi lasciati alle spalle gli affanni e i pensieri; con l’arrivo dello shabbat, un rilassamento improvviso coglie le persone e la fatica accumulata nella settimana si fa sentire tutta insieme, allentando le tensioni e facendo si che le emozioni traspaiano più del normale! La normale preghiera serale il venerdì è preceduta, per accogliere lo shabbat con onore, da un insieme di canti speciali, chiamati appunto qabbalàt shabbàt, “accoglienza dello shabbat”, che il pubblico intona con trasporto.
Si tratta principalmente di una serie di Salmi, tra cui spicca però un canto intitolato Lekhà dodì, “Vieni, amore mio” (ma le parole ebraiche potrebbero però anche essere tradotte “per te è il mio amore”); un inno cantato in pressoché tutte le comunità che per molti è il vero cuore della qabbalàt shabbàt.

Esso fu composto nel ‘500 da Shelomo Alkabetz, appartenente alla cerchia dei cabalisti della cittadina di Safed in Galilea; all’epoca un importantissimo centro mistico, il cui pensiero ha influito enormemente sull’ebraismo degli ultimi cinque secoli. Secondo loro, i precetti dell’ebraismo hanno lo scopo di “riparare il mondo”, pian piano preparandolo all’epoca del Messia. Il venerdì sera, i mistici di Safed si vestivano di bianco, come sposi, danzando gioiosamente nei campi fuori dalla città per accogliere lo shabbat, descritto come sposa e regina. Lekhà dodì fu rapidamente adottato nella stragrande maggioranza delle comunità ebraiche, e oggi è cantato con più di duemila melodie. Quando si canta l’ultimo versetto, che contiene le parole “vieni, o sposa”, il pubblico si gira verso la porta della sinagoga inchinandosi; da questo momento per gli uomini presenti in sinagoga è ufficialmente iniziato lo shabbat. Terminate le preghiere, si esce dal tempio e (in genere passeggiando e chiacchierando con chi fa la stessa strada) si va a casa a godersi la famiglia e il riposo.
Il qiddùsh
Nell’ebraismo, la sfera fisica e quella spirituale sono legate tra loro in maniera inseparabile. Ecco quindi che anche le attività quotidiane, tra cui il mangiare, possono diventare atti sacri. Nel tempo sacro dello shabbat, prima di consumare i pasti si compie dunque una cerimonia detta qiddùsh, “santificazione”. Secondo l’ebraismo, la qedushà (“santità”) consiste essenzialmente nella distinzione da ciò che è normale o ordinario. Il qiddùsh ha proprio lo scopo di rendere il pasto di shabbat distinto, speciale, santo. Si prende e si riempie un bicchiere di vino e si recita un breve brano in ebraico.
Questo brano viene sempre cantato, e ogni comunità ha la sua particolare melodia. In esso si ricorda innanzitutto che il Signore, dopo aver creato il mondo in sei giorni, il settimo giorno si riposò; dopodiché vengono recitate due benedizioni per ringraziare il Signore: nella prima per aver creato il frutto della vite, e nella seconda per aver concesso lo shabbat. Terminate le benedizioni, i commensali bevono il vino. Dopodiché, prima di iniziare il pasto vero e proprio, si benedicono e si mangiano due pani speciali chiamati challòt (di cui faremo la conoscenza più avanti). Il qiddùsh viene recitato prima della cena del venerdì sera e poi, con un testo leggermente diverso, prima del pranzo del sabato. La cerimonia del qiddush ci ricorda alcuni dei temi principali dello Shabbat: si menzionano la creazione del mondo e il riposo di Dio dall’opera di creazione, ma anche l’uscita dall’Egitto; inoltre si insiste sul concetto di amore: lo shabbat è donato con amore e con amore (verso se stessi, i propri familiari, tutti gli altri e tutto ciò che ci circonda) va vissuto.

Le challòt
Una presenza immancabile sulla tavola di shabbat è quella di due pani speciali detti challòt (al singolare challà). Si tratta di un pane a forma di treccia, in genere molto soffice e lievitato e appena appena dolce, a volte arricchito e decorato, preparato espressamente in onore dello shabbat. Nelle famiglie ebraiche vengono preparate di preferenza in casa; quando ciò non è possibile, si usano challòt comprate. L’intreccio delle challòt riprende la metafora nuziale: allude alle corone di fiori che venivano offerte alle spose. Tuttavia, rappresenta anche concetti più profondi, come il fatto che nel nostro mondo le cose sono separate ma allo stesso tempo tutto è profondamente interconnesso e intrecciato (l’uomo e la natura, la materia e lo spirito, lo shabbat e gli altri giorni, Israele e gli altri popoli, solo per fare qualche esempio); le challòt sono due per ricordare il fatto che, quando gli antichi israeliti si trovavano nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto e venivano alimentati con la misteriosa manna caduta dal cielo, il venerdì scendeva una doppia razione di manna affinché non dovessero raccoglierla durante lo shabbat.
Le challòt vengono messe in tavola coperte e così rimangono durante il qiddùsh, fino al momento in cui vengono benedette e mangiate. Secondo alcuni la copertura ricorda lo strato di rugiada che nel deserto copriva la manna scesa dal cielo; secondo altri, invece, il pane viene coperto affinché, mentre si pronunciano le benedizioni sul vino, non si “offenda” perché al vino è stata data la precedenza.
Il nome challà, poi passato a denominare l’intero pane, in realtà ne indicava in origine solo una parte; si trattava di una porzione che veniva prelevata dall’impasto principale e donata ai sacerdoti in servizio nel Tempio di Gerusalemme (nella nostra epoca, in cui non vi è il Tempio, l’impasto prelevato viene bruciato o reso inservibile in altro modo), come prescritto nella Torà (Num. 15:17-21), dove è scritto “il principio dei vostri impasti, la challà, offrirete”. La parola “principio”, in ebraico reshìt, è la stessa di Bereshìt, “in principio”, parola con cui la Torà comincia narrando della creazione del mondo. Scrive rav R. Di Segni: “Una delle possibili spiegazioni di questo accostamento è che nel momento in cui si preleva la challà si ricorda che il mondo è stato creato e chi l’ha creato, e quindi si trasforma e si innalza il senso di una azione che potrebbe avere un semplice scopo alimentare, come quella dell’impasto del pane, ad un atto profondamente religioso”. Il precetto di prelevare la challà spetta alle donne, così come quello di accendere le candele. Se il prelievo della challà ricorda la creazione del mondo, tramite questo precetto sono le donne a riportarlo metaforicamente a una purezza primigenia: non a caso, nel brano biblico che prescrive la challà è utilizzata la parola tarìmu, qui tradotta “offrirete” ma che in realtà significa “eleverete”. Tornando con i piedi per terra, la challà è in genere molto apprezzata, e rapidamente divorata, dai commensali affamati.

La ricetta
Ingredienti
500gr. di farina
20gr. di lievito di birra
1 cucchiaino di sale
3 cucchiai d’olio
Mezzo cucchiaio di zucchero
30gr. di semi di anice da mettere nell'impasto
1 cucchiaino di semi di papavero o sesamo per decorare la superficie
1 rosso d'uovo per lucidare la superficie
Preparazione
Mettete quasi tutta la farina in una ciotola capiente (lasciatene indietro un cucchiaio).
In una più piccola sciogliete il lievito con acqua tiepida, un cucchiaino di zucchero ed un cucchiaio di farina, fino a che risulti un impasto cremoso, quasi liquido.
Fate un incavo centrale nella farina nella terrina e poneteci la terrina piccola dentro. In questo modo il lievito starà al caldo e quando traboccherà dalla ciotola, andrà a finire nella farina.
Coprite il tutto e mettetelo in un luogo tiepido.
Dopo poco più di mezz’ora vedrete il lievito crescere e diventare come una spuma; allora versate
tutto su un piano infarinato, unite il sale, l’olio, i semi d’anice lo zucchero e impastate bene in
modo da ottenere un impasto liscio e morbido. Aggiungete acqua finché necessario.

Dividete la pasta in due pezzi uguali per farne due pani. Di ognuno di questi pezzi fatene tre parti uguali. Poi fatene tre salamini (vanno poi intrecciati) con le estremità un po' appuntite.
Disponeteli sulla placca del forno, che avrete precedentemente coperto con la carta da forno, ed intrecciate i due pani.

Lasciate le trecce a lievitare al caldo per un’altra mezz’ora e spennellateli con l’uovo. Se avete previsto di decorare coi semini, questo è il momento di aggiungerli. Grazie all’uovo, resteranno ben attaccati alle challòt.
Infornate a forno molto caldo a 200°; dopo cinque minuti abbassate la temperatura a 180° e lasciate cuocere ancora per 40 minuti.

Sfornatele quando sono ben dorate.
Il cibo e i pasti
È prescritto di festeggiare lo shabbat innanzitutto consumando dei pasti festivi. Ma come fare se durante lo shabbat è assolutamente proibito cucinare? Tutto viene preparato rigorosamente prima dell’inizio della festa. Il venerdì (e spesso anche il giovedì) le cucine ebraiche sono in subbuglio, mentre in una sorta di corsa contro il tempo vengono preparati i manicaretti che allieteranno la festa. La necessità di non cucinare di shabbat, in un’epoca in cui non esistevano frigoriferi o modi per riscaldare il cibo, ha fatto sì che nella cultura ebraica si sviluppasse nel tempo una vera e propria cucina ben specifica per il giorno festivo. Cotture lunghe e lente, uso dell’agrodolce per conservare i piatti per il giorno dopo, pietanze buone anche da fredde: tutto questo, e molto altro, forma parte della cucina di shabbat! Il tutto ovviamente secondo la comunità di appartenenza e gli ingredienti disponibili nel paese di residenza. Così, ad esempio, per gli ashkenaziti (gli ebrei originari dell’Europa orientale) il piatto tipico è il cholent: uno stufato di carne, fagioli, cereali, patate e uova sode, che anticamente si lasciava a cuocere sulle braci tutta la notte (in effetti il nome cholent sembra venga dal francese chaud lent, “caldo lento”). Gli ebrei di origine libica (in Italia ne abitano molti), dal canto loro, si tramandano i piatti del loro luogo di origine; per esempio il hraimi, trance di pesce cotte in un sugo piccante e speziato, o il re delle tavole nordafricane: il cuscus. Anche gli ebrei italiani, nel Belpaese da duemila anni, hanno le loro specialità, diverse secondo la città di origine; nelle case degli ebrei piemontesi era tipico il bollito, presso gli ebrei veneziani il pesce, mentre per i romani non potevano mancare lo stracotto di manzo al sugo e la concia (zucchine fritte marinate con aceto).
Il pranzo e la cena di shabbat sono però più di un semplice pasto; si tratta di un rituale vero e proprio. Ricordiamo che nell’ebraismo, come già visto, la sfera fisica e quella spirituale sono inscindibili. Ecco dunque che i pasti sono preceduti dal qiddùsh e seguiti dalla birkàt hamazòn, “benedizione del pasto”: una lunga benedizione cantata allegramente dopo aver finito di mangiare. Esiste anche un ricco patrimonio di canti da intonare alla tavola festiva. La legge ebraica prescrive in realtà di consumare tre pasti, e non due, durante lo shabbat. È quindi sorto l’uso della se‘udà shelishìt, “terzo pasto”; una specie di merenda da fare nel pomeriggio di sabato, spesso in sinagoga accompagnandola con insegnamenti di Torà. Spesso, alla fine di uno shabbat, si pensa che è incredibile quanto cibo si sia riusciti a mangiare in quel giorno! In effetti quella ebraica è una cultura in cui si presta un’estrema attenzione all’alimentazione: vi sono regole precise su cosa si può e non si può mangiare (o su cosa si può mangiare, ma mai insieme a una certa altra cosa!), il nutrirsi è visto come un atto spirituale e solennizzato con le benedizioni pronunciate, e ogni festa viene celebrata con i suoi piatti tipici; non c’è dunque da stupirsi che gli ebrei siano spesso dei veri e propri cultori (a volte fino a rasentare la maniacalità) della buona tavola!

I divieti
Quello che molti pensano è che di shabbat gli ebrei non possano fare nulla; oppure non possano fare nulla di faticoso; o ancora, che non possano fare nulla di non legato all’ebraismo; addirittura, che se qualcuno si sente male l’aiutarlo costituisca una trasgressione. Niente di più falso. In realtà, di shabbat è vietato fare una serie di cose ben precise, che hanno generalmente in comune la caratteristica di essere azioni che intervengono nella realtà, modificandola. La lista è piuttosto lunga: si tratta di 39 tipi di azioni (in ebraico chiamati melakhòt, singolare melakhà) principali, e da ognuno di essi se ne ricavano e derivano altri. In effetti, durante lo shabbat si cerca di influire il minimo possibile sulla realtà che ci circonda; per un giorno si cerca non più di modificare le cose a nostro vantaggio, ma di essere in armonia con il mondo. Solo per fare qualche esempio, è vietato: accendere, alimentare o spegnere un fuoco; cucinare; tingere; cucire; strappare; seminare; spremere; scavare…e tanto altro. Non si possono usare l’automobile o il telefono, e nemmeno il denaro, e non si può trasportare nulla che non si stia indossando. Il risultato è una giornata di distacco, in cui si ridiventa esseri umani “al naturale”; si arriva dove possono arrivare i nostri piedi, se si rompe qualcosa si sistemerà dopo, e è temporaneamente bandita l’idea di comprare o vendere. La normativa riguardante le azioni proibite è ampia e complessa. Ma perché tutto ciò? La risposta è nella Torà, e in particolare nell’uso del termine melakhà. Questa parola particolare per indicare “opera” o “lavoro”, che non è quella usata di consueto, compare in due importantissimi brani biblici.
Il primo è quello che descrive la Creazione del mondo, in cui è detto: Nel settimo giorno Dio aveva completato l’opera Sua che aveva fatto, così nel settimo giorno cessò da tutta la Sua opera che aveva compiuto (Gen. 2:2). Il secondo brano in cui il termine compare è quello relativo alla costruzione del Tabernacolo di Mosè, il “Santuario mobile” che accompagnava gli antichi ebrei nelle proprie peregrinazioni nel deserto: Dispose il cortile intorno al Tabernacolo e all’altare, collocò la tenda d’ingresso all’atrio; e così Mosè terminò tutta l’opera (Es. 40:33). Nel resto della Torà, la parola melakhà compare per indicare i lavori proibiti nello shabbat e nelle feste, come ad esempio nei Dieci Comandamenti: Durante sei giorni lavorerai e farai ogni tua opera. Ma il settimo giorno […] non farai alcuna opera, né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bestiame né il forestiero che si trova nelle tue città (Es. 20:9-10). Insomma, il termine viene utilizzato in tre ambiti: la Creazione del mondo, il Tabernacolo e lo shabbat. Combinando queste informazioni, i Maestri decretarono che le opere proibite durante shabbat erano quelle compiute per costruire il Tabernacolo, che a sua volta simboleggiava un microcosmo della Creazione. Complicato? Beh…gli ebrei amano le cose difficili. Va infine ricordato che è non solo permesso, ma assolutamente doveroso trasgredire lo shabbat se questo può servire a salvare una vita umana, anche se il rischio è davvero minimo.

La sinagoga
“Sinagoga” è un termine greco che indica il “portare insieme” o “riunire”. Traduce l’espressione ebraica bet hakenèset, letteralmente “casa di riunione”. La sinagoga è dunque innanzitutto un posto dove riunirsi e stare insieme. In Italia, al tempo dei ghetti, era chiamata “scola”, così come in yiddish (la lingua, derivata dal tedesco, parlata dagli ebrei dell’Europa orientale) è denominata shul: la seconda caratteristica importante della sinagoga è che è un luogo dove si impara qualcosa. In genere non si tratta di un luogo sacro in sé e per sé; può essere anche una qualunque sala, e il fattore che la rende speciale è la presenza dei sefarìm, i rotoli sacri della Torà, custoditi in uno speciale armadio detto aròn haqòdesh, “arca santa”…insieme alla gente che la frequenta! È alla sinagoga che ci si reca il sabato mattina per partecipare alle preghiere. La liturgia è lunga (circa tre ore; in Italia in genere si comincia verso le nove di mattina e si finisce intorno a mezzogiorno); innanzitutto viene recitata, facendola precedere da numerosi brani introduttivi, la preghiera mattutina detta shachrìt, ripetendola poi ad alta voce per chi non è in grado di recitarla individualmente. Successivamente si passa al momento centrale della mattinata; dall’aròn haqòdesh viene estratto il sèfer Torà (il rotolo della Torà), che viene portato in processione per la sinagoga accompagnandolo con canti. Il rotolo viene poi aperto e mostrato al pubblico, dopodiché viene letta la parashà (brano) settimanale. La Torà è stata divisa in vari brani in modo che ciascuno di essi fosse letto in uno degli shabbat dell’anno, così da completare in un anno un ciclo di lettura di tutta la Torà. Perché il rituale sia valido, è necessario leggere la parashà non da un normale libro stampato, ma da un sèfer in pergamena scritto a mano da uno scriba specializzato.
È necessaria molta esperienza per recitare la parashà leggendo dal sèfer, poiché in esso non sono riportate le vocali (che in ebraico non sono lettere ma una sorta di punteggiatura aggiunta alla parola), né la fine di ogni versetto, né i te‘amìm, “sapori”, segni che servono a indirizzare la recitazione, a metà tra indicazioni musicali e segni di punteggiatura. Dopo la lettura del sèfer, in genere ha luogo un discorso basato su insegnamenti contenuti nella parashà della settimana, detto derashà “studio, interpretazione” o devàr Torà, “parola di Torà”. In conclusione, si recita un’ulteriore preghiera detta musàf, “aggiunto”, in corrispondenza di un sacrificio addizionale che veniva offerto ogni sabato nel Tempio di Gerusalemme. Rispetto a una messa cristiana, si può dire che la liturgia ebraica sia in generale più “interattiva”: sono gli stessi partecipanti, e non un sacerdote, a compiere i vari passi della cerimonia, spartendosi i compiti da svolgere. Anche l’atmosfera in sinagoga non è così formale come ci si potrebbe aspettare (anche se dipende da quale sinagoga!): non c’è l’abitudine di parlare a bassa voce, e è normale scherzare tra i partecipanti anche durane i momenti più solenni (ma sempre con rispetto). Molti poi vengono qui per ritrovare gli amici e i conoscenti, e anche per fare quattro chiacchiere.

Fatto che provoca puntualmente i rimproveri dei frequentatori più seri (va detto che a volte il brusio diventa così forte da rendere difficoltosa l’esecuzione dei rituali!). Abitualmente, i bambini sono lasciati liberi di giocare come vogliono e scorrazzano qua e là. A conclusione delle cerimonie in genere viene offerto un rinfresco costituito da panini e dolcetti, preceduto dalla recitazione del qiddùsh su un bicchiere di vino. È un modo per far compiere a tutti il precetto di benedire il cibo; sgranocchiando qualcosa prima di pranzo si chiacchiera e si rinsaldano le amicizie, per poi recarsi a casa a consumare il vero e proprio pasto.
L'havdalà
Lo shabbat si considera terminato quando è notte, ossia quando nel cielo sono apparse le prime tre stelle abbastanza evidenti. È allora che ha luogo la cerimonia dell’havdalà, letteralmente “distinzione”. La famiglia si riunisce intorno a un tavolo e vengono recitate quattro benedizioni: la prima su un bicchiere di vino (quante cose, diceva il teologo Paolo De Benedetti, nell’ebraismo cominciano davanti a un bicchiere!); la seconda annusando delle spezie o erbe profumate; la terza accendendo una speciale candela intrecciata e guardandosi le unghie illuminate dalla sua luce; e nella quarta, non legata a un oggetto materiale, si ringrazia il Signore per aver distinto tra il sacro (lo shabbat) e il profano (il resto della settimana).
Secondo il pensiero mistico ebraico, durante lo shabbat si acquisisce un “pezzettino” di anima in più, detto neshamà yeterà, “anima aggiuntiva”; essa ci abbandona alla fine del giorno di festa, fino alla settimana seguente. Annusare i profumi ha appunto la funzione di consolare il nostro spirito, triste perché l’anima aggiuntiva è appena andata via. L’accendere invece la luce, dopo un giorno in cui non abbiamo potuto farlo, è forse reminiscenza del tempo in cui dopo lo shabbat si accendevano nuovamente i fuochi necessari per la casa; essa ricorda tuttavia anche che secondo le fonti rabbiniche accendere il fuoco fu il primo atto compiuto da Adamo alla fine del primo shabbat vissuto dal mondo.
Con la fine della festa, si racconta, il primo uomo era preso da tristezza e sconforto: il Signore gli concesse allora di poter accendere un fuoco per riscaldarsi e rincuorarsi, e Adamo sentì il bisogno di pronunciare una benedizione di ringraziamento. In una casa ebraica religiosa tutto ruota attorno allo shabbat: i cibi migliori, i canti più gioiosi, la compagnia, l’attenzione dei genitori verso i figli e tutto ciò che colpisce e rallegra i loro cuori si ritrova insieme in queste ventiquattro ore. Ma il momento più toccante della giornata è forse la sua conclusione; quando la famiglia riunita dà l’addio alla festa con il rito dell’havdalà. La luce della torcia che illumina la buia stanza, il vino ed i profumi sarà l’ultima immagine dello shabbat che rimarrà nel cuore e negli occhi dei padri e dei figli e li guiderà durante la settimana entrante. Inoltre, secondo la tradizione, sarà alla conclusione di uno shabbat che il profeta Elia verrà ad annunciare l’arrivo del Messia.
