[donation_link]

Dall’ebraismo al cristianesimo e ritorno: il Giubileo e i Canti di Salomone Rossi

di Stefano Patuzzi – Musicologo edebraista

Dobbiamo a Dante una delle prime, memorabili istantanee del Giubileo cristiano, nel canto della Commedia in cui paragonò la marcia dei dannati a quella dei pellegrini che, «come i Roman per l’essercito molto, / l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso ’l castello e vanno a Santo Pietro, / da l’altra sponda vanno verso ’l monte»1. La bolla di istituzione del Giubileo venne infatti emanata da papa Bonifacio VIII nell’anno di grazia 1300. Si susseguirono poi, nei secoli, intervalli variabili da un Giubileo al successivo e furono indetti Giubilei straordinari ma, da allora, la ricorrenza è giunta fino a noi senza soluzione di continuità.
Com’è facile immaginare, l’origine del Giubileo affonda le proprie radici nella tradizione ebraica. Ogni cinquant’anni (o ogni sette anni sabbatici, se si preferisce) nella Terra di Israele si lasciava infatti riposare il suolo per un anno, si restituivano le terre confiscate, si liberavano gli schiavi, con l’intento di annullare o mitigare le sperequazioni, fossero economiche o sociali. Alla luce della sua straordinarietà, della sua centralità, della sua natura anche giuridica il giubileo era evento che andava dunque socializzato. Per questo motivo—così che tutti ne fossero informati—il suo inizio era scandito sonoramente dal suono stentoreo di un corno d’ariete, in ebraico yovèl, donde il nome.

Costituisce, il Giubileo, uno degli innumerevoli elementi cristiani le cui radici affondano profondamente nell’ebraismo. Nel tragitto curvilineo dall’ebraismo al cristianesimo a questi elementi vennero naturalmente attribuiti via via significati differenti e nuovi; com’è facile immaginare, questa risemantizzazione risultò in molti modi funzionale all’ambito religioso e culturale di approdo. Per quanto il procedimento sia agevolmente intuibile, tutt’altro che ovvio è talora l’esito: citerò, per tutti, la celebrazione dell’ultimo Pésach(la Pasqua ebraica) da parte di Gesù rifunzionalizzata nell’Ultima Cena che si rimemora nella ricorrenza liturgica del Giovedì Santo; e via via.

È quindi di particolare interesse andare alla ricerca di momenti nella storia in cui si sia inverata una dinamica inversa, ossia quando espressioni consolidate della tradizione cristiana vennero importate in ambito ebraico, divenendo così punti essenziali all’interno della storia del giudaismo.

Un caso intrigante, da questa angolazione, è dato dal primo esempio a stampa in assoluto di musiche polifoniche su testo ebraico, ossia I canti di Salomone (in ebraico Hashirim ’asher liShelomoh), apparsi a Venezia nell’anno ebraico 5383, il 1622/23 secondo il
computo corrente2. Il compositore, Salomone Rossi (ca. 1570-?, ca. 1630?), si formò e visse a Mantova, a quel tempo una delle città ebraicamente più rilevanti della Penisola italiana, in un momento storico in cui questa ospitava la popolazione ebraica più numerosa d’Europa3.
Non v’è dubbio che I canti di Salomone siano tra i frutti più maturi prodotti in seguito all’istituzione del ghetto di Mantova, conclusasi nel 1612 per volere del duca Vincenzo Gonzaga (1587-1612) dopo un processo di pianificazione e attuazione durato all’incirca un decennio.4 Va rammentato in questo contesto che il ghetto non si ammantava di valenze solamente limitanti: esso costituiva anzi un tassello urbano all’interno del quale vi era ciclicamente piena libertà d’azione, e tuttavia solo nel tempo precisamente delimitato che andava dalla chiusura serale dei portoni fino alla riapertura mattutina. Non sorprendentemente, a ben vedere, era questo il tempo in cui attività specificamente ebraiche ‒ anche in senso lato ‒ avevano luogo: rappresentazioni teatrali ed esecuzioni musicali, gesti di convenienza e vicinanza sociale, eccetera. Cruciale, in questa prospettiva, la consapevolezza che la chiusura dei portoni esterni si ammantava anche di una valenza metamorfosante: una trasformazione qualitativa dello spazio interno del ghetto, il quale veniva in un certo senso sia saturato, sia paradossalmente liberato.
Per questi e altri motivi l’istituzione del ghetto normalizzò anche, da certo punto di vista, la presenza ebraica all’interno del tessuto sociale e urbano: ed è ben vero che “l’ammissione degli ebrei nella società cristiana fu trasformata, per mezzo del ghetto, dall’essere eccezionale e innaturale all’essere usuale e naturale”. 5
Torniamo dunque ai Canti di Salomone. I testi acclusi alle musiche mostrano che l’intento primario ‒ dunque del rabbino Leon Modena, verosimilmente l’ideatore dell’operazione, di Salomone Rossi, il compositore, dei rabbini che firmarono il privilegio, una sorta di copyright ‒ era di stabilire, fors’anche dimostrare, la liceità della musica all’interno del mondo giudaico e persino del servizio sinagogale. Come? Sostenendo che la musica, originariamente una creazione ebraica, fosse stata poi sottratta a Israele dagli altri popoli e dunque ‒ all’epoca di Salomone Rossi, dopo molti secoli ‒ essa costituisse di fatto un frammento di cultura ebraica rimasto fra le genti. Una visione storicamente infondata, certo (come molte altre, a quel tempo), ma del tutto necessaria all’operazione che rese possibili l’ideazione e la stampa dei Canti: ammettendo un’origine ebraica della musica in genere, e dunque anche della musica cólta italiana del tempo, si ponevano in effetti le basi per una riammissione della musica stessa all’interno dell’immaginario ebraico e rabbinico che sentiva quella musica, acusticamente e non solo, come estranea.

Un altro aspetto fondamentale da tenere in debito conto è dato dal concetto di “novità”, di primizia, tanto centrale da affiorare persino nel frontespizio stesso dell’opera, in cui i Canti vengono definiti chadashah ba’aretz, “una novità sulla Terra” (una citazione dal libro biblico di Geremia: 31,21). Del resto, nel privilegio rabbinico che accompagna i Canti, si legge che Salomone Rossi, grazie ai suoi sforzi, era divenuto “’adam harishon lehadpismusiqah‘ivrit”, “il primo uomo a stampare musica ebraica”.6

“l’istituzione del ghetto normalizzò anche, da certo punto di vista, la presenza ebraicaall’internodeltessuto sociale e urbano: ed è ben veroche“l’ammissionedegli ebrei nella società cristiana fu trasformata, per mezzo del ghetto,dall’essereeccezionale einnaturaleall’essereusualee naturale.”

Se tutto ciò pertiene a una prospettiva emic (ossia bottom up, dal basso verso l’alto: secondo la visione dei protagonisti di quella scena sociale e culturale), da un’angolazione etic (ossia top down, dall’alto al basso: osservando, dalla nostra ottica storiografica attuale, quegli avvenimenti del primo Seicento) si

impone un ordine differente e stimolante di considerazioni.In primo luogo in merito ai caratteri che questa importazione, in ambito anche sinagogale, assumeva. Da un punto di vista compositivo e stilistico va premesso che i Canti di Salomone Rossi ammiccano sia alla musica profana coeva (il madrigale per tutti, sebbene non nelle sue vesti più avanguardistiche) sia alla musica sacra (per tutti il mottetto). Casi piuttosto emblematici sono da un lato il Qaddish, dal sapore e dalle movenze che rimandano a quelle del genere vocale del balletto, dall’altro ad esempio ’Elohim hashivenu (“Signore, facci tornare”: salmo 80,4), il cui incipit presenta alcuni tratti che ricordano da vicino l’inizio di un mottetto di Orlando di Lasso (1532-1594): Cum essem parvulus 7. È dunque verosimile che, ai contemporanei di Salomone Rossi, l’ascolto attento di quelle composizioni rinviasse con immediatezza ora alla sfera sonora del sacro cattolico, ora a quella della musica, genericamente profana, che si udiva a corte: espressioni, entrambe, del medesimo gruppo dominante e maggioritario. 

“Salomone Rossi importò in realtà all’interno del mondo ebraico la musica cólta non- ebraica come risultato di un desiderio di accogliere (e replicare, facendolo proprio) un tratto distintivo di fondo della cultura “altra”. Va da sé che una dinamica simile va letta all’interno di una cornice nella quale il dislivello fra minoranza ebraica e maggioranza cristiana, quanto a status sociale e culturale, era macroscopico; tanto marcato da essere, per noi oggi, difficilmente immaginabile. ”

Da questo angolo visuale risulta pertanto curioso che la “musiqah ‘ivrit” ‒ ossia “musica ebraica” come vengono dette appunto le composizioni di Rossi nel privilegio rabbinico: la prima occorrenza, in assoluto, di questa espressione ‒ sia “ebraica” solo in un’accezione molto limitata. Da un punto di vista compositivo si tratta infatti di musica tecnicamente in tutto simile a quelle della tradizione cattolica, o della corte (a seconda dei casi). Dunque “ebraica” non certamente per quanto attiene alla composizione o alle sue caratteristiche tecniche, per così dire, ma in modo più plausibile con riferimento ai testi e ai contesti in cui i Canti risuonarono, fossero la sinagoga o altri luoghi specificamente ebraici.
Alla luce di questa dinamica di importazione si potrebbe sbrigativamente parlare di influenza, fors’anche di emulazione della cultura di corte, nello specifico di quella gonzaghesca. Eppure lo scacchiere complessivo invita a ritenere che fosse in gioco altro e di portata ben maggiore: il vettore che si è descritto conduceva infatti dalla corte ‒ e in determinati casi dalla cappella di corte, la basilica palatina di Santa Barbara ‒ verso il ghetto o in alcuni casi alla sinagoga, il cuore della sfera e comunitaria e del sacro ebraica. A un’analisi più approfondita appare infatti chiaro che Salomone Rossi importò in realtà all’interno del mondo ebraico la musica cólta non-ebraica come risultato di un desiderio di accogliere (e replicare, facendolo proprio) un tratto distintivo di fondo della cultura “altra”.
Va da sé che una dinamica simile va letta all’interno di una cornice nella quale il dislivello fra minoranza ebraica e maggioranza cristiana, quanto a status sociale e culturale, era macroscopico; tanto marcato da essere, per noi oggi, difficilmente immaginabile. L’operazione di ideazione, composizione, esecuzione e stampa dei Canti di Salomone dichiara quindi in ultima analisi una tendenza, da parte ebraica, non tanto assimilazionistica (dunque di perdita di identità e progressivo avvicinamento al mondo cattolico; fino alla conversione, in casi estremi) quanto piuttosto mimetica, imitativa nei confronti della società cristiana maggioritaria. Tutto ciò attraverso l’adozione della polifonia “classica” di tradizione italiana, mirabile contrassegno della cultura “alta” di quel periodo8, e purtuttavia all’interno di una cornice di forte affermazione dell’alterità data dalla propria identità ebraica.
Un luminoso esempio di tragitto “inverso”, rispetto ad esempio a quello del Giubileo, dal cristianesimo all’ebraismo.

  1. https://www.danteonline.it/opere/index.php (Inferno XVIII, 28-33).
  2. Quanto segue riprende e sviluppa alcuni dei contenuti del mio saggio ICantidiSalomoneRossiel’“inven- zione”dellamusicaebraica, in LombardiaJudaica, a cura di Giulio Busi ed Ermanno Finzi, Firenze, Giuntina, 2017, pp. 39-48.
  3. Stanno sullo sfondo di questo articolo gli scritti musicologici di Israel Adler, Don Harrán, Edwin Seroussi, Massimo Torrefranca, Francesco Spagnolo e i lavori pertinenti di Roberto Bonfil, Vittore Colorni (molti dei quali poi raccolti in Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna, Milano, Giuffrè, 1983), Giulio Busi, Paolo Bernardini, Stephanie Siegmund, Michela Andreatta, Erica Baricci, Alessia Fontanella; così come i vari saggi nel volume della Storia d’Italia – Annali 11°, I. Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1996.
  4. Sulle vicende relative al ghetto di Mantova si leggano le pagine pertinenti in Shlomo Simonsohn, History of the Jews in the Duchy of Mantua, Gerusalemme, Kiryath Sefer, 1977.
  5. “The reception of Jews into Christian society was transformed by means of the ghetto from being excep- tional and unnatural into being unexceptional and natural”: Roberto Bonfil, Change in the cultural patterns of a Jewish society in crisis: Italian Jewry at the close of the sixteenth century, “Jewish History”, September 1988, Volume 3, Issue 2, pp 11-30; in seguito riprodotto in Id., Cultural change among the Jews of early mod- ern Italy, Farnham, Ashgate, 2010, p. 18.
  6. Salamone Rossi, Complete Works, a cura di Don Harrán, Part III, Sacred Vocal Works in Hebrew, Volume 13a, Hashirim ’asher lishlomo / “The Songs of Solomon”, General Introduction, Middleton (Wisconsin), Amer- ican Institute of Musicology, 2003, p. 220.
  7. Joshua Jacobson, Defending Salamone Rossi: the Transformation and Justification of Jewish Music in Renais- sance Italy, https://repository.library.northeastern.edu/files/neu:330997/fulltext.pdf (sito visitato il 19 luglio 2025).
  8. Qualche assonanza di visione e metodo può essere ravvisata con lo studio di Alberto Castaldini, L’ipotesi mimetica. Contributo a una antropologia dell’ebraismo, Firenze, Olschki, 2001.

Copyright © 2024 Fondazione RUT, all rights reserved | Cookie & Privacy Policy
arrow_upward