di Loredana Taddei
Incontrare suor Rita Giaretta vuol dire incontrare una donna libera. Pochi giri di parole, nessuna ipocrisia, tanto coraggio e determinazione.
La incontro nella sua Casa del Magnificat al Tuscolano, un grande quartiere popolare di Roma, all’ingresso l’albero della vita dipinto da una ragazza colombiana, sui rami i nomi di tante donne che hanno aiutato a rendere la casa vivibile e accogliente e che ormai fanno parte della rete che ha creato suor Rita. Perché questa, dice, “è una casa di tutte, una casa aperta di donne che vogliono aiutare altre donne.”
Con lei c’è una consorella, suor Assunta, reduce da un intervento al femore, ma già attiva. Hanno negli occhi quella particolare luce di chi ha fede, ma soprattutto di chi crede in quello che fa. E lo racconta con la chiarezza e la semplicità di chi ha passato anni a liberare donne schiave della tratta, a salvarle dalla strada.
Lo ha fatto nella terra dei fuochi, a Caserta, dove, insieme ad altre sorelle Orsoline, ha fondato “Casa Rut”, una comunità di accoglienza che in 30 anni di attività ha raccolto i pezzi di centinaia di donne, spesso con bambini. Persone invisibili, senza speranza, che avevano conosciuto solo violenza maschile e soprusi. Casa Rut con la sua opera ha ridato loro non solo dignità e libertà, ma anche opportunità professionali concrete, dando vita alla cooperativa sociale NewHope.
Non è ferma suor Rita, da cinque anni opera a Roma, in situazioni diverse, contesti diversi, ma la missione che sembra la stessa: dare una chance alle troppe donne vittime di violenza maschile, offrire loro il calore di una casa, metterle in condizione di studiare e trovare un lavoro. Uscire dal loro inferno per essere libere. Una missione che si nutre del desiderio che è possibile dare ali, insieme, a “un nuovo sogno di fraternità e amicizia sociale.”
Nell’anno del Giubileo della speranza suor Rita ne è l’emblema perfetto, con il suo lavoro incessante da piena concretezza e autenticità a questo grande evento che nel 2025 assume particolare intensità in un mondo in fiamme. La sua non è solo accoglienza, protezione, rifugio, vuole accendere la speranza nelle donne che incontra attraverso cose concrete come la scuola, l’inserimento dei bambini, il lavoro, che quando non è sfruttamento da autonomia e libertà.
Suor Rita, in Casa del Magnificat come viene in contatto con le donne in pericolo?
La prima è stata Vera. Eravamo appena entrate in questa casa, non c’era niente, e stavamo dando forma a questo luogo semplice ma che io sento anche di bellezza.
Bisogna curare la bellezza, perché queste donne hanno bisogno molto di bellezza, sono ferite, confuse, hanno più sgabuzzini dentro che non belle stanze ariose e aperte. Bisogna liberare questi ripostigli interiori e l’ambiente aiuta molto.
Un giorno venne a trovarmi Don Antonio Coluccia (sacerdote impegnato da anni nella lotta alla criminalità nelle periferie, ndr) perché mi aveva conosciuto a Caserta e aveva pensato che l’unica che potesse aiutarlo fosse suor Rita. Accompagnava una giovane rom destinata ad un matrimonio combinato, che con l’intervento della polizia aveva fatto fuggire dal campo. Ma non avevano trovato posto in alcuni centri antiviolenza, bisognava aspettare i colloqui.
Abbiamo così deciso di accoglierla, d’accordo con l’ispettrice, fino a che non avrebbe fatto i colloqui. È entrata in questa casa, dallo stile familiare, dopo due settimane ha fatto i colloqui ma ha chiesto all’ispettrice di poter restare con noi. In effetti non eravamo ancora attrezzate, ma è bastato uno sguardo tra me e Vera e ho capito che dovevamo accoglierla, accettare questa sfida.
Questo scambio di sguardi ci ha fatto capire che noi non eravamo una “funzione” ma si realizzava l’incontro concreto con la persona.
Il resto è venuto giorno per giorno, ho chiesto ad una giovane signora che in fondo alla strada lavorava la ceramica se era possibile tenere impegnata una ragazza che ospitavamo. La signora ha accettato e lo abbiamo strutturato come fosse una lavoro di laboratorio, con orari, dove imparava un mestiere.
È nata una bella esperienza reciproca, a Vera piaceva, andava anche di pomeriggio, ha sviluppato una manualità. Nel frattempo le abbiamo chiesto cosa le sarebbe piaciuto fare, lei aspirava a fare l’estetista. Abbiamo trovato una scuola vicina ma costava tremila euro l’anno e durava tre anni. Ho pensato sbilanciamoci, rischiamo. Ho chiamato Flora, una signora nostra amica che ci ha anche aiutato a ristrutturare l’appartamento, il cui sogno era aiutare una ragazza.
Così si è presa cura di Vera riguardo la scuola. Insomma tutto è stato fatto con l’aiuto di una rete di donne amiche, che hanno creduto in questo progetto.
Bellissima storia di impegno e solidarietà, di affinità, siete rimase in contatto?
Certo, oggi Vera ha costruito la sua vita, la vora, fa l’estetista, è brava anche nel lavoro, abbiamo chiesto ad una signora della parrocchia che le affittasse una stanza, noi siamo garanti. Ha lasciato il fidanzato perché la controllava, ha comprato il peperoncino spray perché lui la stalkerizzava, non si sentiva tranquilla ed è tornata per una settimana da noi.
Ha una grande forza Vera e la determinazione di non tornare più nel campo rom. Sta facendo un cammino stupendo e dice che ha una famiglia, siamo noi. Questo le dà la forza. Non un centro ma una famiglia. Una famiglia allargata, che le ha permesso di sperimentare una vita normale, non una vita assistita. Penso che bisogna accompagnare alla vita. La vita non ti arriva cosi, la vita va, bisogna imparare e anche sbagliare.
Un’altra storia che vi è rimasta nel cuore?
Quella di Stella. Ci ha contattato l’operatrice di un’associazione segnalandoci una giovane donna che non riusciva ad inserirsi, a trovare un suo spazio, doveva uscire, non poteva più vivere nell’ambiente dov’era. Veniva dal Burkina Faso, non parlava italiano, con un bambino piccolo che sembrava autistico, una relazione difficile anche con la mamma. Sono andata ad incontrarla, le ho chiesto cosa volesse fare, voleva un lavoro e una casa. Ho allora deciso di accoglierla, a patto che si regalasse un tempo per sè, per studiare, per imparare l’italiano. Tuo figlio a scuola ma anche la mamma a scuola.
Questa è la condizione. Ci pensi e mi dai risposta. Era solo questa la condizione, perché non poteva trovare un lavoro se non quelli che si trovano nelle reti per farsi aiutare, una sorta di beneficenza, ma non promuove mai. Stella aveva 38 anni, non era facile, perché queste persone non hanno tempo da perdere.
Il giorno dopo mi ha chiamato per dirmi che voleva venire nella nostra casa, è venuta con un’operatrice a vederla. Aveva subito violenza, voleva entrare in un centro antiviolenza, il centro voleva che facesse la denuncia, ma lei non ce l’ha fatta, così il centro ha dovuto farla uscire e dunque ha trovato questa altra accoglienza.
Ho cercato di inserirla subito in un percorso scolastico, anche se era gennaio, per la licenza media. Ho attivato la rete degli insegnanti e ho detto alla preside che noi l’avremmo seguita a casa con una rete di volontari di supporto.
Abbiamo rischiato tutti e lei ha fatto il percorso. Piano piano nell’accompagnamento, il bambino che dopo tante visite sembrava fosse autistico, non lo era, in poco tempo si è rivelato sveglio e reattivo. Era arrabbiato, ma vedere la mamma che andava a scuola, che parlava italiano, riallacciare il rapporto con il papà, anche lui africano e ben inserito in Italia, cosa che per lei era stata invece molto difficile, gli ha fatto superare il blocco emotivo che aveva.
Abbiamo dato loro il tempo di comprendere una nuova realtà e di potersi relazionare, sostenendo un percorso che comprendeva anche il papà. Si è smontato tutto. Anche lui si è messo in gioco, lei ha sviluppato maggiori capacità e il bambino ha sbloccato la relazione con la mamma, a livello affettivo difficoltosa per entrambi.
Bisogna avere attenzione perché molto spesso si tratta di lavorare su queste relazioni. Ma richiede impegno. Spesso si danno giudizi affrettati e si incasellano storie e vite in una categoria, con percorsi ingessati. Oggi sono una famiglia bellissima, lei è felice, vengono a trovarci, le assistenti sociali che la seguivano hanno detto che è stato un miracolo.
C’è bisogno di luoghi che ricreino le relazioni, perché a volte abbiamo tante sovrastrutture, ma manca una visione d’insieme, una connessione dei tanti aspetti della vita di una persona.
Serve il coraggio di abitare dentro, di stare dentro la realtà e far lievitare, vedere se ci sono le possibilità. Se noi per primi non cogliamo le trasformazioni non si fa niente.
Potete contare su dei finanziamenti?
Noi abbiamo due pensioni minime, la casa ce l’ha data la parrocchia di San Gabriele dell’Addolorata in comodato d’uso gratuito. Non ci sono finanziamenti, è venuta anche l’assessora alle Politiche Sociali del Comune di Roma ma ho detto no. Nessun protocollo, vogliamo restare libere, è la più grande cosa, nessuno deve dirci cosa dobbiamo fare.
Ho visto quando ci portano qui delle ragazze con cammini che non hanno portato a niente, dove sembra che le donne debbano entrare nella funzionalità operativa del centro, e invece è il contrario. È la realtà che si deve adattare alla persona.
Anche l’assessora ha capito. E anche se le costava ha ritenuto che la nostra fosse la scelta migliore. Ci ha detto restate libere, così avete la libertà di progetti, di tempi, di investire sulle persone.
I progetti finiscono, invece per noi non finisce mai, perché facciamo famiglia e come famiglia non finiamo mai, continuiamo il rapporto con loro, anche quando sono fuori di qui.
Ecco questa credo sia la grande sfida, questo era il mio sogno: liberarci dalle strutture organizzative per creare una piccola fraternità, uno spazio di vita che continua a dilatarsi. Infatti adesso abbiamo una rete attorno di aiuti, accompagnamenti e qui siamo famiglia, le ragazze tornano quando vogliono consigli o ci vogliono presentare il loro ragazzo. Le accompagniamo, adesso sarò testimone al matrimonio di una di loro, l’accompagno a sposarsi. Ecco è una famiglia, la speranza abita la realtà.
In genere viene in mente quello che si conosce, percorsi preordinati, rodati. Avere un altro sguardo richiede una grande libertà e soprattutto passione. Pensare ad alternative meno scontate vuol dire crederci fortemente…
E’ così credere che il bene sia più forte, l’obiettivo è quello che mi sta a cuore, mentre si riempiono moduli la realtà cambia in un attimo, se trovo un lavoro di ceramica lasciami fare.
Perché devo costruire percorsi con tanti paletti che mi ingabbiano? E se alla ragazza poi non piace? Chiediamo sempre quello che vogliono fare in modo che sia la persona ad entrarci.
Il percorso vero è questo. È importante anche l’aspetto culturale, perché in tutto questo cammino fatto di una rete diffusa si porta avanti un messaggio che libera dai pregiudizi, fatto del riconoscimento e della valorizzazione dell’altro, di dialogo e di incontro tra culture e religioni altre.
Non credo tanto ai convegni e seminari, ne abbiamo fatti anche noi tanti, ma non hanno mai cambiato niente. È una questione di relazioni, fare incontrare le persone con la realtà, dove si mettono in gioco. Un percorso che mette le donne in cammino, se sentono che è una strada liberante, libera anche loro da tanti pregiudizi. E sono pronte a rimettersi in gioco. E questo vale anche per gli uomini, anche loro devono incontrare queste realtà.
Il compagno di Stella quando lei è stata pronta per un confronto ho accettato che la vedesse, andava trasformata anche la realtà di lui. Ho aspettato che maturassero i tempi e nel frattempo ho cercato di lavorare anche con lui, mentre lei trovava un cammino di liberazione.
Lavorare sulle relazioni è fondamentale, ma si può fare quando si è liberi e non si hanno interessi, non c’è da salvaguardare nessun progetto, quindi si ha la libertà di creare relazioni con tutti. Questo è il mio percorso, sono religiosa ma a volte trovo più libertà nel mondo laico.
In un mondo incandescente possiamo sperare ancora?
Il mondo così com’è mi fa molto soffrire e anche la chiesa per me dovrebbe essere più esplicita. Dare segni forti e dirompenti perché le cose cambino veramente. Il Vangelo è sovversivo.
Mi da speranza questa missione che vivo, questo fare casa, fare fraternità, mi mette le radici sulle cose che vedo che hanno la forza di trasformarsi. Con lentezza e pazienza, ma le cose cambiano.
Questo mi permette di guardare negli occhi ogni persona, ogni ragazza, vedere la preziosità di quegli occhi, di quello che c’è dentro, vedere la sua fioritura che prima o poi avverrà e questo mi dice che c’è qualcosa che si sta preparando, io voglio crederci.
La speranza deve abitare la storia, la fatica, il dolore. È un travaglio, stiamo partorendo, bisogna che abbiamo il coraggio di partorire qualcosa di nuovo.
In questo momento sentiamo molto dolore, sentiamo questa pesantezza, però non dobbiamo girarci dall’altra parte. Dobbiamo trovare ancora il respiro, trattenerlo, respirare, come fa una donna in sala travaglio, per far nascere qualcosa di nuovo.