di Annarosa Buttarelli – Filosofa, saggista e docente universitaria
Nel pieno delle angosce del presente, e della violenza che lo devasta, si è ripresentata in più di un commento la necessità di ascoltare la voce di Hannah Arendt, l’unica pensatrice (tra i filosofi novecenteschi) che ha saputo dare un nome definitivo al male incarnato. Si tratta di una forma del male tra le più misconosciute, anche se è la più diffusa, oggi come ieri. Ma è solo grazie al suo genio che è venuta alla luce e che è stata sapientemente indicata con il suo nome. Sto per affrontare l’imprescindibile presa di coscienza suggerita da Hannah Arendt: dobbiamo sapere che il “male” continua a fare strame della vita umana perché è scontato e convenzionale. Si potrebbe condividere la prospettiva espressa dalla filosofa nel libro La banalità del male[1], che considera il male come il prodotto di un agire ordinario, comune, e che quindi resta invisibile ai più.
Ma partiamo dall’inizio, commentato dalla stessa Hannah Arendt:
Nel 1961, a Gerusalemme, seguii il processo Eichmann [ufficiale nazista] come corrispondente del The New Yorker, e fu sulle colonne di quel giornale che questo resoconto (scritto nell’estate e nell’autunno del 1962 e terminato nel novembre del medesimo anno, mentre ero ospite del Center for Advanced Studies della Wesleyan University) uscì per la prima volta nel febbraio e nel marzo 1963. […] Certi particolari del periodo di cui si occupa il mio libro non sono stati ancora chiariti definitivamente, e per quanto riguarda certe questioni probabilmente non avremo mai dati del tutto attendibili e dovremo accontentarci di congetture. Così, una congettura è il totale degli ebrei massacrati nel quadro della “soluzione finale”: da quattro milioni e mezzo a sei milioni – una cifra che non ha mai potuto essere controllata, e lo stesso vale per le cifre relative ai singoli paesi.[2]
Entriamo subito, dunque, nell’immenso lavoro di Hannah Arendt che ci accompagnerà a comprendere come sia necessaria, per la vita contemporanea, la coscienza della banalità del male.
Il processo a Eichmann si sosteneva su quanto dichiarò il procuratore generale Hausner: «Ci fu solo un uomo che si occupò quasi esclusivamente degli ebrei, che aveva il compito di distruggerli, che nell’edificio dell’iniquo regime non aveva altra funzione: e quest’uomo fu Adolf Eichmann».[3]
Ragion per cui in Israele non si confidò sul processo di Norimberga, con sorpresa della pensatrice, ma si attese la cattura dell’ufficiale tedesco per rendere giustizia al destino degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale:

Come quasi tutti in Israele, così anche Hausner [il procuratore generale] pensava che soltanto un tribunale ebraico potesse render giustizia agli ebrei, e che toccasse agli ebrei giudicare i loro nemici. Di qui il fatto che in Israele nessuno voleva sentir parlare di un tribunale internazionale, perché questo avrebbe giudicato Eichmann non per “crimini contro il popolo ebraico” ma per crimini contro l’umanità commessi sul corpo del popolo ebraico.[4]
Le osservazioni di Hannah Arendt mostrano come parteggi per quest’ultima formulazione. Questa, come altre osservazioni fondamentali per la scoperta della banalità del male, l’ha sottoposta, dopo la pubblicazione del libro, a denigrazioni e commenti molto risentiti da parte delle comunità ebraiche, poiché non ha nascosto quanto era emerso durante il processo, anzi aveva suggerito altre intuizioni attorno alla sua scoperta:
Avevano sempre pensato che l’antisemitismo fosse per natura eterno e onnipresente, e questa convinzione non solo era stata il più potente fattore ideologico del movimento sionista fin dai tempi dell’affare Dreyfus, ma spiegava anche la strana disposizione della comunità ebraica tedesca a negoziare con le autorità naziste nel primo periodo del regime.[5]
Ma la rivelazione fu soprattutto questa:
C’era un abisso tra questi [primi] negoziati e quello che fu poi il collaborazionismo degli Judenräte: non c’era ancora il problema morale, si trattava soltanto di una decisione politica di un “realismo” naturalmente discutibile. […] Era, insomma, una Realpolitik senza sfumature machiavelliche, e i suoi pericoli vennero in luce solo più tardi, dopo lo scoppio della guerra, quando i quotidiani contatti con la burocrazia nazista resero molto più facile ai funzionari ebraici il gran “salto”: invece che aiutare gli ebrei a fuggire, aiutare i nazisti a deportarli.[6]
Possiamo immaginare cosa questa rivelazione ha scatenato contro Hannah Arendt:
Il presente libro, ancor prima di essere pubblicato, ha scatenato un’aspra polemica ed è stato attaccato violentemente. Era logico che questa campagna organizzata, condotta con tutti i ben noti mezzi della propaganda e della manipolazione dell’opinione pubblica, fosse molto più efficace della polemica, sicché quest’ultima ha finito, se così si può dire, con l’annegare nel frastuono artificiale della prima.[7]
Ma le sue rivelazioni, in realtà, sono state confermate da un libro di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa,[8] dal quale si apprende che i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l’elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni, e infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale.[9]
Tanto che, durante il processo, molti erano convinti che senza l’aiuto degli ebrei nel lavoro amministrativo e poliziesco (il rastrellamento finale degli ebrei a Berlino, come abbiamo accennato, fu effettuato esclusivamente da poliziotti ebraici), o ci sarebbe stato il caos completo oppure i tedeschi avrebbero dovuto distogliere troppi uomini dal fronte.[10]
La violenta campagna contro l’autrice era fomentata anche per un altro aspetto documentato nel libro di Arendt, un aspetto che si lega, anch’esso, alla scoperta della banalità del male, ovvero nla passività totale con cui quasi tutti gli ebrei si erano consegnati ai loro aguzzini: «Soltanto i giovanissimi erano stati capaci di prendere la drammatica decisione» di non lasciarsi ammazzare «come pecore». Così dicevano.[11]
Il racconto che Eichmann fece durante l’istruttoria aprì a Hannah Arendt la strada allo studio delle povere parole e del comportamento dimesso dell’imputato, un racconto sconcertante e distorto che fece capire immediatamente come l’ufficiale vivesse in un «mondo illusorio e fallace». Un amico gli fece leggere il libro di Theodor Herzl, Lo Stato ebraico, e gli accadde qualcosa di incredibile, se valutata con il senno del poi:
Dopo la lettura di questo famoso classico sionista, Eichmann aderì prontamente e per sempre alle idee sioniste. Pare che fosse il primo libro serio che avesse mai letto, e ne rimase profondamente colpito.
Da quel momento, come ripeté più e più volte, non pensò ad altro che a cercare una “soluzione politica” (che significava l’espulsione ed era l’opposto della “soluzione fisica”, cioè lo sterminio).[12]
Addirittura, per questa sua appassionata adesione alle idee sioniste e il fervore con cui cercava la “soluzione politica”, fu nominato per un anno, a Vienna, capo del Centro per l’emigrazione degli ebrei austriaci. Fu proprio a Vienna nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria al Reich, che Eichmann scoprì di avere eccezionali doti organizzative, tanto da riuscire a far emigrare, in otto mesi, ben quarantacinquemila ebrei. La “svolta” avvenne perché si vide che «c’erano due cose che egli poteva far meglio degli altri: organizzare e negoziare».[13] Progettò una specie di catena di montaggio dei documenti per l’emigrazione, il cui scopo era lasciare gli ebrei designati per il viaggio senza più un soldo né un diritto, con un passaporto che garantiva l’uscita dalla Germania in quindici giorni.[14]
Naturalmente, Eichmann al processo si mostrò orgoglioso della sua “catena di montaggio”, e questo lo preparò al meglio per iniziare a collaborare alla “soluzione finale”. La catena di montaggio da lui ideata gli è valsa un ruolo da protagonista a cui teneva molto, e Hannah Arendt intravede in questa ambizione il primo carattere originale dell’ufficiale tedesco: la millanteria.
La millanteria era il peggior difetto di Eichmann: il difetto che lo rovinò. […] Vantarsi di avere ucciso cinque milioni di ebrei, quasi il totale degli ebrei soppressi grazie agli sforzi combinati di tutti gli organismi e di tutte le autorità naziste, era naturalmente ridicolo, e lui lo sapeva benissimo; tuttavia, seguitò a ripeterlo fino alla nausea.[15]
«Di tanto in tanto la commedia sfociava nell’orrido, in storie – probabilmente abbastanza vere – il cui macabro umorismo superava ampiamente la fantasia di un surrealista».[16] L’ottusa ambizione dell’ufficiale lo rendeva pienamente inserito nell’atmosfera generale del Terzo Reich, in gran parte alimentata dall’abitudine a ingannare se stessi, una specie di presupposto morale per sopravvivere, da un lato, e dall’altro per partecipare alla grandiosità nazista. Hannah Arendt inizia a intuire la banalità del male proprio per la diffusa inclinazione alla menzogna, usata per incitare e unire la nazione tedesca, e soprattutto per convincere che la «guerra non era guerra […] che la guerra era venuta dal destino e non dalla Germania; […] era una questione di vita o di morte: o annientare i nemici o essere annientati».[17] Ma nel caso di Eichmann c’era una specie di naturale millanteria tutta propria, una millanteria in grado di mettere in luce un suo aspetto che si rivelerà fondamentale, la mancanza di empatia: «La millanteria è un vizio comune, mentre un tratto più personale, nonché più importante, del carattere di Eichmann era la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri».[18]
Millanteria e mancanza di empatia: è delineata la strada verso la concezione del male nella sua banalità. Oltre a questi due tratti, Hannah Arendt ne scopre subito altri due che, come si vedrà, possono adattarsi perfettamente all’attuale banalità del male, quella che si diffonde, quasi indisturbata, ai nostri giorni:
“Il linguaggio burocratico (Amtsprache) è la mia unica lingua” [diceva Eichmann]. Il fatto è però che il gergo burocratico era la sua lingua perché egli era veramente incapace di pronunziare frasi che non fossero clichés. […] Certo, i giudici non ebbero torto quando alla fine dissero all’imputato che tutto ciò che aveva detto erano “chiacchiere vuote”: ma essi pensavano che quella vacuità fosse finta e che egli cercasse di nascondere altre cose, odiose, sì, ma non vuote. L’ipotesi sembra confutata dalla sorprendente coerenza e precisione con cui l’imputato, malgrado la sua cattiva memoria, ripeté parola per parola le stesse frasi fatte e gli stessi clichés.[19]
La “cattiva memoria” – terzo tratto della banalità del personaggio Eichmann – è anche una delle caratteristiche dell’attuale male endemico che viene etichettato come narcisismo patologico o maligno,[20] caratteristica di smemoratezza accentuata nel caso del gerarca nazista, ma quasi assente nell’aspetto della malignità data la sua scarsa intelligenza nutrita invece dal pensiero della propria grandezza d’animo, di cui la sua mente «era piena fino a traboccare». Tuttavia, la sua memoria si rivelò pessima per ciò che riguarda gli avvenimenti concreti. […] Eichmann ricordava assai bene le svolte della propria carriera, e tuttavia si constatava che non necessariamente queste svolte coincidevano con quelle della storia dello sterminio degli ebrei o della storia in generale.[21]
Ovviamente, possiamo immaginare come tutto ciò fosse motivo di grande imbarazzo per chi lo doveva giudicare in tribunale. Lo stesso imbarazzo che proviamo quando ci confrontiamo con persone narcisiste patologiche o maligne, con le quali è impossibile instaurare una vera comunicazione a causa dello straniamento provocato dall’impossibile coincidenza tra la realtà dei fatti e la loro memoria:
Eppure, era essenziale che qualcuno lo prendesse sul serio; ma la cosa era tutt’altro che facile, a meno che […] non si fosse ricorsi alla via più semplice: considerarlo un astuto mentitore, cosa che, ovviamente, egli non era. […] Ogni riga di quegli scarabocchi rivelava un’estrema ignoranza di tutto ciò che dal punto di vista tecnico e burocratico non era direttamente connesso al suo lavoro, nonché una memoria eccezionalmente difettosa.[22]
Hannah Arendt si è trovata di fronte a qualcosa di spaventoso: un’aspra combinazione tra grandiosità istrionica, scarsa intelligenza e memoria difettosa. Si è trovata di fronte a questa domanda la cui risposta, oggi, grazie a lei risulta facile da dare: che sconvolgente uomo ho davanti a me, come posso arrivare na comunicare con lui secondo verità? Il “male” le sta già mostrando la sua concretezza incarnata:
Per ciò che lo riguardava personalmente, si trattava di stati d’animo mutevoli, e finché egli riusciva a ritrovare nella sua memoria una frase fatta o a inventare sul momento una formula esaltante, era soddisfatto e non si rendeva neppur conto che esistesse una cosa che si chiama “incoerenza”. […] questa capacità spaventosa di consolarsi con frasi vuote non lo abbandonò nemmeno nell’ora della morte.[23]
Si nota anche in questo passaggio l’idea che si sta formando in Hannah Arendt circa la relativa “innocenza” di Eichmann, un’idea che richiama vagamente l’evangelico “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Eppure, lei stessa doveva constatare che Eichmann sapeva quello che faceva, ma questa specie di coscienza era anestetizzata dalla mancanza di empatia, da un’effettiva ridotta intelligenza e dalla memoria perversa, tratti che lo spingevano anche a inventare storie inesistenti per sostenere la sua bontà d’animo, in cui lui credeva veramente – quando per esempio affermava di aver salvato la vita a centinaia di migliaia di persone: «Il guaio di Eichmann fu che egli non ricordò nessuno dei fatti che potevano confermare, sia pur vagamente, la sua incredibile versione, mentre il suo dotto difensore probabilmente neppure sapeva che c’era qualcosa da ricordare».[24]In effetti, per Eichmann, la scarsa memoria risultò essere più dannosa di qualsiasi fatto oggettivo.
Durante il processo a Eichmann, è emerso che l’ufficiale agì rapidamente nel rispettare gli ordini per attuare la “soluzione finale”, cioè lo sterminio che avvenne dal 1941 fino alla fine della guerra. Ma si è appurato anche che egli si mantenne lontano dal vedere con i propri occhi le conseguenze della zelante esecuzione dei suoi doveri di soldato nazista:
Il fatto è che Eichmann non vide molto. È vero, egli visitò più volte Auschwitz, […] [che] non era soltanto un campo di sterminio: era una gigantesca industria e contava fino a centomila ospiti, dove tutti i tipi di prigionieri erano rappresentati, anche i non ebrei e i forzati non destinati alla morte per gas. […] [Eichmann] vide appena quel tanto che gli bastava per sapere con esattezza come funzionava quel meccanismo di distruzione, per sapere che c’erano due diversi metodi di esecuzione […]; e che nei campi vigeva tutta una complicata procedura per ingannare le vittime fino all’ultimo momento.[25]
La «gigantesca industria» e le «complicate procedure» del funzionamento efficiente dei campi di sterminio hanno ispirato un geniale psichiatra francese che è, insieme alla psicologa-filosofa Pascale Molinier, il fondatore di una scuola, finora unica nel suo genere, chiamata Psicodinamica del nlavoro. Christophe Dejours, questo è il suo nome, riconosce il suo debito verso Hannah Arendt, scopritrice della banalità del male, nella sua prima opera tradotta nel 1998 in Italia, L’ingranaggio siamo noi,[26] all’epoca passata quasi sotto silenzio perché itenuta un saggio visionario; ma oggi, ripubblicato con una postfazione in cui l’autore traccia il bilancio del tempo trascorso, si è finalmente rivelato essere un testo imprescindibile. nChristophe Dejours traccia, infatti, un quadro lucido e minuzioso delle sconvolgenti trasformazioni occorse nel mondo del lavoro in epoca neoliberista. I suoi studi sul campo rilevano a tutti i livelli – dirigenti, quadri, dipendenti – un aggravamento sconcertante della sofferenza psicofisica. Ma, al contempo mostrano che questo nuovo sistema manageriale che si basa sull’ideologia dell’organizzazione (e che potremmo definire “narcisista maligno”), per quanto incredibilmente nocivo, prospera e si mantiene solo grazie all’attiva complicità delle sue stesse vittime: lavoratori e lavoratrici. Dejours decifra questa servitù volontaria, identificandone la chiave: il meccanismo difensivo della banalizzazione del male e dell’ingiustizia sociale. Senza la scoperta della banalità del malefatta da Hannah Arendt durante il processo a Eichmann, anche l’analisi imprescindibile di Dejours non avrebbe potuto realizzarsi. Una delle realtà del “male”, oggi, coincide con ciò che è avvenuto nell’ambiente del lavoro neoliberista e nella collegata distruzione della capacità di pensare.
Arriviamo così al cuore della banalità del male, la tremenda sciagura del non saper pensare di cui Eichmann era rappresentante perfetto: «Se la sua coscienza si ribellava a qualcosa, non era all’idea dell’omicidio, ma all’idea che si uccidessero ebrei tedeschi».[27]
A scuoterlo veramente non fu l’accusa di aver mandato a morire milioni di persone, ma soltanto l’accusa […] di avere un giorno picchiato a morte un ragazzo ebreo. Certo, egli aveva mandato gente anche nell’area dove operavano gli Einsatzgruppen, i quali non concedevano “una morte pietosa” [con il gas] ma fucilavano, tuttavia doveva poi aver provato un senso di sollievo quando ciò non fu più necessario data la sempre crescente “capacità di assorbimento” delle camere a gas. Doveva anche aver pensato che il
nuovo metodo rappresentava un decisivo miglioramento nell’atteggiamento del governo nazista verso gli ebrei poiché il beneficio dell’eutanasia, a regola, era riservato soltanto ai veri tedeschi. […] Forse i criminali di guerra avevano dimenticato il “clima” in cui avevano ucciso, forse non si erano mai preoccupati di sapere cosa pensasse l’opinione pubblica perché, erroneamente, erano convinti che il loro atteggiamento “oggettivo e scientifico” fosse digran lunga superiore alle idee della gente comune.[28]
È impossibile, se si conserva la capacità di pensare, non leggere in queste righe l’esatta diagnosi di quell’atteggiamento che si è imposto ai nostri giorni e che infesta la politica istituzionale e i rapporti di lavoro, come ho scritto in riferimento a Dejours: idolatria dell’organizzazione e dell’efficienza gestionale, incapacità di pensare alle conseguenze delle proprie azioni, disprezzo della realtà comune, totale mancanza di empatia, grandiosità e millanteria, totale passività delle vittime. Infatti, Eichmann ha spiegato che «se riuscì a tacitare la propria coscienza fu soprattutto per la semplicissima ragione che egli non vedeva nessuno, proprio nessuno che fosse contrario alla soluzione finale».[29] Nella convinzione che «nessuno, proprio nessuno» si fosse levato contro la soluzione finale, Eichmann conferma l’esistenza del capitolo relativo al contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo, un capitolo «tra i più foschi di tutta quella fosca vicenda», commenta Hannah Arendt. E questo capitolo comprova ancora una volta come per la pensatrice la banalità del male si estenda e si radichi anche in quelle “vittime” che rinunciano all’etica e al pensiero, adeguandosi al compiersi dei crimini contro l’umanità:
Se ci siamo soffermati tanto su questo aspetto della storia dello sterminio, aspetto che il processo di Gerusalemme mancò di presentare al mondo nelle sue vere dimensioni, è perché esso permette di farsi un’idea esatta della vastità del crollo morale provocato dai nazisti nella “rispettabile” società europea – non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi, non solo tra i persecutori ma anche tra le vittime.[30]
In effetti, la sua coscienza [di Eichmann] si tranquillizzò al vedere lo zelo con cui la “buona società” reagiva dappertutto allo stesso suo modo […] la sua coscienza gli parlava con una “voce rispettabile”, la voce della rispettabile società che lo circondava.[31]
Una società che anche nella Germania degli anni Novanta, dice Hannah Arendt, ha mantenuto una parte del “crollo morale” e dell’incapacità di pensare:
Nella Germania di oggi […] non si parla più dei veterani e di altri gruppi privilegiati [mandati a morire], si deplorano ancora i maltrattamenti inflitti agli ebrei “famosi”. Più d’uno, soprattutto nei circoli intellettuali, seguita a deplorare pubblicamente che la Germania costringesse Einstein a far fagotto; ma sembra che costoro non si rendano conto che delitto molto più grave fu uccidere il piccolo Hans Cohn, che abitava all’angolo, anche se non era un genio.[32]
Rimane da considerare l’aspetto più noto della scoperta di Hannah Arendt: la zelante adesione agli ordini, alle leggi; l’obbedienza accecata eletta a virtù, non certo tratto esclusivo del gerarca Eichmann, che pure ne fece un argomento della propria difesa, una difesa tipicamente militare – «ho obbedito agli ordini» – ma che non si discosta da altre obbedienze cieche, disposte a mettere a tacere la coscienza quando arrivava l’ordine del Führer, non una legge:
È questa la vera ragione per cui quando il Führer ordinò la soluzione finale esperti giuristi e consiglieri giuridici, non semplici amministratori, stilarono una fiumana di regolamenti e direttive:
quell’ordine, a differenza degli ordini comuni, fu considerato una legge. Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi dall’essere semplice frutto della pignoleria o precisione tedesca, servirono ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di legalità.[33]
Tutti gli aspetti della banalità del male, forniti sia dalla scelta dei capi delle comunità ebraiche sia da Adolf Eichmann, hanno messo in grave difficoltà la capacità di giudizio di coloro che dovevano decidere se condannare o assolvere un imputato, allora come ora. I giudici di Gerusalemme dovettero, paradossalmente, difendere alcune volte l’imputato Eichmann dall’eccesso di colpe che l’accusa avrebbe voluto assegnargli. Ma alla fine la condanna ha preso forma: «Nella sentenza i giudici dissero che Heydrich dirigeva la soluzione finale senza limitazioni territoriali, e che quindi Eichmann, che era suo vice in questo campo, fu dappertutto ugualmente responsabile».[34]
Così la sentenza e la relativa condanna a morte furono pronunciate, ed Eichmann fu impiccato il 31 maggio 1962. Si recò al patibolo con dignità, ma senza rinunciare a parlare nel suo modo istrionico e scollato dalla realtà di ciò che stava accadendo:
Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. […] Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si sentì “esaltato” dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.[35]
Attraverso citazioni e note si sarà notato che ho accompagnato passo per passo l’indagine di Hannah Arendt, per rendere comprensibile e più vicino alla realtà contemporanea il processo con cui si forma nella mente della pensatrice l’idea della banalità del male. Un avvicinamento progressivo alla verità che si è potuto realizzare grazie alla libertà e alla grandezza del pensiero di colei che non volle mai definirsi filosofa. Una libertà dagli stereotipi sociali e intellettuali, e una grandezza che si ritrovano nell’epilogo all’indagine, in cui Hannah Arendt scopre una novità che ci è trasmessa:
La crudeltà gratuita poteva dunque servire per determinare ciò che, nelle nuove circostanze, costituiva crimine di guerra. Ma questo criterio non era valido, benché purtroppo fosse goffamente adottato, per definire gli unici crimini di tipo veramente nuovo, quelli “contro l’umanità” […] o meglio, come si espresse il Procuratore francese François de Menthon, “contro la condizione umana”.[36]
Ma il tribunale di Gerusalemme ostacolò in qualche modo la percezione generale dell’esistenza della banalità del maleperché commise tre errori:
Se il Tribunale di Gerusalemme in qualcosa fallì, fu perché non si affrontarono e non si risolsero tre questioni fondamentali, tutte e tre già ben note e ampiamente discusse fin dal tempo dell’istituzione del Tribunale militare di Norimberga: evitare di celebrare il processo dinanzi alla Corte dei vincitori; dare una valida definizione dei “crimini contro l’umanità”; capire bene la figura del ncriminale che commette questo nuovo tipo di crimini.[37]
Questioni di cui ci si è dovuti occupare successivamente, senza molto successo, a causa del permanere delle guerre e delle relative atrocità che si sono estese anche nella vita quotidiana, soprattutto a carico delle donne e dei bambini. Tuttavia, dobbiamo riconoscere a Hannah Arendt la più profonda gratitudine per aver lasciato all’umanità il criterio di giudizio più avanzato che si conosca in merito alla capacità e volontà di fare il male. Con la scoperta della banalità del male si è resa inutile anche la possibile valutazione di innocenza nei confronti di chi non ha soggettivamente deciso di fare azioni criminose, ma è stato solo ubbidiente o si appella alla motivazione del non sapere come non volere:
Anche supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento dello sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica di sterminio. La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre diversità, noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato.[38]
Non ci sono alibi che tengano, Hannah Arendt ha visto che non pensare, non sapere, non ricordare, non decidere autonomamente sono proprio tra i fondamenti della diffusa capacità di fare banalmente, insospettabilmente, da gentili vicini di casa, il diffuso male quotidiano che ormai, anche oggi, di nuovo, si fatica a intravedere.
*Una versione di questo testo è comparsa in: Annarosa Buttarelli, Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle filosofe, Tlon, Roma 2024.
[1] Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. di Piero Bernardini, Feltrinelli, Milano 2022.
[2] Ivi, p. 7
[3] Ivi, p. 13
[4] Ibidem (corsivo mio).
[5] Ivi, p. 18.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 322.
[8] Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, 3 voll., tr. di Giuliana Guastalla e Frediano Sessi, Einaudi, Torino 2017.
[9] Hannah Arendt, La banalità del male, op. cit., p. 139.
[10] Ivi, p. 138.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ivi, p. 52.
[13] Ivi, p. 57.
[14] Cfr. Ibidem.
[15] Ivi, p. 59.
[16] Ivi, p. 63.
[17] Ivi, p. 65.
[18] Ivi, p. 60.
[19] Ivi, pp. 61-62.
[20] Cfr. aa.vv, Narcisismo patologico. Aspetti clinici e forensi, a cura di Serena Borroni e
Andrea Fossati, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
[21] Ivi, p. 67.
[22] Ivi, p. 68.
[23] Ivi, p. 75.
[25] Ivi, pp. 107-108
[26] Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi. Lavoro e banalizzazione dell’ingiustizia sociale, a cura di Armando Arata, tr. di Enrico Donaggio, Mimesis, Milano 2021.
[27] Hannah Arendt, La banalità del male, op. cit., p. 115.
[28] Ivi, pp. 129-130.
[29] Ivi, p. 138.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, pp. 148-149
[32] Ivi, p. 157.
[33] Ivi, p. 157.
[34] Ivi, p. 249.
[35] Ivi, p. 290.
[36] Ivi, pp. 295-296.
[37] Ivi, p. 314.
[38] Ivi, p. 319 (tr. modificata).