Per mio figlio ucciso pretendo giustizia

Intervista ad Anna Motta di Annamaria De Paola

Anna Motta, madre di Mario Paciolla, il cooperante Onu morto in Colombia nel 2020
Quella di Anna è la storia di una madre che ha perso un figlio, ma non hai mai smesso di continuare a lottare per lui. La sua è una battaglia giornaliera per restituire onore a suo figlio. Quella di Mario è la storia tragica di un giovane appassionato, tenace, che sceglie un lavoro difficile, quello del cooperante internazionale, e che per esso perde la vita. Da quattro anni una notizia secca giunta da San Vicente del Cagun, nel Sud della Colombia, li ha allontanati per sempre. Eppure, nonostante questo, Anna e Mario sono oggi più stretti che mai. Uniti, in nome della verità, dalla ricerca nel buio fitto che ancora avvolge quel 15 luglio del 2020 quando Mario Paciolla, suo figlio, viene trovato morto nel suo appartamento in Colombia.

Aveva 33 anni, lavorava per la missione Onu di verifica degli accordi di pace. Quattro anni dopo, la sua morte è ancora un mistero, ma non per Anna. Lei, signora napoletana dall’animo aperto e forte, sa che suo figlio è stato ucciso. E grida: “Quando si vive un’ingiustizia come è capitato a noi, non ci si può chiudere nel proprio dolore, che esiste ed è straziante, ma è necessario urlare al mondo quello che si sta vivendo”. Da subito la causa della morte di Mario è risultata essere poco chiara. Il decesso è stato inizialmente classificato come suicidio, ma sono tante le stranezze e le incongruenze di quello che è stato troppo velocemente liquidato come un gesto volontario. A seguito di una mobilitazione generale e di nuovi elementi, le autorità colombiane iniziano le indagini; dopo, anche la Procura di Roma apre un fascicolo per chiarire la causa della morte, ma in questi quattro anni, nonostante le tante evidenze, il caso viene archiviato più volte, ancora come suicidio.

Mi racconta chi era suo fglio Mario? Quali sono i ricordi più belli che ha di lui?

Mario era un giovane uomo che amava la vita e non tollerava le ingiustizie. È sempre stato, sin da piccolo, una persona serena, impegnato in tanti progetti. Andava sempre di corsa per poter mantenere con serietà gli impegni presi. Aveva conseguito due lauree, presso l’Istituto Orientale di Napoli, laurea triennale in Studio delle lingue comparate (inglese e indiano) e laurea magistrale in Scienze Politiche e Relazione Internazionale, entrambe raggiunte con il massimo dei voti, la lode e la pubblicazione delle tesi. Il ricordo più bello era la sua risata contagiosa e le lunghe discussioni politiche dove rivendicava sempre le ragioni dei più deboli.
Che passioni aveva?

La sua vera passione era scrivere. Ha collaborato con alcune testate giornalistiche e aveva il tesserino da giornalista iscritto all’Ordine. Ha spesso viaggiato per incontrare e parlare con la gente e poterne raccontare l’intimità dell’animo umano.

La buona lettura era per lui una priorità, leggeva e scriveva poesie. Era anche uno sportivo: sin da piccolo si è appassionato al basket che ha anche praticato, era un playmaker tenace e velocissimo.

Tifoso della squadra di calcio del Napoli, ascoltava buona musica e frequentava, dove si recava per lunghi periodi, scuole di ballo: in Argentina imparò il tango, in Colombia balli del luogo.
Qual è l’insegnamento lasciato da Mario?

Sin da bambino ha sempre avuto un alto senso del dovere, cosa questa che mi confermò anche la sua maestra di prima elementare, dopo un solo mese di scuola. Penso che Mario sia stato un seme che ha lasciato molti frutti. Il suo esempio di onestà ci ritorna tutte le volte che incontriamo le tante persone che hanno incrociato la sua breve, ma intensa vita, che ci testimoniano la sua lealtà e la sua incorruttibile morale. Mario era un costruttore di pace.

Cosa sostiene ancora la sua speranza quattro anni dopo?

La speranza è sostenuta dalla certezza che Mario è stato ucciso; pertanto, siamo sicuri che questa verità si paleserà sicuramente.

Oggi si sente più o meno sola?

Molto è lasciato all’agire delle famiglie che solitamente sono costrette a confrontarsi faticosamente con muri di gomma che non si sentono minimamente scalfiti dal dolore che provocano ai familiari delle vittime, pur declamando la tutela dei diritti umani. In un mondo come quello odierno, che ci ha abituato a continui cambiamenti per svariati motivi, chiunque può divenire vittima di vicende delittuose come la nostra. E le istituzioni dovrebbe garantire maggiore tutela ai propri cittadini. Tutti abbiamo il diritto di partire e soprattutto di tornare dai nostri cari.

Cosa le ha dato soddisfazione e quale è stato il massimo sconforto in questi anni?

L’incontro con tante persone e l’affetto che ci è stato dimostrato è sicuramente l’aspetto positivo di questo nostro peregrinare nel corso di questi quattro anni. Di contro, la scarsa vicinanza dello Stato e dell’ONU, che mai si è confrontato con noi, è la cosa che più ci ha fatto e ci fa soffrire. Oltre il grande dolore che ha lacerato le nostre vite, ci dispiace che non ci siano stati restituiti tutti gli scritti di Mario, le sue poesie, i suoi pensieri, i suoi incontri e racconti che certamente erano pronti a partire con lui. Questi ricordi, il suo capitale umano, avrebbero alleggerito la tristezza dei nostri cuori.

Cosa chiedete oggi, rispettivamente, alle istituzioni internazionali, alla politica e alla società civile?

Nel corso di questi anni abbiamo sentito poco la vicinanza delle istituzioni nazionali. All’inizio ci sono stati degli incontri formali dove è stato promesso un interessamento della politica, ma tranne il sostegno personale di alcuni parlamentari nulla di più è accaduto.
“L’affetto che ci è stato dimostrato è sicuramente l’aspetto positivo di questo nostro peregrinare nel corso di questi quattro anni. Di contro, la scarsa vicinanza dello Stato e dell’ONU, che mai si è confrontato con noi, è la cosa che più ci ha fatto e ci fa soffrire.“
Il 21 marzo scorso siamo stati ascoltati dalla commissione Diritti Umani del Senato, ma fino ad oggi nessuna risposta.

In Colombia si continua a morire. È un dolore che sente sempre anche un po’ suo?

Proviamo tanto dolore a sapere che in Colombia ci sia ancora un confitto feroce; sono sempre i più deboli a soffrire e questo ci rende tristi. In quella terra ci sono state tante persone che hanno amato Mario e che lui stesso ha amato.

Noi ci auguriamo sempre che le nuove politiche adottate in quel Paese possano portare maggiore stabilità, meno diseguaglianze.

Resta ancora molto da fare, ma abbiamo fiducia che le nuove generazioni possano dialogare maggiormente tra di loro e infine che ci possa essere una “vera” pace per la popolazione.

La morte di un fglio è una follia del dolore. Dove trova la forza oggi?

La morte di un figlio è talmente innaturale che non esiste un sinonimo sul vocabolario italiano che possa descrivere la condizione e il dolore di noi genitori.

Nessuno può spiegare a parole lo strazio di una madre che perde un figlio. Il 21 marzo scorso siamo stati ascoltati dalla commissione Diritti Umani del Senato, ma fino ad oggi nessuna risposta.

Qual era la parola che Mario amava di più?

Amore e libertà per la vita.
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