Intervista a Emma Marino e Clelia Piperno

di Raffaele Buscemi

Emma Marino, è una mamma e una nonna, ma prima di questo è stata una bambina, una sorella, una fglia. A soli dodici anni ha vissuto l’atrocità delle leggi razziali, il bombardamento di San Lorenzo. Ha dovuto lasciare la sua casa, i suoi amici, la sua famiglia per trovare un rifugio sicuro, per garantirsi un futuro. In questa intervista, abbiamo chiesto a lei e a sua fglia Clelia, cosa signifcasse essere una madre ebrea in due epoche storiche diverse
In un’epoca in cui i modelli familiari stanno cambiando, quali sfde vedi per le madri di oggi?

Clelia P: La più grande immensa sfida che vedo è l’ascolto, il sapersi tirare indietro, proprio in quel dare ali per volare di cui ho parlato all’inizio, non c’è educazione senza autonomia, è indottrinamento. La seconda è il dubbio, insegnare a farsi domande anche quelle che non hanno risposte, perché le risposte non sempre ci sono ma la mano di una madre ci sarà sempre, basta cercarla, se non è tesa, perché non dobbiamo dimenticare che una donna che decide di essere madre non deve farlo a discapito del rispetto di sé stessa, dei propri spazi nutrire sé stessa anche per avere le risorse per nutrire gli altri.Come ha descritto Virginia Wolf : la signora Ramsay – che come ricorderete non ha nome proprio, ma è chiamata con il cognome del marito – non è solo l’ospite, la padrona di casa; è la Dea, la divinità donna che con fare sovrano amministra l’ostia della comunione. È lei che si addossa il peso del gesto dell’unire gli individui isolati che siedono al desco. Perché l’amore è anche questo, anzi forse solo questo: salvare dalla solitudine. Creare comunità. E il gesto femminile per eccellenza, nutrire, può assumere tale valenza simbolica. La signora Ramsay accetta il compito. Si guarda intorno, vede tutti gli ospiti separati gli uni dagli altri, e capisce che “lo sforzo del legare e del fruire e del creare poggiava tutto su di lei. Di nuovo sentì come un dato di fatto puro, non ostile, la sterilità degli uomini.”. Sono pagine bellissime, che riprendono in modo romanzesco un pensiero dell’amica Jane Harrison, la studiosa del mondo antico che aveva raccontato dell’esistenza di un ‘mondo della Madre’, della madre e della figlia, di Demetra e Kore. Sì, prima degli dei dell’Olimpo, che sono particolarmente invisi a Harrison per via del loro sistema patriarcale, era esistita un’altra organizzazione sociale, dove governava la Madre. E attenzione, dove governa la Madre non vige la legge della forza, il culto del potere. Esiste un altro ordine, insegna Harrison.

Cosa signifcava essere una bambina ebrea nel’38?

Emma M: Quando ero piccolina, in un giorno che sembrava normale, siamo stati mandati via da scuola, nel quartiere di San Lorenzo a Roma perché ero ebrea. Insieme ad altri miei coetanei, siamo stati trasferiti in una scuola a Piazza Vittorio, frequentata solo da ebrei. Ancora non capivo il perché di quella scelta, mia madre e mio padre cercavano di tenerci al sicuro, non raccontandoci quello che stava accadendo, fno a quando la mia insegnate, anche lei ebrea, fu mandata via e sostituita con un’altra, anche mio padre era stato mandato via dal ministero. Al tempo la vita ci sembrava ancora normale. Per esempio, durante il bombardamento di San Lorenzo, abbiamo perso tutto, il nostro palazzo era stato bombardato e siamo costretti ad andare a Soriano del Cimino.
L’essere madri è per sempre o a un certo punto si esaurisce almeno la parte funzionale della figura materna?

Emma M: Una madre è per sempre. Una madre deve essere responsabile di chi mette al mondo, educarlo, assisterlo giorno e notte.

Secondo lei come si è evoluto il modo di essere e fare la madre?

Emma M: Si, è cambiato. Oggi c’è meno pazienza e meno voglia di fare le madri come si faceva una volta dove forse c’era più responsabilità e abnegazione.

Essere madri e poi essere nonni. Cosa cambia in quel passaggio?

Emma M: Quando mi hanno messo in braccio la prima volta mio nipote il cuore mi batteva a cento all’ora. Perché quando sei madre è un conto e quando sei nonna è un altro: c’è più tenerezza, più amore puro, meno legato alle responsabilità.

Come pensate che la società contemporanea stia ridefinendo il ruolo della madre rispetto alle generazioni passate?

Clelia P: Io sono stata una madre radicalmente diversa dalla mia è naturale, anche perché ogni educazione ha radici diverse, semi e terre diverse in cui fecondarsi.

A miei figli ho insegnato ad ascoltare ed ascoltarsi, tra anima e corpo, l’amore per l’ozio, il fascino del silenzio, aggiungendo queste ed altre cose al bagaglio già in mio possesso e correggendo alcuni comportamenti che in me avevano generato dolori e traumi inestinguibili, curati in tanti anni di terapia analitica.
In che modo la tua identità ebraica infuenza il tuo approccio alla maternità?

Clelia P: Totalmente, metodologicamente, flosofcamente e strutturalmente incidendo nel messaggio educazionale, nelle frequentazioni, nella trasmissione delle tradizioni e nel costruire il vincolo comunitario, derivato anche da legami familiari e amicali molto intimi.

Volevo consentirgli tutte le opzioni che a me erano mancate e che ho fatte mie con percorsi umani e di conoscenza lunghi e faticosi.

Come vivi il ruolo di madre in una cultura che ha una forte enfasi sulla famiglia e sulla continuità?

Clelia P: Con senso di responsabilità e leggerezza, la continuità è anzitutto condivisione, non solo di regole ma di intimità fatte di feste di risate, di famiglie che si ritrovano e si confrontano nel rispetto reciproco.

Che ruolo hanno le fgure materne nella tua famiglia?

Emma M: dalle donne della mia famiglia, da mia nonna e da mia madre soprattutto, ho imparato il sacrificio.

Nostra madre durante la guerra girava sempre, cercava di prendersi cura di tutti. Nonostante sofrisse la fame, ha sempre messo noi al primo posto. Quando eravamo in collegio avevamo a disposizione cinque ciriole al giorno, ne mettevamo da parte sempre un po’ per mamma. Da lei ho imparato il sacrifcio.

Clelia P: Direi centrale, perché la mia educazione è avvenuta in un contesto di anni 60-70 e dunque con un padre ancora molto assente e con una fgura materna che si è dovuta quindi far carico di tutto il carico educativo e di cura.
A mia madre devo l’amore per i libri e la passione per la lettura, la musica, il teatro, l’arte, l’educazione afettiva, ovvero i fondamenti.

Ma anche il contenimento delle pulsioni rivoluzionarie dell’adolescenza e degli anni successivi. Mio padre era presente fondamentalmente solo in quest’ultima, con blitz durante i pochi viaggi che ci potevamo permetterci per cercare di stimolare la sensibilità, i racconti.
Cosa vuol dire essere madre?

Clelia P: È la più importante assunzione di responsabilità che la vita ti possa proporre. Io ho scelto di coglierla, è un patto che non si scioglierà mai, finché si vivrà. Un patto in cui mi impegno a dare ali per volare e nido per tornare, se servirà. In un rapporto di crescita reciproca: sicuramente ho avuto più di quanto ho dato, e soprattutto ho ricevuto più insegnamenti di quanti sia stata capace di mostrare e spiegare.

I miei figli hanno fatto di me una persona migliore.

Emma M: Non è facile rispondere a questa domanda, la mia storia come donna e come madre è lunga da raccontare, ma per me essere madre significa prendersi cura delle creature che si mettono al mondo, e se necessario, così come ha fatto mia madre al tempo della guerra, fare di tutto per cercare di rendere la vita più normale possibile. Nonostante tutto, gli spostamenti, il collegio e la fame, solo alla fine della guerra ho capito fino in fondo quello era successo.
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