Il riposo di Penelope

di Giovanna Martelli

Mi affascina e mi stupisce, dal tempo della scuola media, la lettura dei poemi omerici, che con l’andare degli anni si è trasformata in un viaggio tra emozioni che ci offrono uno sguardo diverso su temi attuali: la guerra, la pietà, il rispetto, il pudore, l’amicizia, l’amore, il dolore. Racconti di guerrieri ed eroi narrati da Omero e che nella nostra adolescenza abbiamo incontrato almeno una volta. Il tempo è scandito dalle vittorie e dalle sconfitte, dalle battaglie e dalle tragedie; poi c’è l’attesa: quella di Penelope per Ulisse. Nell’Itaca presa d’assedio dai Proci, Penelope sceglie di resistere nella stanza del telaio, lì con le altre donne costruisce la trama della sua strategia: fermare il tempo. La sala del telaio diventa il cuore della resistenza contro l’occupazione straniera.

Penelope concederà la sua casa e la sua terra agli occupanti alla fine della tessitura della tela, le donne di giorno tessono la tela e la sera con il riposo la disfano. Le donne della sala del telaio scelgono di fermare il tempo della resa per preservare uno spazio diventato, nel tempo di occupazione, buono per mettere insieme, riannodare trame interrotte, raggruppare, mettere in relazione. Un luogo sicuro, estraneo al modello “forza contro forza” che travalica la sfera privata e diviene azione politica: politiké: arte che attiene alla città stato.

La storia di Penelope e delle donne della sala del telaio finirà con il ritorno di Ulisse, che nella notte (dedicata al riposo e a disfare il telaio) vincerà la gara per possedere Penelope e chiuderà con la violenza e il sangue l’occupazione dei Proci. Penelope durante il massacro rimarrà nella sua stanza e non riconoscerà Ulisse, lo metterà alla prova per capire se è davvero lui. Ulisse non la prenderà bene.

Storie che si contrappongono, scelte di vita differenti, modelli di società differenti. La società di Penelope scandita dal tempo della Terra, a tutela dell’inviolabilità dei viventi. Penelope e il prendere tempo, sospendere per riportare in armonia, spegnere il fuoco delle ostilità, dentro e fuori le mura di casa, in famiglia e nella comunità.

Penelope prende coscienza del fatto che il non completare la tela, terrà lontana l’usurpazione. Anticipa i tempi moderni: lavorare e produrre non rendono liberi, anzi si può esserne schiavi. Meglio fermarsi, smettere. Shabbàt. Un sopravvissuto alla Shoah racconta: “il treno avanzava con il suo carico umano. Con il trascorrere del venerdì pomeriggio, gli ebrei e le ebree deportati dai nazisti sprofondavano sempre più nella disperazione. D’un tratto un’anziana signora riuscì con grande sforzo a smuovere e ad aprire il suo fagotto. Ne trasse, a stento, due candele e due challot.

Le aveva preparate proprio per lo Shabbàt, quando al mattino era stata trascinata via dalla sua casa ed erano le uniche cose che aveva ritenuto tanto importanti da doverle prendere con sè.

Le candele dello Shabbàt illuminarono subito le facce degli ebrei torturati e la melodia del Lechà Dodì mutò tutta la scena.

Lo Shabbàt, con l’atmosfera di pace e di cura che gli sono proprie, era calata su tutti loro”. La cura cuore dello Shabbàt, per rigenerare, non dimenticare i fragili, riconoscere alla Terra il suo bisogno di riposo: “il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore; non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna. Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dal seme caduto nella tua mietitura precedente e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa pro- durrà” (Lev. 25,7). Shabbàt, il settimo giorno della settimana e il giorno in cui, quando pensiamo di aver fatto quello che dovevamo fare in buona coscienza, dobbiamo riposare.

La sacralità dello Shabbàt

di Massimiliano Parrella

Nelle pagine del Libro sacro, il Creatore dell’universo pronuncia parole di solenne bellezza: “E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto nella creazione” (Genesi 2:3). In questo versetto si racchiude l’essenza dello Shabbàt, il giorno di quiete e di grazia che Dio ha donato all’umanità. Questa affermazione biblica pone lo Shabbàt, il sabato, come giorno sacro e benedetto dall’Adonai stesso. È il culmine dell’opera creatrice divina, il momento in cui Dio si riposa dopo aver dato vita all’universo. Lo Shabbàt diviene così il sigillo dell’intera creazione, il giorno in cui l’uomo è chiamato a interrompere le sue fatiche e a immergersi nella contemplazione dell’opera di Dio.

Attraverso l’osservanza dello Shabbàt, i nostri fratelli ebrei sono stati storicamente in grado di mantenere viva la loro identità e il loro legame con il Creatore. È il giorno in cui si astengono da ogni attività lavorativa, dedicandosi alla preghiera, allo studio della Torà e al riposo. Un tempo sacro, in cui la famiglia si riunisce per accogliere la “Regina Shabbàt” con canti, benedizioni e pasti rituali.

Eppure, lo Shabbàt non è soltanto un ricordo del passato. Esso conserva un profondo significato anche per l’uomo moderno, in un mondo dominato dalla frenesia e dalla continua ricerca di successo e produttività. Lo Shabbàt ci ricorda che la vita non si esaurisce nel lavoro, ma che vi è una dimensione spirituale e contemplativa essenziale per il nostro benessere. È un’oasi di pace in cui possiamo ritrovare noi stessi, riconnettendoci con la nostra anima e con il divino.

In un’epoca dominata dall’incertezza e dall’ansia, lo Shabbàt si erge come un faro di speranza, un’ancora di salvezza per l’anima stanca del mondo contemporaneo. Questo giorno sacro, radicato nella millennia tradizione ebraica sin dai tempi della Creazione, conserva ancora oggi un profondo significato per l’uomo moderno.

Così, nell’osservare fedelmente lo Shabbàt, gli ebrei testimoniano al mondo intero che il valore di una persona non dipende dai suoi successi o dalle sue possessioni, ma dalla sua capacità di fermarsi, di contemplare e di godere dei doni che Dio ha elargito all’umanità. È un invito a riscoprire la sacralità del tempo e a vivere in armonia con il ritmo della creazione, in attesa del giorno in cui tutta l’umanità potrà celebrare insieme la gloria del Signore.

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