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Messaggi dal fronte

La rivista è stata completata prima della presentazione del “Piano Trump”. Questo contributo va dunque letto alla luce di un contesto che non teneva ancora conto di tale proposta.

Questi quattro articoli raccolgono, con lo sguardo lucido e insieme partecipe di Ma- nuela Dviri, frammenti di vita quotidiana in un Paese attraversato dalla guerra. Non si tratta di cronaca fredda, ma di racconti dal fronte domestico e civile, dove la voce delle madri, dei familiari degli ostaggi, dei soldati e dei cittadini comuni si intreccia con il cinismo della politica.

Dal saluto trasformato in una preghiera – bsorot tovot, buone notizie – alle piazze gremite di proteste, dalle ferite aperte degli attentati al dolore muto dei funerali, dalle voci disperate delle famiglie fino alle mobilitazioni collettive: ogni articolo porta con sé la tensione tra la speranza di pace e la brutalità della guerra.

In queste pagine, le emozioni individuali diventano specchio di una condizione col- lettiva. Si racconta di Israele e di Gaza, ma anche, più in generale, di cosa significhi resistere quando la politica abdica al proprio compito e lascia spazio alla logica della forza. La scrittura di Dviri ci invita ad ascoltare queste voci – intime, dirette, spesso spezzate – che rivelano la fragilità di un’intera società, ma anche la sua volontà di non arrendersi.

di Manuela Dviri, scrittrice italiana naturalizzata israeliana

Bsorot tovot: in attesa di buone notizie

Bsorot tovot. In Israele, da quando viviamo immersi in questo incubo che sembra non avere fine, non ci si saluta più come prima. Il vecchio e rassicurante lehitraot – “arrivederci” – è quasi scomparso. Al suo posto, ci scambiamo un augurio che è insieme una speranza e una preghiera: bsorot tovot. Buone notizie. Possa finalmente arrivare una buona notizia. Che non arriva.

Ogni tanto, in questo clima pesante, qualcuno si ricorda che venticinque anni fa noi donne del movimento “Quattro Madri” riuscimmo a ottenere il ritiro dell’esercito israeliano dalla striscia di sicurezza in Libano. Perché allora sì e oggi no? Dopotutto era lo stesso premier, lo stesso Nethanyau.

Rispondo che ci riuscimmo con la politica, quando Ehud Barak capì che il popolo voleva il ritiro dal Libano e vinse le elezioni con la promessa del ritiro poi effettuato subito dopo. “I tempi sono diversi”, ha replicato Riki, la ricercatrice che mi stava intervistando. Le ho ricordato che anche ora le elezioni non sono lontane (sempre che il premier non riesca a spostarle o addirittura ad annullarle, per Netanyahu non c’è più nulla di sacro). E, notando che indos- sava una maglietta con la scritta “Madri al fronte”, gliene chiesi il motivo. Riki è divorziata e madre di due figli. Il maschio ha 25 anni, soldato riservista nel Genio combattente. Ha servito più di 400 giorni di servizio militare attivo dal 7 ottobre in poi.

“Come sta?” le chiedo. “È stanco di questa guerra sanguinosa”, risponde. “È stanco fisicamente e moralmente. Lo tiene in vita il senso del dovere, il fatalismo, la solidarietà tra commilitoni e soprattutto la speranza di trovare gli ostaggi e liberarli, ma per ora ne hanno trovati solo morti, murati nei muri, mutila- ti. Che ne sarà di questa generazione che ha visto scene e realtà terribili? Che ha ucciso ed è stata uccisa? Che ne sarà dei ragazzi che hanno visto coi loro occhi l’odio e la ferocia di un nemico, Hamas, che vede nella distruzione di Israele il suo principale obbiettivo? Questa è la ragione per cui faccio parte del gruppo Madri al fronte. Questa guerra deve finire, non allargarsi. Sono molto depressa e preoccupata perché il governo sfrutta il patriottismo di mio figlio e la sua ingenuità con un cinismo che non ha uguali”.

A confermarlo, il forum degli alti ufficiali democratici guidato da Yair Golan, (ex vice capo di Stato maggiore) aveva lanciato nelle stesse ore un grave avvertimento prima del voto al gabinetto sull’occupazione di Gaza: “L’occupazione”, aveva detto, “è una decisione disastrosa che condannerà gli ostaggi alla morte e comporterà un terribile prezzo di sangue tra i soldati. È una decisione puramente politica, messianica ed estremista. Il governo voterà per il sacrificio dei nostri figli e delle nostre figlie e sacrificherà il futuro e la reputazione dello Stato di Israele”.

Nelle stesse ore le strade si riempivano di gruppi in protesta. Combattenti post-traumatici, parenti degli ostaggi, madri e padri di soldati, ostaggi liberati e anche haredi che si rifiutano di fare il servizio militare (molto più violenti dei liberal-democratici delle dimostrazioni contro il governo).

Ma il premier raddoppiava comunque la scommessa, e al diavolo il Paese.

Ci sono già le date. Il 7 ottobre 2025 è simbolicamente previsto l’imposizione di un assedio sulla città di Gaza, dopodiché le forze armate inizieranno manovre operative all’interno della città.

Sono certa che i nostri figli e nipoti ci chiederanno un giorno dove eravamo quando tutto questo veniva deciso. Dove eravamo nei giorni in cui a Gaza gli ostaggi morivano di stenti e di fame e di sete, e i soldati veni- vano sacrificati sull’altare di una guerra già persa in partenza e i bambini morivano di fame e di sete e di stenti a Gaza (e non importa per colpa di chi).

E noi risponderemo che in centinaia di migliaia mai abbiamo smesso di lottare, di sperare in bsorot tovot per tutti coloro che vivono in questo lembo di terra. E che la disperazione non è un piano di lavoro.

L’attentato di Gerusalemme e il silenzio del governo

Durante la notte precedente Hamas aveva annunciato di essere pronto a tornare immediatamente al negoziato, sulla base della liberazione di tutti i prigionieri, il ritiro dell’IDF dalla Striscia, la fine della guerra e la creazione di un comitato di gestione per Gaza. In precedenza, gli Stati Uniti avevano trasmesso ad Hamas, tramite Gershon Baskin (già coinvolto nello scambio Shalit), delle linee guida per un accordo complessivo – non una proposta ufficiale e Trump annunciava che aveva avvertito – per l’ennesima volta – Hamas delle conseguenze di un loro rifiuto. “Questo è il mio ultimo avvertimento, non ce ne sarà un altro”, aveva detto.

Poi la mattina, l’attentato a Gerusalemme. Sembrava annunciato. Appena c’è un barlume di speranza succede qualcosa.

Come raccontare di un attentato che ha ucciso 6 persone e ne ha ferite 36, alcune gravemente? Come raccontare della paura che ti prende allo stomaco quando lo vieni a sapere? E la telefonata a una figlia che lavora a Gerusalemme, anche se sai benissimo che a quell’ora non doveva essere lì? E la vergogna quando Netanyahu e Ben Gvir, come sciacalli, arrivano sulla scena dell’attentato per fare politica. Il premier ha addirittura minacciato velatamente la Corte Suprema e il sistema giudiziario: “Anche voi siete parte di questa guerra”. Ha detto. “Colpirò i terroristi con forza e così dovreste comportarvi anche voi”. E poiché la sua agenda di imputato nel processo per corruzione e abuso di potere si è scontrata con quella del Primo Ministro, poco dopo si è rivolto al tribunale stesso: “Non comparirò oggi a testimoniare a causa di eventi di sicurezza. Se sarà possibile potrò testimoniare nel pomeriggio”. Ma che combinazione. Ci teneva tanto.

Per Israel Katz, il ministro della Difesa, l’attacco terroristico invece “avrà conseguenze gravi e di vasta portata”. Cos’altro si inventerà? Purtroppo riesco benissimo ad immaginarmelo.

Le immagini della corsa disperata di chi scappa all’impazzata dal luogo dell’attentato, ricordano, non a caso, quelle immortalate dai terroristi stessi del 7 ottobre, al Nova festival di musica. Nel caos, nel trauma e nella paura di queste ore l’atmosfera è greve, pesante. Gli allarmi suonano spesso per i missili o i droni che provengono dallo Yemen. Intercettati quasi tutti. Quasi. Nei media sono ricomparsi gli esperti e i commentatori. Ma cosa c’è da spiegare? Erano riusciti ad entrare nel Paese dalla Cisgiordania e non c’è rete di sicurezza che tenga in questi casi. Per fortuna sono stati immediatamente uccisi da due haredim, un soldato e un civile, il che dimostra che quando c’è bisogno possono riuscire anche loro a combattere per la propria vita e non solo a pregare.

Tra pochi giorni sarà il Capodanno ebraico, Rosh haShana. Silvia Cunio, madre di David e Ariel Cunio, ancora ostaggi a Gaza, dice: “Il 7 ottobre Ariel mi aveva scritto su whatsapp ‘Siamo entrati in un film dell’orrore’. Questo film continua ancora oggi. Voglio i miei figli con me a Rosh haShana”.

Tutti li vogliamo con noi. E la fine della guerra. E il ritorno alla politica, parola ormai dimenticata, in questi tempi in cui regna solo l’uso della forza.

Intanto Hamas, in seguito alla proposta del presidente Trump, ha fatto sapere: “Disposti a liberare un gran numero di ostaggi vivi il primo giorno, e tutti gli ostaggi – vivi e morti – in un altro giorno da concordare”.

Da parte del governo è silenzio. Non se ne può davvero più.

Guerra senza fine

Guerra chiama guerra, morte chiama morte. Martedì, il Paese ha seguito con dolore e partecipazione i funerali dei dieci morti. Sei nell’attentato, quattro, giovanissimi soldati, nella guerra senza fine a Gaza.

Poi, nella sera, l’esplosione a Doha. A quanto pare neanche tanto ben riuscita, tra l’altro. L’ennesima dimostrazione che la fine della guerra non era e non è nei mai stata nei propositi del governo Netanyahu, perché altrimenti non avrebbe colpito un mediatore. Quindi si continua l’occupazione di Gaza. E poi? Poi non si sa. Forse neanche lui lo sa. Continua a giocare a poker con le nostre e loro vite e a vivere alla giornata. Anche l’esercito, sebbene tergiversante, sta diventando un suo personale strumento e così ci sta provando col Mossad e la polizia.

“Ci assumiamo la piena responsabilità di questa operazione”, ha dichiarato il premier martedì sera. Ed è la prima volta in memoria umana che si dichiara responsabile di checchessia. Era evidentemente convinto, in quel momento, che fosse stata un grande successo. Invece sembra essere stato un flop, e lui darà certo la colpa al pilota o al Mossad o a chi ha materialmente compiuto l’atto.

Nel caos di vendetta e contro vendetta sono stati completamente dimenticati gli ostaggi e la negoziazione per la loro liberazione. I genitori e i parenti non hanno neanche più la forza di urlare la loro disperazione. Sono venuti in loro aiuto, in un atto che non manca di umorismo, tre premi Nobel israeliani per la chimica (Ada Yonath, Aaron Ciechanover e Avraham Hershko), che si dichiarano disposti a sostenere in modo inequivocabile l’assegnazione del premio Nobel per la pace al presidente Trump, qualora riesca a fermare la guerra e a garantire la liberazione di tutti gli ostaggi.

“Ora non rimane ai nostri ostaggi che compiere il loro destino e morire per la guerra nata per salvarli”, scrive invece Zvi Barhel per il giornale Haaretz. E agli attivisti non rimane che continuare a protestare, scendere in piazza. Urlare. Da lontano intanto ci arrivano solo boicottaggi, flottiglie e condanne che inaspriscono ancora di più gli animi. Poche ore fa un attentato. Due feriti gravi. Accoltellati. Siamo destinati a incontrare una catastrofe totale prima di essere capaci di fare politica e non la guerra?

Eppure è possibile. Il 20% dei cittadini israeliani sono palestinesi. In queste lunghe ore che sto passando in ospedale accanto al compagno della mia vita, è stato egregiamente curato da medici, infermieri e farmacisti palestinesi israeliani (o arabi israeliani). In entrambe le società, i conflitti passati sono ancora presenti, ma non ci impediscono di vivere insieme.

E insieme dovremo lavorare, alla fine di questo inferno, per il futuro.

Dal matrimonio alla piazza: preghiere di salvezza. Un grande evento di mobilitazione è in preparazione per sabato sera a Gerusalemme: due carovane partiranno da Tel Aviv e da Latrun, per dire basta alla guerra, chiedere il ritorno degli ostaggi e mettere fine a un regime che ha abbandonato il suo popolo. Alcuni giorni fa, durante il matrimonio di una giovane e bellissima coppia, sotto il baldacchino, la sposa ha chiesto al rabbino che celebrava la cerimonia di poter parlare. Con la voce rotta dall’emozione ha letto una preghiera per gli ostaggi ancora prigionieri a Gaza, per i feriti, per i traumatizzati, per i soldati mandati a combattere.

Per due minuti il clima gioioso della festa si è trasformato in un silenzio di tomba. In un atto di riflessione e solidarietà. Sappiamo bene che il dolore delle famiglie degli ostaggi è quasi inimmaginabile. Vedere un governo e un primo ministro indifferenti alla loro agonia li spinge alla follia. E toglie a noi, più fortunati, che festeggeremo il nuovo anno con i nostri figli, la possibilità di gioire davvero. È una ferita profonda nel corpo del Paese, difficile da rimarginare – forse impossibile.

Da alcuni giorni la protesta si è spostata davanti alla residenza del primo ministro. Le famiglie gridano insieme, con una voce spezzata e allo stesso tempo implacabile. Questa sera, promettono, si incateneranno lì.

Qualche giorno fa Yael Adar, madre di Tamir Adar, ostaggio a Gaza, ha detto: “La sera prima che un accordo fosse finalmente sul tavolo, ancora una volta è stato deciso l’attacco ai dirigenti di Hamas con i quali dovremmo invece negoziare la liberazione dei nostri cari. Chiedo al governo di Israele di presentarsi davanti alle famiglie e spiegare una volta per tutte come pensa di riportare a casa i nostri figli”. Einav Zangauker, sempre più pallida e smagrita fino a sembrare quasi trasparente, ha dichiarato: “Io tremo di paura. Può darsi che proprio in questi istanti il primo ministro abbia di fatto assassinato il mio Matan, deciso la sua sorte… La vita di mio figlio pende da un filo. Ancora e ancora il primo ministro sabota l’accordo. Basta! Finite questa guerra e riportate indietro tutti con un’intesa complessiva”. E ancora, rivol- gendosi a Sara Netanyahu: “Sara, esci e dì come mi hai guardato negli occhi e mi hai mentito dicendomi che stavate per portare a termine un accordo”.

Izik Horne, padre di Eitan ha aggiunto: “Un pazzo, insieme a un gruppo di fanatici chiamato ‘gabinetto di sicurezza ’, ha deciso di fare di tutto per portare alla morte di mio figlio”.Questi genitori non chiedono vendetta: chiedono salvezza. Parlano con la forza della disperazione, ma anche con la forza di chi non ha il lusso di potersi arrendere. Neanche noi ci possiamo arrendere. Ne va della nostra vita. 

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