Sul tema Madri, abbiamo intervistato Linda Pocher, suora, Figlia di Maria Ausiliatrice dal 2003
Abbiamo voluto afrontare un tema di cui si parla molto poco ovvero quella della “maternità in Dio”, cioè di tutti quegli aspetti, aggettivi, narrazioni che sfuggono allo schema del Dio Padre e vanno più in direzione del Dio Madre (in fondo Dio non è né maschile né femminile).
Linda Pocher nel 2020 ha conseguito il dottorato in teologia dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel 2021 ha pubblicato, con le Edizioni Dehoniane di Bologna, Dalla terra alla madre. Per una teologia del grembo materno. Dal 2022 è membro del Consiglio della Pontificia Accademia Mariana Internazionale. Attualmente insegna cristologia e mariologia presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium a Roma.
Già nel Medioevo, la mistica inglese Giuliana di Norwich aveva scritto: «com’è vero che Dio è nostro Padre, così è vero che Dio è nostra Madre.» (Rivelazioni, cap. 59). Questo concetto non sembra molto esplorato, può dirci di più sul fatto che Dio è anche “madre”?
In realtà, credo che il punto di partenza più corretto per afrontare questo tema sia ricordare che Dio, in sé stesso, non è né padre né madre, né maschio, né femmina.
Il libro della Genesi, tuttavia, afferma che l’uomo e la donna sono creati ad immagine e somiglianza di Dio.
È per questo che la Scrittura utilizza i tratti tipici del padre e della madre per parlare di Dio, nella consapevolezza che si tratta di una analogia che si avvicina alla realtà senza poterla mai afferrare del tutto.
In realtà, credo che il punto di partenza più corretto per afrontare questo tema sia ricordare che Dio, in sé stesso, non è né padre né madre, né maschio, né femmina.
Il libro della Genesi, tuttavia, afferma che l’uomo e la donna sono creati ad immagine e somiglianza di Dio.
È per questo che la Scrittura utilizza i tratti tipici del padre e della madre per parlare di Dio, nella consapevolezza che si tratta di una analogia che si avvicina alla realtà senza poterla mai afferrare del tutto.
Da destra, suor Linda Pocher con Papa Francesco, insieme a Giuliva Di Berardino e Jo Bailey Wells
Nel momento in cui accettiamo il fatto che Dio è sempre al di là delle parole con cui ci riferiamo a Lui, i nostri occhi iniziano a vedere, nella Scrittura, nella tradizione e, soprattutto nella nostra
esperienza, che la nostra relazione con Lui non si può ridurre ad un unico nome, che sia padre o madre. Nel libro dell’Esodo Dio è la levatrice che fa nascere il popolo a una vita nuova. Nel Cantico è lo sposo dell’umanità. In Gesù Dio è anche figlio, amico, maestro, pastore.
In che modo il concetto di maternità di Dio è stato trattato nella storia del pensiero cristiano? Ci sono stati momenti in cui è stato più prominente?
Direi che i riferimenti alla maternità di Dio si possono incontrare costantemente lungo la storia del pensiero cristiano, ma in modo particolare in quegli autori/autrici e in quelle tradizioni che sono particolarmente radicati nella Scrittura e particolarmente aperti all’esperienza mistica. Come l’autore biblico, infatti, il mistico sa bene che l’essere di Dio non si può costringere in un nome o in una caratteristica soltanto. Certamente il riferimento alla maternità di Dio è più presente nella riflessione e nell’esperienza delle donne, in quanto riflette da un lato il bisogno di ritrovare in Dio non solo il diverso e il complementare – il padre, il figlio, lo sposo – ma un riflesso della propria identità – la maternità appunto. Dall’altro lato, dal lato di Dio, e contro i detrattori del suo volto materno, questa tradizione ininterrotta è un segno della sua condiscendenza, compiacimento e libertà. Il Dio che manifesta tratti materni, che si lascia rivestire di metafore femminili come le doglie del parto o il desiderio di nutrire i propri fgli al seno, non è un Dio patriarcale e non può esserlo. Proprio per questo, in tempi più recenti, sono state proprio le teologhe femministe ad attirare con forza l’attenzione sulla necessità di dare più importanza ai tratti materni del volto di Dio. E proprio questa consapevolezza, probabilmente, ha suscitato una certa reazione, uno sforzo di certa teologia “machista” di negare – sotto vari pretesti – valore teologico alle immagini materne di Dio.
Il teologo e biblista Gianfranco Ravasi in un’intervista dichiarò: “Almeno 60 aggettivi di Dio nella Bibbia sono al femminile: esiste chiaramente una maternità di Dio e più di 260 volte si parla di viscere materne del Signore”. Ne citiamo alcune: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Isaia 66,13) «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Salmo 131:2) «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il fglio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49,15) È possibile che dal passaggio dalla lingua originale al greco, dal greco al latino e dal latino alle lingue moderne si possa essere perso qualche aspetto di questa narrazione di Dio come entità legata alla figura materna (aggettivi, avverbi, desinenze)? Non credo sia possibile rispondere a questa domanda in modo generale. Ciò di cui posso parlare con cognizione di causa è l’evoluzione del termine “misericordia” che in ebraico porta in sé la stessa radice del termine “utero”. L’ebraico biblico collega normalmente i sentimenti e le qualità spirituali a determinati organi del corpo umano e la misericordia di Dio nei confronti delle sue creature viene paragonata alla sollecitudine materna, ovvero ad un bisogno di intervenire in favore dei propri figli che ha radici nel segreto del grembo, ovvero in quella comunione di vita intima e unica che lega ogni donna al suo bambino, mutatis mutandis ogni creatura al suo Creatore. Nella versione dei settanta il termine perde questa connotazione, probabilmente perché il greco, nel momento in cui si incontra con la tradizione biblica, è già una lingua molto ricca di termini astratti, probabilmente grazie alla netta divisione e contrapposizione tra materia e spirito elaborata dalla filosofia greca, che l’uomo biblico non conosce. L’abbandono del riferimento diretto al volto materno di Dio, tuttavia, porta con sé anche un vantaggio: rende la misericordia una virtù che non riguarda soltanto le donne, ma anche gli uomini, anche i padri. Non per nulla, il padre descritto da Gesù nella parabola dei due figli ha viscere materne, è un padre misericordioso.
In che modo il concetto di maternità di Dio è stato trattato nella storia del pensiero cristiano? Ci sono stati momenti in cui è stato più prominente?
Direi che i riferimenti alla maternità di Dio si possono incontrare costantemente lungo la storia del pensiero cristiano, ma in modo particolare in quegli autori/autrici e in quelle tradizioni che sono particolarmente radicati nella Scrittura e particolarmente aperti all’esperienza mistica. Come l’autore biblico, infatti, il mistico sa bene che l’essere di Dio non si può costringere in un nome o in una caratteristica soltanto. Certamente il riferimento alla maternità di Dio è più presente nella riflessione e nell’esperienza delle donne, in quanto riflette da un lato il bisogno di ritrovare in Dio non solo il diverso e il complementare – il padre, il figlio, lo sposo – ma un riflesso della propria identità – la maternità appunto. Dall’altro lato, dal lato di Dio, e contro i detrattori del suo volto materno, questa tradizione ininterrotta è un segno della sua condiscendenza, compiacimento e libertà. Il Dio che manifesta tratti materni, che si lascia rivestire di metafore femminili come le doglie del parto o il desiderio di nutrire i propri fgli al seno, non è un Dio patriarcale e non può esserlo. Proprio per questo, in tempi più recenti, sono state proprio le teologhe femministe ad attirare con forza l’attenzione sulla necessità di dare più importanza ai tratti materni del volto di Dio. E proprio questa consapevolezza, probabilmente, ha suscitato una certa reazione, uno sforzo di certa teologia “machista” di negare – sotto vari pretesti – valore teologico alle immagini materne di Dio.
Il teologo e biblista Gianfranco Ravasi in un’intervista dichiarò: “Almeno 60 aggettivi di Dio nella Bibbia sono al femminile: esiste chiaramente una maternità di Dio e più di 260 volte si parla di viscere materne del Signore”. Ne citiamo alcune: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Isaia 66,13) «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Salmo 131:2) «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il fglio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49,15) È possibile che dal passaggio dalla lingua originale al greco, dal greco al latino e dal latino alle lingue moderne si possa essere perso qualche aspetto di questa narrazione di Dio come entità legata alla figura materna (aggettivi, avverbi, desinenze)? Non credo sia possibile rispondere a questa domanda in modo generale. Ciò di cui posso parlare con cognizione di causa è l’evoluzione del termine “misericordia” che in ebraico porta in sé la stessa radice del termine “utero”. L’ebraico biblico collega normalmente i sentimenti e le qualità spirituali a determinati organi del corpo umano e la misericordia di Dio nei confronti delle sue creature viene paragonata alla sollecitudine materna, ovvero ad un bisogno di intervenire in favore dei propri figli che ha radici nel segreto del grembo, ovvero in quella comunione di vita intima e unica che lega ogni donna al suo bambino, mutatis mutandis ogni creatura al suo Creatore. Nella versione dei settanta il termine perde questa connotazione, probabilmente perché il greco, nel momento in cui si incontra con la tradizione biblica, è già una lingua molto ricca di termini astratti, probabilmente grazie alla netta divisione e contrapposizione tra materia e spirito elaborata dalla filosofia greca, che l’uomo biblico non conosce. L’abbandono del riferimento diretto al volto materno di Dio, tuttavia, porta con sé anche un vantaggio: rende la misericordia una virtù che non riguarda soltanto le donne, ma anche gli uomini, anche i padri. Non per nulla, il padre descritto da Gesù nella parabola dei due figli ha viscere materne, è un padre misericordioso.
Come si manifesta il concetto di maternità di
Dio nelle Scritture, se paragonato alla paternità tradizionalmente attribuita a Dio?
Sant’Agostino, commentando il versetto 10 del Salmo 26, risponderebbe che Dio «è padre perché ha creato, perché chiama, perché comanda, perché regge; è madre perché riscalda, perché nutre, perché allatta, perché custodisce». È evidente che l’interpretazione risente di quella visione tradizionale della divisione dei ruoli maschili e femminili che ha strutturato per secoli le società umane. In realtà, credo che proprio l’attribuzione della Scrittura di tratti materni e paterni all’unico Dio, abbia dato l’avvio a quel lentissimo processo di cui oggi iniziamo a vedere i frutti, ovvero lo sgretolamento del muro che divideva nettamente ambiti, caratteristiche e compiti maschili e femminili. Questo non significa, ovviamente, che non ci debbano essere differenze tra uomini e donne, tra madri e padri, ma che è possibile imparare gli uni dagli altri, perché la bontà di Dio possa risplendere in tutti i suoi figli. Come afferma san Paolo, nella nuova alleanza non ci sono più “maschio e femmina, perché tutti sono uno in Cristo Gesù”.
In che modo la maternità divina si ricollega al tema della cura, della protezione e del nutrimento spirituale?
La maternità divina si ricollega al tema della cura nella misura in cui la società che produce questa immagine di Dio attribuisce la cura, la protezione e il nutrimento in modo esclusivo alla fgura materna. Le relazioni familiari, in realtà, sono molto più complesse. Certamente, se guardiamo allo sviluppo dell’esperienza umana, sia per quanto riguarda il singolo individuo, sia per quanto riguarda la storia dell’umanità, la prima esperienza di cura, di protezione e di nutrimento coincide per ogni essere umano che viene nel mondo con i nove mesi di permanenza nel grembo di una donna, che custodisce, nutre, protegge ed educa – nutre cioè non solo il corpo, ma anche lo spirito del nascituro attraverso il suo amore, il suo desiderio, la sua attenzione. La madre, però, non può fare tutto da sola e, soprattutto dopo la nascita, ha bisogno della cura, della protezione e del sostegno materiale e spirituale di una comunità per poter far crescere serenamente il suo bambino. Se poi guardiamo però all’essere umano a partire dal suo destino, ovvero imparare a far risplendere nella propria capacità di amare il modo di amare paterno/materno di Dio, è importante ribadire che si tratta di una chiamata che non può essere delegata semplicemente alle madri, perché ne va della somiglianza dell’essere umano, maschio e femmina, al suo Creatore.
Sant’Agostino, commentando il versetto 10 del Salmo 26, risponderebbe che Dio «è padre perché ha creato, perché chiama, perché comanda, perché regge; è madre perché riscalda, perché nutre, perché allatta, perché custodisce». È evidente che l’interpretazione risente di quella visione tradizionale della divisione dei ruoli maschili e femminili che ha strutturato per secoli le società umane. In realtà, credo che proprio l’attribuzione della Scrittura di tratti materni e paterni all’unico Dio, abbia dato l’avvio a quel lentissimo processo di cui oggi iniziamo a vedere i frutti, ovvero lo sgretolamento del muro che divideva nettamente ambiti, caratteristiche e compiti maschili e femminili. Questo non significa, ovviamente, che non ci debbano essere differenze tra uomini e donne, tra madri e padri, ma che è possibile imparare gli uni dagli altri, perché la bontà di Dio possa risplendere in tutti i suoi figli. Come afferma san Paolo, nella nuova alleanza non ci sono più “maschio e femmina, perché tutti sono uno in Cristo Gesù”.
In che modo la maternità divina si ricollega al tema della cura, della protezione e del nutrimento spirituale?
La maternità divina si ricollega al tema della cura nella misura in cui la società che produce questa immagine di Dio attribuisce la cura, la protezione e il nutrimento in modo esclusivo alla fgura materna. Le relazioni familiari, in realtà, sono molto più complesse. Certamente, se guardiamo allo sviluppo dell’esperienza umana, sia per quanto riguarda il singolo individuo, sia per quanto riguarda la storia dell’umanità, la prima esperienza di cura, di protezione e di nutrimento coincide per ogni essere umano che viene nel mondo con i nove mesi di permanenza nel grembo di una donna, che custodisce, nutre, protegge ed educa – nutre cioè non solo il corpo, ma anche lo spirito del nascituro attraverso il suo amore, il suo desiderio, la sua attenzione. La madre, però, non può fare tutto da sola e, soprattutto dopo la nascita, ha bisogno della cura, della protezione e del sostegno materiale e spirituale di una comunità per poter far crescere serenamente il suo bambino. Se poi guardiamo però all’essere umano a partire dal suo destino, ovvero imparare a far risplendere nella propria capacità di amare il modo di amare paterno/materno di Dio, è importante ribadire che si tratta di una chiamata che non può essere delegata semplicemente alle madri, perché ne va della somiglianza dell’essere umano, maschio e femmina, al suo Creatore.
Come pensa che la rappresentazione di Dio
come Madre potrebbe cambiare la teologia e
la pratica religiosa contemporanea?
Sono convinta che integrare maggiormente l’immaginario materno rispetto a Dio nella teologia, nella predicazione e nell’esperienza spirituale potrebbe aiutare i credenti a superare una certa rigidità e attaccamento disordinato alla legge e alla dottrina che spesso si riscontra nelle comunità ecclesiali in questo passaggio difficile che Papa Francesco ha spesso definito “cambio d’epoca”.
Non si tratta di sostituire l’immagine paterna con quella materna, ma di reimparare ciò che i cristiani – e anche gli ebrei – hanno sempre saputo: che Dio è oltre le nostre parole e che le nostre parole su di lui sono buone, nella misura in cui ci aiutano a riconoscerci in Lui e a crescere nella nostra capacità di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amato: con tenerezza, pazienza e nella libertà.
Al contrario, la rappresentazione di Dio come madre non sarebbe affatto utile se diventasse un modo di far rientrare dalla finestra quella idealizzazione disincarnata della maternità che tanto male ha fatto alle donne e che faticosamente tante studiose e attiviste hanno cacciato dalla porta.
In un’udienza del 1999 san Giovanni Paolo II disse: “Il padre misericordioso della parabola [del figliol prodigo] contiene in sé, trascendendoli, tutti i tratti della paternità e della maternità. Gettandosi al collo del figlio mostra le sembianze di una madre che accarezza il figlio e lo circonda del suo calore”. Possiamo dire che rispetto all’antico testamento nel nuovo ci viene rivelato un Dio più materno? Penso all’enfasi sul perdono piuttosto che sull’ira e la vendetta spesso citate nei libri precedenti al vangelo.
Direi piuttosto che il Nuovo Testamento ci presenta il volto di Dio nel volto di un uomo, che è Gesù Cristo. Ora, la cosa interessante della persona di Gesù, è che, in quanto maschio, si dimostra particolarmente capace di imparare dalle donne che lo circondano uno stile di relazione ed un modo di amare con evidenti tratti materni. Utilizzando il linguaggio contemporaneo, potremmo dire che Gesù è un maschio che ha saputo integrare armonicamente nella sua personalità e nel suo modo di agire la sua parte femminile. Egli lo manifesta nella sua capacità di vicinanza, di afetto e di cura, che consegna come eredità ai suoi discepoli, maschi e femmine, nell’ultima cena.
Il gesto della lavanda dei piedi, infatti, è il gesto che nelle famiglie del tempo che non avevano servitù – perciò anche nella famiglia di Gesù – era compiuto dalla sposa e dalla madre. Quante volte Maria avrà lavato i piedi di Giuseppe e del suo bambino, nella casa di Nazareth? I vangeli, inoltre, raccontano di alcune donne che hanno lavato pubblicamente i piedi del Maestro con le loro lacrime. Anche il gesto della benedizione e distribuzione del pane e del vino, comunemente compiuto dal padre di famiglia durante ogni pasto, assume una sfumatura materna, grazie alle parole “questo è il mio corpo… questo è il mio sangue”. Chi se non la madre, infatti, può dare in verità – e non come metafora – a qualcun altro se stessa da mangiare?
Sono convinta che integrare maggiormente l’immaginario materno rispetto a Dio nella teologia, nella predicazione e nell’esperienza spirituale potrebbe aiutare i credenti a superare una certa rigidità e attaccamento disordinato alla legge e alla dottrina che spesso si riscontra nelle comunità ecclesiali in questo passaggio difficile che Papa Francesco ha spesso definito “cambio d’epoca”.
Non si tratta di sostituire l’immagine paterna con quella materna, ma di reimparare ciò che i cristiani – e anche gli ebrei – hanno sempre saputo: che Dio è oltre le nostre parole e che le nostre parole su di lui sono buone, nella misura in cui ci aiutano a riconoscerci in Lui e a crescere nella nostra capacità di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amato: con tenerezza, pazienza e nella libertà.
Al contrario, la rappresentazione di Dio come madre non sarebbe affatto utile se diventasse un modo di far rientrare dalla finestra quella idealizzazione disincarnata della maternità che tanto male ha fatto alle donne e che faticosamente tante studiose e attiviste hanno cacciato dalla porta.
In un’udienza del 1999 san Giovanni Paolo II disse: “Il padre misericordioso della parabola [del figliol prodigo] contiene in sé, trascendendoli, tutti i tratti della paternità e della maternità. Gettandosi al collo del figlio mostra le sembianze di una madre che accarezza il figlio e lo circonda del suo calore”. Possiamo dire che rispetto all’antico testamento nel nuovo ci viene rivelato un Dio più materno? Penso all’enfasi sul perdono piuttosto che sull’ira e la vendetta spesso citate nei libri precedenti al vangelo.
Direi piuttosto che il Nuovo Testamento ci presenta il volto di Dio nel volto di un uomo, che è Gesù Cristo. Ora, la cosa interessante della persona di Gesù, è che, in quanto maschio, si dimostra particolarmente capace di imparare dalle donne che lo circondano uno stile di relazione ed un modo di amare con evidenti tratti materni. Utilizzando il linguaggio contemporaneo, potremmo dire che Gesù è un maschio che ha saputo integrare armonicamente nella sua personalità e nel suo modo di agire la sua parte femminile. Egli lo manifesta nella sua capacità di vicinanza, di afetto e di cura, che consegna come eredità ai suoi discepoli, maschi e femmine, nell’ultima cena.
Il gesto della lavanda dei piedi, infatti, è il gesto che nelle famiglie del tempo che non avevano servitù – perciò anche nella famiglia di Gesù – era compiuto dalla sposa e dalla madre. Quante volte Maria avrà lavato i piedi di Giuseppe e del suo bambino, nella casa di Nazareth? I vangeli, inoltre, raccontano di alcune donne che hanno lavato pubblicamente i piedi del Maestro con le loro lacrime. Anche il gesto della benedizione e distribuzione del pane e del vino, comunemente compiuto dal padre di famiglia durante ogni pasto, assume una sfumatura materna, grazie alle parole “questo è il mio corpo… questo è il mio sangue”. Chi se non la madre, infatti, può dare in verità – e non come metafora – a qualcun altro se stessa da mangiare?