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7 Ottobre 2023 e la Violenza Sessuale come Arma di Guerra: Diritto e Linguaggio nel Dinah Project

di Francesca Cristiano, ricercatrice Fondazione Rut

L’utilizzo diffuso della violenza sessuale da parte di Hamas il 7 Ottobre 2023 costituisce un crimine contro l’umanità. Il Dinah Project nasce con l’intento di far sì che le atrocità consumatesi quel giorno, e in alcuni casi nei giorni a seguire, siano riconosciute quali crimini sessuali.

Il presente lavoro offre un’introduzione giuridica e contestuale di tale libro seguita da un’analisi linguistica dello stesso. La prima parte è un contributo scritto dalle stesse autrici del Dinah Project, che ripercorre la nascita e l’evoluzione del progetto, affronta la tematica della violenza sessuale nei conflitti distinguendola da quella che si verifica al di fuori di questi, e infine, riflette sul supporto che la comunità internazionale potrebbe offrire. Lo scritto, inoltre, pone l’enfasi sulla necessità di riconoscere la violenza sessuale come un crimine contro l’umanità e di stabilire parametri di valutazione giuridica più efficienti.

La seconda parte analizza, invece, la dimensione linguistica della violenza sessuale secondo le varie testimonianze. L’elaborato offre un’analisi quantitativa e terminologica, che esplora gli eventi attraverso la lente linguistica delle vittime e dei testimoni. La lingua veicola e documenta il dolore e il terrore vissuti, attraverso forme di espressione diverse che differiscono a seconda della tipologia di testimonianza. I testimoni diretti e indiretti utilizzano, infatti, termini diversi per descrivere la violenza sessuale che hanno subito in prima persona o alla quale hanno assistito durante o dopo gli avvenimenti specifici.

Il Dinah Project: un nuovo linguaggio per ottenere giustizia per le vittime della Violenza Sessuale nei Conflitti

di Nava Ben – Or, Retired Judge and Founding Member Dinah Project

Prof. Ruth Halperin – Kaddari, Founding Academic Director, The Rackman Center, Bar-I-lan University; Founding Member, Dinah Project; former Vice-President the CEDAW Committee

Sharon Zagagi – Pinhas, Att. Col. (Res), Director Dinah Project and Founding Member

Noi, un gruppo di donne professioniste esperte in diritto penale, diritto internazionale dei diritti umani, studi di genere e servizio sociale, sappiamo che la strumentalizzazione della violenza sessuale come arma è un fenomeno ricorrente. 

All’indomani dell’attacco del 7 Ottobre, in base ai report frammentari che hanno iniziato a circolare sin dall’inizio e alla conoscenza accumulata da altre zone di conflitto nel mondo, (in particolare quelle caratterizzate dal coinvolgimento di irregolari milizie armate operanti al di fuori del diritto internazionale umanitario e delle leggi della guerra) abbiamo preso chiaramente coscienza che, tra le molte atrocità commesse, i terroristi di Hamas avevano fatto un uso diffuso della violenza sessuale. Alcune di noi si conoscono da molti anni e così ci siamo riunite per dare vita a quello che sarebbe diventato il Dinah Project.

Emergendo dalla polvere e dalle ceneri dell’attacco, il progetto ha preso forma in maniera organica. A differenza di altre organizzazioni e istituzioni, il Dinah Project non è né un’iniziativa per raccogliere o documentare testimonianze né un organo investigativo formale. Siamo delle professioniste indipendenti provenienti dal mondo accademico, non affiliate ad alcun ente governativo, ognuna di noi agendo a titolo personale e in nome del progetto.

L’obiettivo iniziale del Dinah Project era quello di affrontare il silenzio, la negazione e la soppressione dei crimini sessuali perpetrati durante e dopo l’attacco del 7 Ottobre. Con lo sviluppo del progetto, il suo ambito si è ampliato fino a includere la mappatura dei crimini commessi durante gli attacchi e successivamente contro gli ostaggi in cattività. Abbiamo cercato di creare un piano d’azione che conducesse alla responsabilità penale per i crimini di violenza sessuale.

Il chiaro riconoscimento che le vittime di questi crimini fossero state ridotte al silenzio ha rappresentato la prima sfida: la maggior parte delle vittime era stata uccisa, mentre coloro che sono sopravvissute restano gravate da un trauma così profondo da non riuscire a testimoniare ciò che hanno subito.

Affrontare questa sfida ci ha portato a una considerazione primaria e centrale: è necessario identificare altre forme di prove ammissibili che non si basino sulle testimonianze delle vittime. Data la natura della violenza sessuale nei conflitti, in cui la violenza è usata come un’arma al fine di propagandare e intensificare la vulnerabilità per terrorizzare intere comunità, tali prove sono più che sufficienti.

Durante il corso di molti mesi e di migliaia di ore, abbiamo monitorato, mappato e analizzato numerosi elementi informativi, per lo più provenienti da fonti aperte e altre fornitici direttamente. 

Ciascun elemento è stato catalogato in base al proprio valore probatorio; successivamente abbiamo esaminato ciascun elemento e analizzato il suo contenuto, la sua correlazione ad altre informazioni e aspetti dei crimini, e infine abbiamo fatto un controllo incrociato e referenziato i vari elementi raccolti. Questo processo ci ha condotto alla conclusione univoca che la violenza sessuale è stata usata sistematicamente in diverse arene dell’attacco del 7 Ottobre.

La fase successiva del nostro lavoro è stata incentrata sull’ottenere una comprensione più profonda delle caratteristiche della violenza sessuale nel conflitto. Alcune di noi, specialmente quelle che hanno avuto a che fare con la violenza “comune” nel proprio lavoro professionale, sono giunte alla conclusione che i termini comunemente usati non riescono affatto a descrivere la violenza nei conflitti, sia per quanto riguarda gli aspetti sostanziali del diritto criminale, come la qualificazione degli atti e la classificazione dei reati (vale a dire: stupro, aggressione sessuale, violazione dell’autonomia della vittima a causa dell’assenza di libero consenso), sia per quanto riguarda gli aspetti probatori relativi alla dimostrazione che questo reato si sia effettivamente verificato (vale a dire: testimonianza della vittima, prove forensi). 

Anche la terminologia usata per distinguere queste due forme di violenza sessuale pone delle difficoltà: in che modo uno dovrebbe descrivere la violenza sessuale che si verifica al di fuori di un contesto di conflitto armato? Non ci sentivamo a nostro agio con espressioni come “ordinaria” o “comune”. Tuttavia, in assenza di espressioni alternative, usiamo questi termini per operare queste distinzioni.

Per chiarire: “violenza sessuale comune” riflette un atto di massima oggettivazione della vittima, in cui il carnefice ha una totale noncuranza della sua volontà. La vittima serve come uno strumento per permettergli di esercitare potere e ottenere controllo, riducendo così il suo corpo a un oggetto privo di qualsiasi volontà propria. 

Questa violenza è tipicamente impersonale; nella maggior parte dei casi, la vittima conosce il carnefice (il quale può essere un partner, un conoscente, un altro membro della famiglia, o qualcuno che esercita qualche forma di autorità su di lei). L’aggressione avviene nella sfera privata e il colpevole generalmente cerca di nasconderla all’opinione pubblica. Il fondamento probatorio di solito si basa sulla testimonianza della vittima, sull’identificazione del carnefice nei casi in cui sia a lei noto, e sull’utilizzo di metodi forensi. Nell’ambito dei reati sessuali “comuni”, una delle principali questioni legali che richiede un esame approfondito è la questione del consenso della vittima.

Nulla di tutto ciò, tuttavia, è rilevante per la questione giuridica che stiamo affrontando qua, in quanto i concetti di “stupro comune” non riescono a cogliere adeguatamente la vera natura della violenza sessuale nel conflitto armato. In questo caso, la violenza non termina con l’oggettivazione della singola vittima. Controllarla è l’unico mezzo per esercitare potere e infliggere terrore a tutta la sua comunità. Essa è utilizzata come un’arma contro la comunità di appartenenza della vittima; è quindi una forma di terrore particolarmente atroce. 

Così come in tutti gli atti di terrore, il suo nome rivela il suo scopo – la violenza sessuale correlata al conflitto non è focalizzata sulla vittima diretta, che è, a differenza dello stupro “comune”, un bersaglio casuale. Piuttosto, essa è intesa a terrorizzare e deumanizzare un’intera comunità. La vittima diretta diventa uno strumento; il suo corpo si trasforma in un campo di battaglia. In questo contesto, la violenza sessuale come arma non è diversa da qualsiasi altra arma, se non per il fatto che è prontamente disponibile, estremamente efficace e terribilmente semplice. 

La violenza sessuale può annichilire una comunità; essa trasmette un messaggio di morte, di genocidio, trasformando deliberatamente il simbolo massimo di vita in un emblema di distruzione. Una comunità sottoposta a tali atrocità non può continuare a esistere, riprodursi o prosperare. Non sorprende che lo Statuto di Roma definisca la violenza sessuale nei conflitti quale un crimine contro l’umanità. Questo è il suo vero scopo e a tali fini, viene perpetrata in pubblico.

Questo ci ha portato alla comprensione che il riconoscimento della violenza sessuale quale crimine contro l’umanità, così come definito dallo Statuto di Roma, richiede un cambio di paradigma dai crimini “comuni” alla violenza sessuale nei conflitti. Il paragrafo 7.1 (g) dello Statuto di Roma definisce i reati sessuali come “[s]tupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata, o qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analoga gravità”. Questa definizione non è compatibile con i principi del diritto penale, incluso il principio di legalità, che richiedono specificità al fine di fornire un previo avviso giuridico. 

Essa apre la porta a domande riguardanti cosa è “qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analoga gravità”? Lo spogliare una vittima ed esibire una donna nuda in pubblico costituiscono dei reati sessuali? E, se sì, tali atti costituiscono “qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analoga gravità” come lo stupro? La mutilazione degli organi sessuali, prima o dopo che la vittima venga uccisa, costituisce un reato sessuale? Lo stupro di un corpo privo di vita è un reato sessuale? La minaccia di matrimonio forzato costituisce reato sessuale? La rasatura dei peli del corpo è un reato sessuale?

Anche i fondamenti probatori necessari per stabilire la responsabilità penale di questi reati richiedono un simile cambiamento di paradigma. Come sopra osservato, le imputazioni penali nei casi di reati sessuali “comuni” si basano di solito sulla testimonianza della vittima e su prove forensi di supporto. 

Tali strumenti probatori sono generalmente assenti nei contesti di conflitto e sono risultati per lo più indisponibili nel caso del 7 Ottobre. La maggior parte delle vittime è stata uccisa (sia prima che dopo le aggressioni); l’elevato numero delle vittime e la necessità di identificarle rapidamente e seppellirle secondo la legge ebraica non ha consentito di attendere per valutare la possibilità di un esame forense. In molti casi, tali esami non erano nemmeno possibili, perché i terroristi di Nukhba hanno bruciato i corpi. 

Inoltre, anche se ci sono alcune sopravvissute, la maggior parte di loro è troppo traumatizzata per essere interrogata e i professionisti che si prendono cura di loro sono vincolati al segreto professionale dai codici etici. Di conseguenza, né le testimonianze delle vittime né i mezzi forensi sono disponibili per l’identificazione dei carnefici specifici.

Queste considerazioni ci hanno condotto alla conclusione che sia necessario sviluppare un modello che affronti la violenza sessuale nel conflitto attraverso strumenti giuridici in grado di condurre a giustizia per l’intera comunità e le vittime dirette. In caso contrario, dobbiamo accettare l’idea che i carnefici godano di una impunità quasi totale rispetto alla responsabilità per gli atti orrendi che hanno commesso. Il libro che abbiamo scritto affronta queste difficoltà e propone delle soluzioni.

La comunità internazionale può rispondere in numerosi modi. Anzitutto, deve condurre una guerra intransigente contro la negazione e il silenzio, inclusi, tragicamente, la negazione e il silenzio da parte delle organizzazioni internazionali dei diritti umani così come dei social media. Tale negazione è spesso fondata su una visione del mondo che rappresenta i terroristi di Nukhba quali “combattenti per la libertà”.

Riconoscere che essi si siano resi responsabili di stupro, mutilazione sessuale e abuso di ostaggi in cattività infrangerebbe questa percezione e costringerebbe i suoi sostenitori a riconoscere il proprio errore. 

Sembra anche che alcuni di coloro che insistono nel negare i crimini sessuali e mantenere il silenzio credano che lo Stato di Israele sia totalmente responsabile del conflitto israelo-palestinese e, di conseguenza, sostengono che Israele non abbia alcun diritto morale di protestare contro queste atrocità. Ma questa posizione implica che alcune vittime siano più degne di altre e che vi siano circostanze nelle quali questo comportamento sia ammissibile o quantomeno comprensibile. Queste nozioni distorte devono essere categoricamente respinte. La condanna deve essere assoluta, inequivocabile e incondizionati.

Inoltre, dobbiamo adoperarci per una definizione più ampia e precisa dei crimini pertinenti nello Statuto di Roma. Crediamo che la risposta a tutte le domande che abbiamo posto sopra, quando abbiamo chiesto se atti diversi, se commessi nel contesto di un conflitto, costituiscono violenza sessuale, debba essere affermativa. 

Deve essere chiarito che qualsiasi uso di un atto sessualmente orientato perpetrato sul corpo di una persona come un’arma contro la comunità alla quale essa appartiene costituisca effettivamente un crimine contro l’umanità, dal momento che questo è il preciso scopo dell’attacco. Inoltre, anche i sistemi giuridici nazionali devono includere tali reati nei propri codici penali, i quali dovrebbero altresì contenere disposizioni sulla giurisdizione universale, al fine di assicurarsi che i responsabili non possano sottrarsi alla loro responsabilità per tali atti. Dobbiamo inoltre realizzare un cambiamento di paradigma nelle norme pertinenti al diritto della prova. 

L’utilizzo di prove riconosciute e accettabili è sempre il punto di partenza per questo cambiamento e questo standard non può essere abbassato, anche se tali tipologie di testimonianze sono meno comunemente usate nel procedimento per “reato sessuale ordinario”. Queste tipologie includono le testimonianze in tempo reale (res gestae), le prove presentate dalle squadre dei primi soccorritori sulla scena e così via. A questo proposito, è importante sviluppare e interiorizzare un protocollo adeguato per la documentazione, affinché, oltre al lavoro di ricerca e soccorso, i primi soccorritori possano registrare con accuratezza ciò che hanno visto.

Il nostro libro richiama con forza gli stati, le organizzazioni internazionali e gli altri attori pertinenti ad adottare misure chiare e decisive al fine di porre fine all’impunità di cui godono le milizie che usano la violenza sessuale come arma nei conflitti, inclusi i terroristi di Hamas. A questo proposito, abbiamo sollecitato con urgenza il Segretario Generale delle Nazioni Unite a includere Hamas nella sua “lista nera”, indicandola come un’organizzazione che impiega la violenza sessuale come arma nel conflitto armato. Questo appello è stato accolto: nella relazione presentata dal Segretario Generale al Consiglio di Sicurez- za il 19.8.2025, Hamas è stata inclusa in tale lista, insieme all’ISIS, a Boko Haram e ad altre organizzazioni terroristiche.

Dinah Project: un’analisi terminologica del linguaggio dell’orrore

di Francesca Cristiano

“Il mio corpo è e non è mio”, questo pensiero di Judith Butler esprime la condizione propria di ogni essere umano, il cui corpo è continuamente in balìa dello sguardo e dell’azione dell’altro. Il nostro corpo ci appartiene, ma allo stesso tempo è vincolato a quel complesso di comportamenti individuali e collettivi che Pierre Bourdieu descrive nel suo libro “Il dominio maschile”.

Il nostro corpo è sottoposto a un intreccio di dinamiche sociali, che lo rendono vulnerabile esposto e violabile, e violati in maniera brutale sono i corpi delle vittime delle violenze sessuali perpetrate da Hamas durante i vari attacchi del 7 Ottobre 2023.

Il Dinah Project nasce con l’intento di riscattare tutte le vittime delle violenze sessuali verificatesi in questa data, e in molti casi nei tempi a seguire, durante i periodi di cattività. Gli abusi riportati sono sistematici e diffusi, e la loro regolarità si riflette nell’utilizzo di termini che si ripetono e che trovano eco nella tragicità degli eventi.

Il libro “A Quest for Justice” prodotto nell’ambito del Dinah Project, riporta diverse tipologie di testimonianze, che sono divise in gruppi differenti: sopravvissuti, testimoni oculari e visivi, testimonianze dei primi soccorritori, prove forensi e materiale visivo e audio.

La violenza sessuale è stata utilizzata come uno strumento di guerra volto a deumanizzare le vittime, privarle della propria agency – intesa come la capacità di agire – e colpire non solo il singolo individuo, ma l’intera comunità ebraica.

L’attacco di Hamas del 7 Ottobre ha reso evidente, in tutta la sua brutalità, come la violenza sessuale non sia un effetto collaterale della guerra, ma un’arma pensata e usata per colpire nel profondo. Le testimonianze dimostrano come il corpo femminile diventi un campo di battaglia strategico, dove si incarna la logica del dominio: non solo sulle vittime dirette, ma sull’intera collettività che esse rappresentano. In questo senso, la teoria di Pierre Bourdieu sul dominio maschile offre una chiave interpretativa preziosa. 

Lo stupro di guerra non è solo un atto di violenza individuale, ma la radicalizzazione di un ordine simbolico che trasforma la sottomissione femminile in un’arma politica e identitaria. Nell’attacco di Hamas, la violenza sessuale ha assunto dunque una funzione duplice: riaffermare la supremazia maschile attraverso l’umiliazione estrema delle donne e, al tempo stesso, colpire al cuore l’identità ebraica, rendendo la corporeità femminile il luogo stesso della devastazione.

In un contesto di violenza così estrema, è nostra responsabilità etica continuare a perseguire la giustizia attraverso uno dei mezzi più potenti a nostra disposizione, ovvero il linguaggio.

Quest’ultimo sarà utilizzato anche come oggetto di indagine, attraverso un’analisi quantitativa e terminologica delle testimonianze raccolte nel report, divise in due gruppi principali, ovvero testimonianze in prima persona e testimonianze indirette.

Tale distinzione è di fondamentale importanza, in quanto emergono delle differenze tra il linguaggio usato dai sopravvissuti e quello usato, invece, dai testimoni indiretti. Così come è emerso nel dialogo con donne provenienti da altri contesti conflittuali, anche in questo caso le sopravvissute sperimentano grandi difficoltà nel raccontare gli eventi di cui sono state vittime.

Il grafico riportato di seguito presenta i termini legati alle violenze sessuali con il relativo numero di occorrenze e offre una comparazione tra i termini usati nelle testimonianze dirette e quelli delle testimonianze indirette. Il linguaggio utilizzato nelle testimonianze dirette appare frammentario e riassuntivo, la menzione alle violenze sessuali subite non è seguita da descrizioni dettagliate.

Il silenzio di queste testimonianze assume un forte valore semantico, esso stesso è indicativo di un dolore talmente forte che non riesce a trovare espressione attraverso le parole. Il silenzio rappresenta il trauma che le vittime hanno vissuto e che continueranno a sperimentare a vita. Come affermato nel report, molte delle vittime non sono ancora state in grado di verbalizzare, nemmeno in minima parte, gli abusi subiti.

Nel corpus delle testimonianze dirette, ci sono 7 menzioni di denudamento forzato, riconosciuto come una forma di violenza sessuale effettiva in contesti di conflitto. Le testimonianze di minacce di stupro sotto forma di matrimonio forzato, invece, sono 6. L’aggettivo forzato ricorre ancora una volta, associato a un atto sessuale. In tutte le sue occorrenze questo termine è indice della privazione della agency, di una costrizione che non lascia spazio al libero arbitrio delle vittime. Le molestie sessuali di natura verbale (3) e gli abusi sessuali di natura verbale (1) sono testimonianze di violenza psicologica, la cui gravità non è da sottovalutare. Le parole sono anch’esse strumenti di potere che mirano a umiliare, denigrare e minacciare l’altro.

Il termine nud* (1) è riferito a un* bambin*, il cui corpo è stato forzatamente esibito pub- blicamente. Questa parata indica un atto performativo di terrore e di spettacolarizzazione della violenza volta ad attaccare la forma di innocenza più pura.

Un altro corpo quasi completamente nudo (1) e privo di vita, quello di Shani Louk, è stato gettato sul retro di un furgone ed esibito a Gaza circondato da terroristi in festa, così come riportato da un filmato. Ancora una volta, il corpo è disumanizzato e diventa strumento di oggettivazione della morte.

Il corpo (15) diviene asse centrale della narrazione nelle testimonianze indirette, il cui linguaggio è più descrittivo e dettagliato. I racconti forniscono immagini visive, che rendono tangibile l’orrore.

Alcuni corpi vengono descritti come nudi legati agli alberi; altri, nudi o seminudi, presentano segni di mutilazione dei genitali ; altri ancora sono stati rinvenuti con oggetti inseriti nelle parti intime.

Gli stupri, che nelle testimonianze dirette sono minacce o tentativi, in quelle indirette diventano atti compiuti. Gli atti di violenza si consumano singolarmente in 4 o 5 casi riportati, mentre 8 sono i casi di stupri individuali.

Significativo è l’utilizzo del termine arabo sabaya (schiava sessuale) (1), usato da alcuni terroristi per riferirsi a una donna che è stata condotta a Gaza dopo l’attacco. La donna viene definita anche come una “cavalla di razza”.

Nuovamente, le parole vengono impiegate come strumento denigratorio e disumanizzante e l’immagine della donna è ridotta a un oggetto da possedere e sfruttare al fine di soddisfare i propri desideri sessuali.

I testimoni dei due gruppi tendono a lessicalizzare diversamente lo stesso concetto e la differente intensità semantica delle parole utilizzate rappresenta un ulteriore elemento di divergenza.

Infatti, nelle testimonianze dirette vengono adoperati termini meno estremi, come, per esempio, molestia sessuale verbale e fisica (2) e aggressione sessuale fisica (2).

Nelle testimonianze indirette, invece, vengono impiegate parole più incisive, come tortura (1), mutilazione (7) e violenza sessuale (4).

Le dissimili scelte linguistiche riflettono gradi diversi di elaborazione e rappresentazione del trauma vissuto. I testimoni diretti mostrano una capacità limitata di verbalizzare il proprio dolore e utilizzano un linguaggio meno analitico, mentre i testimoni indiretti usano una terminologia più specifica e descrittiva.

L’analisi di questi termini ci permette di interpretare la sofferenza che essi racchiudono e di utilizzare il linguaggio come uno strumento utile a restituire voce a chi ne è stato privato, dando valore anche ai silenzi. La lingua diventa un mezzo di resistenza e ci da la possibilità di restituire dignità alle vittime, i cui corpi violati sono eterne grida di dolore.

I due testi, pur essendo di natura diversa, sono accomunati dallo stesso scopo: rendere giustizia e dignità alle vittime.

Le due prospettive dalle quali il tema della violenza sessuale nei conflitti è affrontato, sono necessarie affinché l’impunità dei crimini non resti la norma e il silenzio non sia l’unico mezzo per non raccontare la verità.

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