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Il mondo migliore di sempre: perchè oggi la speranza ha ancora senso

Tra guerre, crisi e catastrofi sembra che il pianeta vada a rotoli. Ma i dati raccontano un’altra storia: povertà, fame e malattie ai minimi storici, aspettativa di vita e diritti in crescita. Non siamo all’inizio del declino, ma all’apice del progresso. Basta alzare il naso e avere uno sguardo globale.

Introduzione

Apri un giornale, accendi la televisione, scorri i titoli su uno smartphone: il mondo sembra costantemente sull’orlo del baratro. Guerre in Medio Oriente e in Africa, tensioni tra superpotenze, catastrofi ambientali, crisi economiche, proteste di piazza. La cronaca quotidiana sembra cucita su un filo di emergenze e disastri, al punto che diventa naturale credere che l’umanità stia regredendo, incapace di imparare dai propri errori.

Eppure, questa immagine è solo parziale. I media – per loro stessa natura – tendono a enfatizzare ciò che non funziona: i crolli, le tragedie, i conflitti. Le buone notizie raramente occupano le prime pagine, perché non generano lo stesso livello di attenzione e allarme. Ma ciò che scorre sotto la superficie, nei dati e nelle tendenze di lungo periodo, racconta una storia sorprendentemente diversa.

Se alziamo lo sguardo oltre il flusso quotidiano, se sostituiamo l’orizzonte ristretto della breaking news con una prospettiva di venti o trent’anni, scopriamo che il mondo di oggi non è affatto peggiore: al contrario, non è mai stato così prospero, sicuro e vivibile per la maggioranza della popolazione.

Questa affermazione può sembrare contro-intuitiva, quasi provocatoria, ma è supportata da una quantità crescente di evidenze: indicatori economici, sociali e sanitari che convergono in un’unica direzione. Certo, i problemi restano – e non sono piccoli – ma guardando al quadro generale, il bilancio è positivo. Questo articolo vuole raccontare proprio questa realtà nascosta: un viaggio tra numeri e storie che dimostrano come, nonostante tutto, gli ultimi decenni siano stati i migliori nella storia dell’umanità.

Il paradosso dell’informazione

Se il mondo è davvero migliorato così tanto, perché allora percepiamo il contrario? La risposta sta nel modo in cui l’informazione viene prodotta e consumata. Le cattive notizie fanno più rumore delle buone. È un fenomeno noto agli studiosi di psicologia cognitiva come negativity bias: il nostro cervello è programmato per prestare maggiore attenzione a ciò che può rappresentare un pericolo. Nelle società antiche era un vantaggio evolutivo – accorgersi di una minaccia poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Nel mondo iperconnesso di oggi, però, questo meccanismo si traduce in un’esposizione continua a scenari catastrofici, che deformano la percezione della realtà.

A questo si aggiunge la logica stessa dei media. Un conflitto armato, un attentato terroristico o una crisi finanziaria catturano immediatamente l’attenzione del pubblico, generano click, visualizzazioni, abbonamenti. Al contrario, il lento declino della povertà estrema o la progressiva riduzione della mortalità infantile non hanno lo stesso appeal narrativo. Sono processi graduali, difficili da raccontare in un titolo o in un servizio televisivo. Così, finiscono ai margini.

Non è sempre stato così evidente. Solo qualche decennio fa, le notizie viaggiavano lentamente: una guerra locale in Africa o in Asia poteva restare confinata per settimane alle pagine interne dei giornali. Oggi, invece, grazie ai social e alle piattaforme digitali, veniamo informati in tempo reale su ogni crisi, ovunque avvenga. È come se il mondo intero fosse diventato il nostro quartiere: ogni ferita, anche la più distante, arriva direttamente a casa nostra.

Il risultato è un paradosso: viviamo nell’epoca di maggiore benessere globale, ma ci sentiamo più insicuri e vulnerabili di quanto non fossero le generazioni precedenti. Non perché i pericoli siano aumentati, ma perché la nostra capacità di percepirli è diventata più acuta e costante. La realtà, insomma, non è mai stata così positiva, ma la narrazione che ci avvolge ci convince del contrario.

Indicatori globali di progresso

Quando si parla di “miglioramento del mondo” non si tratta di ottimismo ingenuo, ma di dati concreti. Negli ultimi decenni, istituzioni come la Banca Mondiale, le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e la FAO hanno raccolto statistiche che mostrano un trend chiaro: l’umanità, nel suo complesso, sta meglio di quanto non sia mai stata nella sua storia.

Povertà estrema: un crollo storico
Forse il dato più impressionante riguarda la povertà assoluta, definita dalla Banca Mondiale come la condizione di chi vive con meno di 1,90 dollari al giorno (in parità di potere d’acquisto). Negli anni ’50 circa il 60% della popolazione mondiale viveva sotto questa soglia. Nel 1981 la percentuale era scesa al 40%. Nel 2016, secondo i dati ufficiali della World Bank, era arrivata al 10%. Mai così bassa. Significa che miliardi di persone sono uscite da una condizione di sopravvivenza quotidiana, entrando in un orizzonte di possibilità prima inimmaginabili.

Crescita economica: Sud globale protagonista Un altro segnale incoraggiante arriva dalle classifiche sulla crescita economica. La Nasdaq, che analizza i paesi con i tassi di sviluppo più rapidi, ha inserito nella top ten quasi esclusivamente nazioni africane e asiatiche, con l’unica eccezione della Guyana sudamericana. È un’inversione di prospettiva importante: le aree che un tempo erano considerate irrimediabilmente arretrate oggi guidano la corsa, grazie a innovazioni tecnologiche, investimenti infrastrutturali e mercati in espansione.

Mortalità infantile: mai così bassa Secondo l’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1990 morivano ogni anno oltre 12 milioni di bambini sotto i 5 anni, per cause spesso prevenibili come infezioni respiratorie, diarrea, parto non sicuro. Nel 2017 quel numero si era più che dimezzato, scendendo a 5,4 milioni. Ogni vita persa è ancora un dramma, ma la riduzione resta un traguardo epocale. In poco meno di trent’anni, milioni di famiglie hanno visto sopravvivere figli che, in altre epoche, non avrebbero avuto possibilità.

Fame nel mondo: un declino senza precedenti Anche il numero di morti per fame è crollato in maniera vertiginosa. Negli anni ’60, secondo la FAO, si registravano circa 50 morti per fame ogni 100.000 abitanti, pari a circa 3,5 milioni di persone l’anno. Negli ultimi dieci anni, il dato si è ridotto a 0,5 per 100.000, cioè circa 35.000 morti a livello globale. Una differenza che misura non solo la disponibilità di cibo, ma anche il miglioramento delle reti logistiche e degli interventi umanitari.

Malattie: la medicina fa la differenza
L’OMS certifica progressi straordinari anche sul fronte sanitario. La malaria, che a inizio anni 2000 uccideva più di un milione di persone l’anno, oggi fa registrare circa la metà delle vittime grazie a reti di protezione, terapie più efficaci e campagne di prevenzione. Malattie come la poliomielite e il tetano neonatale, un tempo diffuse, sono oggi prossime all’eradicazione in gran parte del mondo. La poliomielite, ad esempio, è rimasta endemica solo in pochissimi paesi e conta ormai qualche centinaio di casi all’anno, contro le centinaia di migliaia degli anni ’80.

Uno sguardo al passato: la vita nell’Ottocento Per rendere ancora più chiara la portata del cambiamento, basta guardare indietro di poco più di un secolo. Alla fine dell’Ottocento, secondo le stime storiche raccolte da Our World in Data e dall’ONU, l’aspettativa di vita media a livello globale era tra i 30 e i 35 anni. E’ un dato naturalmente abbassato dall’alta mortalità infantile che superava il 30% in molte aree europee e arrivava al 40% in quelle più povere. Epidemie come colera, tubercolosi e vaiolo decimavano intere comunità. Nessun antibiotico, nessun vaccino diffuso, scarsa igiene pubblica: condizioni che oggi ci sembrano inimmaginabili erano la normalità.

In Europa e negli Stati Uniti, le prime rivoluzioni industriali avevano creato ricchezza per pochi, ma la grande maggioranza della popolazione viveva ancora in condizioni precarie. Nello stesso periodo, la povertà estrema riguardava circa l’80% della popolazione mondiale. Confrontare quei numeri con i dati attuali – 10% di povertà estrema, aspettativa di vita sopra i 70 anni, mortalità infantile sotto il 5% – permette di capire quanto la nostra epoca, pur con i suoi problemi, rappresenti un salto di civiltà straordinario.

Il decennio migliore della storia umana

Se dovessimo scegliere un periodo storico in cui nascere, guardando ai dati, la risposta sarebbe semplice: adesso. L’ultimo decennio, per molti parametri, è stato il migliore della storia dell’umanità.

Non è un’affermazione retorica, ma la sintesi di quanto emerge dai principali rapporti internazionali: dal Human DevelopmentReportdelle Nazioni Unite ai dati dell’UNESCO, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità alla Banca Mondiale. Tutti convergono su un punto: mai così tante persone hanno avuto accesso a condizioni di vita dignitose, cure mediche, istruzione e diritti civili.

L’alfabetizzazione come chiave di futuro Secondo l’UNESCO, il tasso globale di alfabetizzazione ha raggiunto l’86%, mentre nel 1950 era appena sopra il 40%. Significa che miliardi di persone possono oggi leggere, scrivere, informarsi, studiare. La differenza non è solo culturale: l’istruzione si traduce in migliori opportunità lavorative, in più salute, in maggiore consapevolezza dei propri diritti.

Acqua e servizi essenziali
Un altro dato emblematico riguarda l’accesso all’acqua potabile. L’OMS e l’UNICEF stimano che negli ultimi vent’anni oltre 2 miliardi di persone abbiano ottenuto per la prima volta accesso a fonti sicure. In termini storici, è un progresso straordinario: per millenni la mancanza d’acqua pulita è stata una delle principali cause di mortalità.

Diritti e inclusione
Anche sul piano dei diritti civili, gli ultimi dieci anni hanno segnato un’accelerazione senza precedenti. Più paesi hanno introdotto leggi contro le discriminazioni, hanno riconosciuto pari diritti alle donne e alle minoranze, hanno ampliato le libertà individuali. La Banca Mondiale sottolinea, ad esempio, che sempre più paesi hanno riformato le leggi per garantire alle donne pari accesso al lavoro e alla proprietà.

Conflitti: meno frequenti, meno letali
È vero che oggi ci sono circa 40 conflitti armati nel mondo, ma il quadro generale è diverso rispetto al passato. Il Peace Research Institute di Oslo ricorda che nel corso della Seconda guerra mondiale morirono più di 60 milioni di persone in sei anni; negli anni ’80, le guerre civili e i conflitti regionali provocavano centinaia di migliaia di vittime l’anno. Oggi, pur con tragedie gravi e ancora aperte, il numero di morti per conflitti è drasticamente inferiore in proporzione alla popolazione mondiale. Mai, nella storia

umana, un conflitto ha colpito così poco la percentuale di persone viventi. Inoltre rispetto al passato ci sono enormi aree del globo che non vedono un conflitto da decenni (Europa, Nord America, alcune pari dell’Asia, l’Oceania).

Una generazione più sicura, ma più insicura Il paradosso è che, mentre gli indicatori descrivono un decennio record per la qualità della vita, la percezione collettiva è opposta: ci sentiamo costantemente in pericolo. La diffusione dei media digitali e la velocità con cui le crisi vengono raccontate hanno generato un senso di fragilità permanente. Viviamo meglio che mai, ma spesso non ce ne accorgiamo. In realtà, per milioni di persone nel mondo, questo decennio è stato quello che ha regalato più speranza, più opportunità, più possibilità di sopravvivenza e di crescita. Non è il paradiso in terra, ma è il punto più alto mai raggiunto nella lunga e tormentata storia dell’umanità.

Oltre la miopia dell’immediato

Una delle caratteristiche della società contemporanea è la sua ossessione per l’immediato. Viviamo immersi in un tempo breve, scandito da trimestri economici, cicli elettorali, breaking news. Ci abituiamo a misurare il mondo con l’unità di misura dell’urgenza, dimenticando che i processi sociali e storici richiedono decenni per dispiegarsi.

Questa miopia temporale alimenta la sensazione che tutto stia peggiorando. Ogni crisi, ogni recessione, ogni emergenza ambientale viene vissuta come definitiva, senza prospettiva storica. Eppure, quando allarghiamo lo sguardo, il quadro cambia radicalmente: su venti o trent’anni la direzione è chiara, ed è una direzione di progresso.

La riduzione della povertà estrema, il crollo della mortalità infantile, il calo delle vittime per fame o malattie non sono successi che accadono da un giorno all’altro. Sono il frutto di politiche pubbliche, innovazioni tecnologiche, cooperazione internazionale e cambiamenti culturali che maturano lentamente. È come osservare una pianta crescere: da vicino sembra immobile, ma se la guardiamo a distanza di mesi, la trasformazione è evidente.
La logica consumistica del “tutto e subito” ha colonizzato anche il nostro modo di guardare al mondo. Ma la realtà sociale non si misura in istanti: richiede un orizzonte lungo, pazienza e capacità di riconoscere i progressi che non fanno notizia perché non accadono in un giorno solo.
Il rischio, se restiamo prigionieri del presente, è duplice: da un lato sottovalutiamo i risultati già raggiunti, dall’altro smettiamo di credere che sia possibile migliorare ancora. È invece proprio l’analisi storica a dirci che i prossimi decenni possono essere persino migliori di quelli appena trascorsi, se manteniamo la rotta.

La speranza ha senso di esistere oggi più che mai

Ogni epoca ha avuto la tentazione di considerarsi sull’orlo del declino. I romani temevano la fine dell’Impero, gli europei del Medioevo vedevano ovunque segni apocalittici, nel Novecento due guerre mondiali sembravano aver sepolto ogni speranza. Eppure, se oggi confrontiamo il nostro presente con qualsiasi altro momento della storia, la bilancia pende a nostro favore: più salute, più istruzione, più opportunità, più diritti.

Questo non significa negare le sfide che restano: i conflitti, la crisi climatica, le disuguaglianze, le fragilità economiche. Significa però riconoscere che la storia recente dell’umanità dimostra la capacità di affrontare problemi giganteschi e di ridurre sofferenze che un tempo sembravano inevitabili.

Il messaggio, allora, è duplice. Da un lato, non lasciamoci ingannare dal flusso incessante delle cattive notizie: raccontano pezzi di realtà, ma non l’intero quadro. Dall’altro, coltiviamo un realismo speranzoso: se i progressi degli ultimi decenni sono stati possibili, nulla vieta che quelli futuri possano andare ancora oltre.

Non stiamo vivendo tempi peggiori, ma i tempi migliori che l’umanità abbia mai conosciuto. E i dati ci dicono che probabilmente il meglio deve ancora venire. Serve solo il coraggio di guardare oltre l’immediato e di credere che la storia, nonostante inciampi e battute d’arresto, continua a muoversi nella direzione giusta.

Impossibile trovarlo, che spesso emerge il bene. La speranza non è mai assente, anche quando sembra soffocata. Bisogna solo avere la pazienza e la sensibilità per rintracciarla, scavando dietro i muri delle celle, nelle strade delle periferie, negli sguardi di chi vive quotidianamente il peso della marginalità. È un esercizio faticoso ma necessario: non fermarsi alle apparenze, non accontentarsi di una narrazione stereotipata, ma riconoscere i segni di umanità che resistono, anche nei contesti più duri. In fondo, la speranza è proprio questo: la capacità di rintracciare.

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