Fuori, il flusso ininterrotto di passi e valigie della stazione Termini; dentro, nella penombra raccolta della vicina chiesa del Sacro Cuore, si rincorrono voci e risate di giovani provenienti da ogni continente. È venerdì primo agosto, vigilia della notte di veglia del Giubileo dei Giovani alla Vela di Calatrava. La porta su via Marsala rimane spalancata: da lì filtrano fasci di luce e frammenti di strada, mentre all’interno si intravedono zaini ammassati negli angoli, bottigliette d’acqua appoggiate ai banchi, mani che sfogliano taccuini e telefoni che catturano istantanee di gruppo.
In mezzo al brulichio di lingue e volti, mi attendono i ragazzi e le ragazze del Nord del Brasile: da Belém, la “porta dell’Amazzonia”, alla maestosa foce del Rio delle Amazzoni, nella regione del Pará; da Macapá, capitale dell’Amapá, unica città brasiliana attraversata dalla linea dell’equatore; e dallo Stato dell’Amazonas.
Sono ventisei giovani dagli sguardi abitati di curiosità e di attesa. Non sono qui per riposare: sono pellegrini in sosta breve, venuti a radicarsi nella preghiera, prima di immergersi nella grande adunata del Giubileo. Indossano magliette dai colori vivaci e braccialetti lavorati a mano. Alcuni stringono al petto il proprio zainetto, altri si scambiano piccole bandiere, mescolando parole in portoghese a sorrisi che parlano tutte le lingue. Partiti dalle comunità amazzoniche, portano con sé storie antiche e nuove di una terra insieme splendida e ferita. Il loro viaggio non è cominciato in aeroporto, ma molto prima: nelle riunioni dei gruppi giovanili, negli abbracci stretti delle famiglie, nei momenti di preparazione in cui si è parlato non solo di itinerari, ma di come incontrare persone e culture diverse. «Li abbiamo preparati non solo a spostarsi – racconta Graciete Cardoso, presenza preziosa dell’Ufficio Sviluppo dell’Opera don Calabria a Marituba, città dell’area metropolitana di Belém, e animatrice del- la Diocesi – ma a incontrare. Perché il viaggio vero è questo: aprire le mani e il cuore».
La rotta li ha condotti prima a Lisbona, poi a Fatima, luogo di silenzio e raccoglimento, e successivamente in Italia, con una sosta al Nord, tra accenti nuovi e ospitalità inattese. In ogni tappa hanno scambiato oggetti e segni, come un braccialetto intrecciato in Amazzonia in cambio di una bandana colorata. «Anche senza comprenderci con le parole – racconta Graciete – riuscivamo a capirci attraverso i gesti. È il linguaggio dell’affetto, capace di unire ovunque».
Poi il viaggio è proseguito verso Roma, dove li ha accolti una marea di volti, la maestosità della Basilica di San Pietro e l’eco di canti in tante lingue diverse. Il 29 luglio la delegazione ha preso parte alla Messa di apertura del Giubileo dei Giovani, celebrata in Piazza San Pietro insieme a migliaia di coetanei pro- venienti da tutto il mondo. Nessuno sapeva con certezza se Papa Leone XIV sarebbe stato presente, finché il suo volto non è apparso tra applausi e ovazioni. «Portate ovunque la speranza che state vivendo qui», ha detto il Pontefice. Parole che Graciete ha sentito come un incarico personale: «Non lasciar spegnere questa fiamma quando tornerai a casa». Il giorno dopo, la visita alla tomba di Papa Francesco ha riportato il gruppo al silenzio e alla meditazione. «Lì ho lasciato gioie e paure – confida – e ho trovato la forza di affrontare quello che mi attende: accompa- gnare i giovani, restare presente».
Inizio a parlare con Álvaro, ventiquattro anni, di Belém, dove coordina l’animazione pastorale giovanile della Diocesi. Ha negli occhi la determinazione di chi sente la propria generazione come «il presente», non solo il futuro. «Papa Francesco ci ha chiamati artigiani del futuro e della pace – spiega – e questo vuol dire costruire con pazienza, ogni giorno. La pace nasce nella famiglia, tra i compagni di scuola, in parrocchia. È lì che impariamo a non escludere nessuno». Del suo popolo dice: «chi viene in Amazzonia si innamora della natura, ma resta colpito dal- la nostra accoglienza. La nostra terra ti apre le braccia. Questo è il nostro contributo alla pace».
Dietro l’entusiasmo, però, non mancano le paure. Per Graciete, la più grande, oggi, è che i giovani non riescano a riconoscere – e a far riconoscere – che siamo tutti fratelli e sorelle. «Come puoi parlare di speranza a chi non ha mai conosciuto un padre o l’abbraccio di una madre? Come trasmettere fiducia e cura a chi non le ha mai sperimentate?», si chiede. «In questi casi non servono discorsi, ma la concretezza degli affetti». Álvaro, invece, teme di sprecare le opportunità che la vita mette sul cammino: «abbiamo tanto potenziale, ma se non perseveriamo, se non ci mettiamo davvero in cammino, rischiamo di lasciar cadere tutto».
Tra loro c’è anche Luana, ventitré anni, di Ananindeua, nella regione metropolitana di Belém. Con voce carica di emozione racconta la sua scoperta più preziosa: la ricchezza della diversità amazzonica. «Nella nostra carovana ci sono giovani provenienti da città e da comunità come Manicoré, nello stato di Amazonas, che vivono in modi completamente diversi dal mio. Con loro ho scoperto mondi e storie che prima ignoravo. Realtà distanti, ma unite dallo stesso obiettivo. È così che dovremmo vivere: con differenze che non dividono, ma arricchiscono». Per Luana, questa esperienza è il cuore del Giubileo: sostenersi a vicenda e restare uniti significa davvero poter cambiare le cose. Vuole condividere con il mondo la straordinaria diversità dei giovani e dimostrare che, lavorando insieme – ciascuno con i propri limiti e le proprie esperienze – si possono raggiungere grandi traguardi. Il suo messaggio ai coetanei è semplice e diretto: «Non abbiate paura di offrire il vostro contributo, anche se vi sembra piccolo. Un gesto, nella sua semplicità, può cambiare la vita di qualcuno». Insegnante e animatrice nella Diocesi, sogna di crescere professionalmente senza mai recidere le proprie radici, portando con sé nel futuro ciò che ha imparato dal servizio agli altri. Perché, ne è convinta, la vera grandezza si misura nella cura silenziosa e costante.
Graciete, Luana e Álvaro non distolgono lo sguardo dalle ferite della loro terra: la deforestazione che avanza come una marea silenziosa, lo sfruttamento minerario che scava non solo nel suolo ma anche nelle vite, i cambiamenti climatici che colpiscono soprattutto le comunità più vulnerabili. Eppure, nelle loro voci scorre la forza vitale dell’Amazzonia. «La bellezza dell’Amazzonia siamo noi – afferma Graciete – Dio ci ha resi unici e ci ha donato una terra ricca. Per questo dobbiamo custodirla come si custodisce un figlio: con amore e con fermezza». Il suo sogno è un’Amazzonia in cui le donne possano «avere voce, essere ascoltate e scoprire la forza che hanno dentro per cambiare la propria storia». Perché in Amazzonia le donne portano cicatrici profonde: violenza domestica, discriminazione, silenzi forzati. «Ma quando una donna si rialza – confida – si rialzano con lei famiglie, comunità, interi villaggi. È un atto di giustizia e di pace».
Prima di andar via Álvaro richiama le parole del Venerabile Guido Schäfer, il “santo surfista” di Rio: «Tutte le nostre azioni devono tendere all’amore di Dio». Poi, con un sorriso che non nasconde la serietà del pensiero, aggiunge: «Se fosse così, non ci sarebbero conflitti. L’amore di Dio è l’unico con il quale nessuno mai perde».
Ci salutiamo, la delegazione deve rimettersi in cammino, ma prima di allontanarsi, Alvaro mi mette tra le mani una piccola spilla con la bandiera del Brasile. Un gesto semplice, che resta appuntato nel cuore ancora prima che sulla giacca.
Quando la delegazione lascia Roma, le valigie sono più pesanti di amicizie, promesse e impegni. Tornano a casa con una certezza condivisa: la pace e la speranza si costruiscono giorno per giorno. Perché la speranza, come l’Amazzonia, non si conserva da sola: va difesa, curata e fatta crescere.