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Dov’è la speranza – Intervista a Domenico Iannacone

Intervista a Domenico Iannacone – Giornalista, regista e autore televisivo, ha fatto della narrazione delle periferie e delle fragilità sociali il cuore della sua ricerca.

di Annamaria De Paola

Giornalista, regista e autore televisivo, ha fatto della narrazione delle periferie e delle fragilità sociali il cuore della sua ricerca. Inviato di punta di Ballarò e Presa Diretta (Rai3), ha ideato e condotto I dieci comandamenti. Dal 2019 è autore e protagonista di Che ci faccio qui, tra i programmi più seguiti e premiati del servizio pubblico. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui cinque Premi Ilaria Alpi, il Paolo Borsellino, il Goffredo Parise, il Premiolino e il Franco Cuomo. Alcuni suoi lavori hanno ottenuto prestigiosi premi internazionali, come il Civis Media Prize di Berlino, il Real Screen Awards di Los Angeles e il PeaceJam Jury Award di Montecarlo. Oggi è considerato una delle voci più autentiche e autorevoli del giornalismo civile italiano. Dal 2024 con Che ci faccio qui, in scena, porta il suo racconto civile a teatro, intrecciando inchiesta, memoria e denuncia. Il suo stile fonde il rigore del giornalismo con lo sguardo del cinema neorealista e la potenza del racconto del reale. Gli abbiamo chiesto di condividere con noi il suo sguardo su una parola tanto semplice quanto necessaria: speranza.

Lei ha raccontato le ferite nascoste del Paese, dalle carceri alle periferie. In quei luoghi di fragilità, che cosa le ha insegnato a riconoscere il volto della speranza?

Quando ti addentri in luoghi marginali e apparentemente senza luce, devi avere il coraggio di andare oltre il primo sguardo. Carceri, periferie, comunità isolate: spesso vengono raccontate come spazi di sola emarginazione o di reclusione, ambienti segnati dal degrado e dall’assenza di prospettive. Ma se ci si limita a questa lettura superficiale, si perde l’essenziale. Occorre imparare a guardare con occhi diversi, più profondi, capaci di cogliere ciò che non appare. In quella che sembra soltanto disperazione, si nascondono invece gesti di solidarietà, parole di affetto, relazioni che tengono in vita un tessuto umano prezioso. È proprio lì, dove sembrerebbe impossibile trovarlo, che spesso emerge il bene. La speranza non è mai assente, anche quando sembra soffocata. Bisogna solo avere la pazienza e la sensibilità per rintracciarla, scavando dietro i muri delle celle, nelle strade delle periferie, negli sguardi di chi vive quotidianamente il peso della marginalità. È un esercizio faticoso ma necessario: non fermarsi alle apparenze, non accontentarsi di una narrazione stereotipata, ma riconoscere i segni di umanità che resistono, anche nei contesti più duri. In fondo, la speranza è proprio questo: la capacità di rintracciare un frammento di luce dove tutti vedono solo oscurità.

Da dove nasce la sua urgenza di dare voce a chi resta invisibile?

Credo che questa urgenza abbia radici molto lontane, nel tempo della mia infanzia. A tredici anni vidi per la prima volta Ladri di biciclette di Vittorio De Sica: un film che, con la sua apparente semplicità, spalancò dentro di me una voragine. La vicenda era lineare – un uomo a cui viene rubata la bicicletta, unico strumento per lavorare e mantenere la famiglia – ma dentro quella storia c’era tutta la forza del dolore, della fragilità e, insieme, della dignità umana. Quel film mi ha insegnato che il dramma più profondo può nascondersi dentro le pieghe di una umanità che non sa difendersi, dentro le storie minime di chi spesso è schiacciato dalla vita. Da allora ho sentito che il mio compito era proprio questo: raccontare gli ultimi. Non con pietismo o retorica, ma con la crudezza della verità, che è l’unico modo per restituire dignità a chi vive ai margini. Ho imparato che dietro un fatto che può sembrare piccolo
una bicicletta rubata, un gesto quotidiano
si cela spesso un mondo intero, fatto di dolore, resistenza e speranza. In questo percorso di consapevolezza, col tempo, la parola è diventata la mia compagna di viaggio. Da ragazzo giocavo a imparare parole nuove, sfogliando il vocabolario che avevamo in casa, come se fosse un romanzo da esplorare. Quelle parole difficili, custodite nella memoria, divennero i primi strumenti per dare forma ai pensieri. A diciassette anni pubblicai le mie prime poesie, accolte da una rivista letteraria romana. Un passo che mi fece entrare in contatto con grandi poeti e mi confermò che la scrittura poteva essere un ponte verso gli altri. È stato l’intreccio di cinema e letteratura a guidarmi, passo dopo passo, verso il giornalismo. La necessità di dare voce a chi non ne ha, di illuminare storie minime e invisibili, è diventata per me non solo una scelta professionale, ma una vocazione. Una responsabilità civile e morale che mi accompagna ancora oggi, ogni volta che racconto una vita che altrimenti resterebbe taciuta.

C’è un incontro, una storia, uno sguardo che l’ha cambiata profondamente?

Sono tanti. Ogni storia che ho incontrato lungo il cammino ha lasciato un segno, costringendomi a cambiare prospettiva, a guardare la realtà da un’angolatura diversa. Non si tratta solo di episodi da raccontare: sono esperienze che entrano dentro di te, che ti abitano e continuano a lavorarti dentro anche a distanza di anni. Ricordo Pierpaolo, un ragazzo con sindrome di Down che si prendeva cura della madre malata di Alzheimer. Vedere un figlio così giovane assumersi con amore e determinazione un compito tanto gravoso mi ha fatto ribaltare il concetto stesso di fragilità. Davanti a lui la fragilità l’ho sentita mia, non sua. Ho compreso che non coincide con la mancanza di forza, ma può diventare la più alta forma di resistenza e di responsabilità verso l’altro. Un altro incontro che porto nel cuore è quello con Ezio Bosso. Con lui ho compreso che la sofferenza, quando non resta chiusa in sé stessa, può diventare linguaggio universale, una porta aperta sul mondo. La sua musica, le sue parole, la sua capacità di trasformare il dolore in condivisione erano e sono un messaggio potentissimo. Diceva: “È una bugia che qualcuno non abbia bisogno di aiuto”. Quella frase continua a risuonarmi dentro, come un monito e un invito a non dimenticare mai la nostra comune vulnerabilità. Sono esperienze che non si consumano nell’attimo in cui le vivi. Ti restano dentro, come i film che rivedi dopo anni e che ogni volta ti parlano in modo diverso, svelandoti significati nuovi. E allora ti accorgi che sei cambiato tu, che sei diventato un’altra persona anche grazie a quelle vite incontrate lungo il cammino. È questa, forse, la cosa più straordinaria del mio lavoro: la possibilità di cambiare ogni giorno, grazie alle storie degli altri.

Nei suoi racconti emergono vite segnate da ingiustizie e vulnerabilità. In che modo il giornalismo può trasformare quel dolore in un seme di speranza collettiva?

La mia narrazione non è mai neutrale né distaccata: non mi limito a osservare dall’esterno, ma entro nelle vite delle persone che incontro, e inevitabilmente loro entrano nella mia. È un processo osmotico, fatto di scambi silenziosi e reciproci: mentre io cambio raccontando le loro storie, anche i protagonisti cambiano nel momento in cui si sentono riconosciuti, ascoltati, restituiti alla dignità della parola pubblica. Il giornalismo, se vuole avere un senso, non deve limitarsi a descrivere il dolore: deve farsene carico, trasformarlo in consapevolezza collettiva. Ho visto destini cambiare davvero grazie al potere del servizio pubblico. Ragazzi dimenticati, famiglie invisibili, comunità relegate ai margini hanno trovato nel racconto uno spazio di riscatto, un modo per uscire dal silenzio. È questo il compito più alto della televisione: non offrire solo uno sguardo, ma una possibilità. La narrazione, quando riesce a restituire umanità, diventa strumento di giustizia. Perché raccontare una ferita non serve a suscitare commiserazione, ma a innescare processi di cambiamento, individuale e collettivo. Per questo credo che il servizio pubblico abbia una missione precisa: incidere sulla realtà, migliorare la vita delle persone, aprire spiragli di speranza là dove sembrava esserci solo oscurità.

Se dovesse descrivere la speranza con un’immagine, quale sceglierebbe?

Penso alla scuola di Caivano e alla preside Eugenia Carfora. In un contesto segnato da degrado, violenza e assenza di prospettive, lei ha avuto il coraggio di trasformare un edificio scolastico in un presidio di rinascita civile. La sua figura incarna la tenacia di chi non si arrende, di chi crede che anche nei luoghi più difficili sia possibile seminare futuro. La scuola, più di ogni altro spazio, è il luogo in cui si ricostruisce comunità. Non è solo il posto dove si trasmettono nozioni, ma il laboratorio in cui i ragazzi imparano a vivere insieme, a riconoscere i propri talenti, a sentirsi parte di un progetto collettivo. Vedere Eugenia, con la forza della sua determinazione e della sua visione educativa, cambiare il destino di tanti giovani è per me l’immagine più potente della speranza.
La speranza non è un concetto astratto: è fatta di volti, di gesti quotidiani, di scelte che diventano esempio. E quando questi gesti riescono a incidere sulla vita di intere generazioni, allora diventano simboli. Eugenia Carfora, con la sua scuola a Caivano, ha dimostrato che anche nei territori più fragili può nascere un seme di cambiamento capace di fiorire e di restituire dignità a un’intera comunità.

Viviamo in una fase storica segnata da conflitti, povertà e crisi ambientali. Quali strade concrete vede per riaccendere la speranza?

Viviamo in un’epoca segnata da guerre, povertà diffuse, crisi ambientali e migrazioni troppo spesso respinte o non accolte con umanità. È un tempo duro, quasi decadente, in cui sembra prevalere la sfiducia verso l’altro e la paura del futuro. Eppure, credo che proprio dai momenti più traumatici possa nascere la possibilità di un rinnovamento autentico. La storia ci insegna che dalle ferite più profonde possono germogliare energie nuove, più consapevoli, più solidali. Sono convinto che la ripartenza debba passare soprattutto dai giovani. Noi adulti abbiamo già percorso gran parte del nostro cammino, con luci e ombre. Ma sono le nuove generazioni che devono diventare protagoniste del futuro: a loro va affidata non solo la possibilità di mondi diversi, ma anche lo spazio reale per costruirli. Dare fiducia, riconoscere il loro valore, aprire loro strade di responsabilità: questa è la vera ripartenza. Perché un futuro senza giovani coinvolti, ascoltati e responsabilizzati non ha radici né prospettive. La speranza, oggi, può e deve diventare la parola, il simbolo di una rigenerazione che parte proprio da loro, dal coraggio di affidare il futuro a chi ancora ha la forza e il diritto di sognarlo.

Dopo anni di viaggi e incontri, se oggi qualcuno le chiedesse: “dov’è la speranza?”, che cosa risponderebbe?

Negli occhi di chi si ferma accanto agli ultimi. Penso a Lorena Fornasir, psicologa in pensione che ogni giorno, a Trieste, con il suo carrellino cura i piedi dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica. Toccando quei corpi martoriati restituisce soggettività e valore alla persona, ricostruisce il corpo sociale dell’uomo. In quel momento della cura si crea uno spazio di accoglienza, autentico e profondo. Per me lei è una “santa laica”: il suo rito quotidiano cambia i destini di chi incontra. La speranza abita lì, in quell’atto di accoglienza semplice e radicale, capace di restituire dignità e ricomporre frammenti di umanità.

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